Un ricordo di Agitu

Ho accolto la notizia della morte di Agitu con incredulità, come tutti. Dopo aver letto la notizia su una testata online ho atteso di vedere confermato il fatto da altre fonti nella speranza che si trattasse di un errore. Il primo pensiero è corso alle minacce, agli insulti razzisti ed all’aggressione che poco tempo prima aveva subito ma a fatica ritenevo possibile che la situazione fosse degenerata a tal punto da sfociare in un assassinio. Il passare delle ore ha presto svelato come l’autore del suo assassinio fosse un uomo del Ghana che lavorava per lei.

Quando avevo saputo, alcuni anni prima, che nella val dei Mocheni in Trentino, era stata aperta una fattoria per fare prodotti a base di latte di capra da parte di una donna etiope laureata in Sociologia, mi ero subito ripromesso di andare a trovarla per conoscerla, un proposito condiviso anche con alcuni amici. Ero curioso di conoscere un progetto avviato con coraggio in un contesto sociale certamente non facile e per di più da una donna africana e nera. Avevo letto di come lei in passato fosse stata costretta a lasciare l’Etiopia in seguito alle minacce ricevute per aver partecipato alle lotte dei contadini contro l’accaparramento delle terre da parte delle multinazionali; un fenomeno altresì noto come landgrabbing.

Lei infatti dopo essersi laureata a Trento, tornò in Etiopia arricchita della propria esperienza europea, per contribuire a riallacciare i fili della lotta contro i tentacoli del capitalismo occidentale ed asiatico, impegnato a rubare migliaia di ettari di terreno ai parchi nazionali ma soprattutto a piccoli contadini per imporre coltivazioni intensive – con ingente spreco delle già scarse risorse idriche – di canna da zucchero, olio di palma, tulipani, mais (quest’ultimo per produrre sacchetti biodegradabili invece che per l’alimentazione locale) destinati all’esportazione dove i contadini e le contadine etiopi, ipersfruttati/e e sottopagati/e, erano poi costretti a stravolgere le proprie abitudini e lavorare in ambienti malsani, in luoghi e terreni in cui venivano utilizzati pesticidi e prodotti chimici illegali in Europa ma che potevano essere utilizzati se chi ne subiva gli effetti malefici erano i proletari etiopi. Lo slogan spesso abusato dell’ «aiutiamoli a casa loro» si traduce nella realtà del «rendiamoli schiavi a casa loro».

L’esperienza di Agitu in Trentino in periodi così diversi (dagli anni degli studi a Sociologia nei primi anni 2000 fino agli anni successivi al 2010 dopo il ritorno dall’Etiopia) le aveva permesso di vivere e sperimentare sulla propria pelle il radicale cambio di clima politico e sociale e la pesante intolleranza verso gli stranieri fomentata in ultima battuta con la campagna elettorale del 2018 che aveva visto la Lega di Salvini e altri partiti di estrema destra cavalcare e fomentare paure e odio verso gli stranieri, sdoganando i peggiori insulti e le peggiori azioni razziste, anche in Trentino, dove la situazione non era tuttavia facile per lei.

Agitu aveva una preparazione storica e politica che le permetteva di difendersi a muso duro dalle menzogne propagandate sui social o sui media ed attraverso rapporti reali aveva saputo costruire una fitta rete di rapporti e amicizie in tutta la Regione.

Dopo le minacce che aveva subito da parte di un vicino avevo deciso di scrivergli una lettera di solidarietà. Una lettera vera, non una email. Sì, con carta, penna e francobollo. Ho pensato che fosse un gesto più bello, meno freddo e asettico di una mail. Le avevo scritto dell’importanza della solidarietà, di non farsi intimorire, di andare avanti nonostante le difficoltà, che le nostre idee fossero più forti di tutto. Mi aveva fatto sorridere come in un’intervista successiva aveva parlato dell’estesa solidarietà ricevuta dicendo che c’era anche chi, non pratico di tecnologia, le aveva scritto una lettera di carta. Immaginavo si riferisse alla mia lettera, visto che nel 2018 credo pochi ricorrano ancora a tale mezzo per comunicare.

La prima volta che avevo avuto la possibilità di fare due chiacchere con lei era stato durante un mercatino di Natale a Egna, dopo che l’avevo riconosciuta dietro a una bancarella. Un’oretta circa in cui avevamo parlato di politica e in cui convenivamo come fosse insopportabile la narrazione che veniva fatta dell’immigrazione, su tutti i fronti. Da una parte la becera retorica leghista e fascistoide, dall’altro una retorica pietista e pseudo caritatevole incapace di individuare le cause materiali che spingevano migliaia di uomini e donne a lasciare la propria terra e che andava a rinforzare chi sproloquiava di invasione. Cause precise contro cui lottare con lucidità e intelligenza. Ci eravamo incontrati un altro paio di volte, sempre a margine del suo lavoro. E avevamo poi concordato di sentirci per registrare un’intervista durante la trasmissione Malaerba su Radio Tandem, cosa che eravamo poi riusciti a fare.

Forse per via degli studi comuni avevo subito fiutato la tua formazione marxista e infatti i termini che usavamo erano gli stessi: “classe” “sfruttati” “proletari” ecc. Ricordo ancora con un sorriso il nome con cui avevi chiamato un gatto che avevi ai tempi dell’Università: Lenin.

La tua stessa storia personale era un esempio di come fosse possibile raccontare l’immigrazione in un altro modo, con un’altra forza, capace di annichilire e spazzare via con un soffio le idiozie e menzogne razziste.

I giornali nazionali e internazionali parlano di te come un simbolo di integrazione, una parola abusata che non significa nulla, e convenivamo anche in ciò. Integrazione con chi? Su che basi?

Mi sarebbe piaciuto fare altre chiaccherate, magari organizzare una serata per parlare dal vivo di landgrabbing e della necessità di collegare il tema dell’immigrazione alle guerre e allo sfruttamento di cui anche le aziende multinazionali ed i governi italiani sono complici.

Sei stata uccisa da un uomo che avevi cercato di aiutare come potevi con tutte le contraddizioni e difficoltà del caso, sembra per uno stipendio arretrato ancora non pagato e ciò rende tutto ancora di più difficile comprensione se non altro per il fatto che ciò porta la vicenda su un piano strettamente materiale che stride di fronte a ciò che, spesso in modo indipendente dalla tua volontà, avevi finito con il rappresentare in quanto donna africana nera e “libera in un mondo di schiavi” come scritto su uno striscione apposto sul tuo negozio a Trento. Una combinazione di elementi che fa saltare il banco ad ogni farabutto razzista che campa sul risentimento, sull’ignoranza e sulla paura.

Nel difficile momento storico che stiamo vivendo e che vivremo la tua perdita pesa e peserà come una montagna, ci mancherà soprattutto ciò che avresti fatto in futuro. Ma di certo posso assicurarti che continueremo a lottare contro le ingiustizie che tu stessa denunciavi, senza girare la testa dall’altra parte, assumendoci le nostre responsabilità.

Enzo

This entry was posted in Antirazzismo, Critica sociale, Internazionalismo, Malaerba, Oltre il Brennero and tagged , , , , , . Bookmark the permalink.