Un ricordo di Sante Notarnicola, operaio, bandito, poeta, rivoluzionario
Appena ho saputo della morte di Sante sono ritornato alle bellissime ed intense giornate trascorse insieme fra Trento e Bolzano nel maggio 2014. Nonostante siano passati quasi sette anni ho un ricordo piuttosto nitido di un incontro che porterò sempre nel cuore.
A Trento con i compagni avevamo organizzato una serie di iniziative sul tema del carcere “D’ogni dove rinchiusi si sta male” e chi meglio di Sante, con le sue poesie e la sua esperienza, avrebbe potuto concludere il ciclo?
Dopo aver chiesto il suo contatto a dei compagni bolognesi lo chiamai e lui fu subito disponibile e curioso di salire in una zona d’Italia che non conosceva direttamente anche se negli anni in cui era dietro al bancone del Pub Mutenye di via del Pratello aveva conosciuto numerosi studenti universitari di Trento e Bolzano fuori sede a Bologna.
Lo andai a prendere alla stazione dei treni di Trento in tarda mattinata e non nascondo che provavo una certa emozione nell’incontrare un compagno che rappresentava un pezzo di storia del movimento rivoluzionario e di classe di questo Paese: pugliese di Castellaneta aveva vissuto sulla propria pelle la discriminazione che i piemontesi riservavano ai terroni immigrati come lui, si era formato al Banfo la IX sezione torinese del PCI a Barriera di Milano dove aveva imparato che essere comunisti è l’unico modo per essere uomini. Qui partecipò ai primi scioperi, alle lotte contro i provocatori fascisti e i crumiri, le uscite in notturna nelle periferie torinesi a scrivere sui muri “W lo sciopero abbasso Valletta”. Da militante di base aveva vissuto il trauma del rapporto Krusceev sui crimini di Stalin al XX congresso del PCUS che, come scrisse lui “Fu una legnata per molti compagni e ne portammo i segni per parecchio tempo […] fu come un accoltellamento alla schiena”. E poi alcuni anni dopo gli scontri di piazza Statuto, l’insoddisfazione per l’involuzione riformista ed accomodante del PCI che lo portò, insieme ad altri proletari ed in un epoca in cui al di fuori del partito non c’era nulla, ad attaccare il capitale attraverso rapine che via via si fecero sempre più audaci e che lo portarono, nel 1967, all’arresto insieme al resto della cosiddetta Banda Cavallero. Una vicenda che venne poi raccontata in modo macchiettistico dal regista Carlo Lizzani nel film Banditi a Milano. Riuscì poi a trasformare il carcere in un terreno di lotta e privo della libertà attraversò da protagonista le mobilitazioni che anche in Italia si diffusero con il ’68. I suoi incontri con i detenuti in carcere riflettevano la conflittualità sociale sempre più aspra che attraversava il Paese: dagli anarchici arrestati dopo le bombe fasciste del 25 aprile 1969 alla strage di piazza Fontana ed alla successiva nuova ondata di arresti di anarchici con la seguente morte di Pino Pinelli. Gli anni dopo ebbe importanti rapporti con Lotta Continua riuscendo a porre all’esterno il problema del proletariato prigioniero, fino ai rapporti con i militanti delle varie organizzazioni della lotta armata. Diventò col tempo un punto di riferimento delle lotte dei prigionieri contro il carcere, impegnandosi a costruire solidarietà e coscienza politica lì dove secondo le intenzioni dei carcerieri avrebbero dovuto prevalere la rassegnazione e l’egoismo. Al processo d’appello del dicembre 1971 a Milano dichiarò:
Voi continuerete a imprigionare tutti coloro che vi danno fastidio o sono un pericolo per il vostro disordine costituito. Voi getterete in carcere i pacifisti, gli obiettori di coscienza, noi li aiuteremo a superare le asprezze e le privazioni di questa vita e di questo ambiente. I detenuti comuni, gli sbandati, i ribelli senza speranza, noi ve li ritorneremo con una coscienza rivoluzionaria. Questo è il mio impegno, questo è il vostro errore. Voi credete di aver vinto e invece, anche con me, avete già perso la battaglia.
Dopo aver caricato la sua valigetta in auto, lo portai a bere una birretta in piazza Duomo, che ammirò estasiato. Seduti a un tavolino a lato della piazza iniziammo a chiaccherare del passato e del presente. Riguardo a Trento non aveva grandi ricordi, nemmeno in relazione all’eco delle lotte degli studenti di Sociologia che sul finire degli anni Sessanta attraversavano la città. Il primo fatto che gli venne in mente fu la “gogna” che il 30 luglio 1970 gli operai della Ignis fecero fare ai due fascisti del Movimento Sociale Italiano Gastone del Piccolo e Andrea Mitolo, trovati con un ascia nella borsa, dopo che un gruppo di mazzieri missini aveva aggredito ed accoltellato gli operai in sciopero. Oltre a ciò naturalmente il suo pensiero andò a Margherita Cagol Mara, fondatrice e dirigente delle Brigate Rosse, uccisa durante uno scontro con i carabinieri a Cascina Spiotta, nel giugno 1975. A pranzo mangiammo in un ristorante del centro, prese della carne cruda non mancando di raccontare come fosse un piatto che a suo tempo mangiava spesso nelle trattorie frequentate dagli operai della Fiat. Non nascondeva il suo stupore per essere – negli ultimi anni – invitato sempre più spesso a raccontare la propria esperienza in spazi anarchici, lui che ci aveva tenuto a dirmi subito come fosse stalinista, una definizione che per lui significava grande rigore politico e morale. Certamente a rendergli simpatici gli anarchici giocò il fatto che essi erano e sono, se non gli unici, fra i pochissimi che lottano contro l’istituzione carceraria. E lui, che dopo la sua liberazione in via del Pratello era di casa, aveva avuto modo di conoscere alcuni compagni mentre facevano dei presidi solidali con i giovanissimi detenuti del carcere minorile presente nella via.
Il pomeriggio mi chiese di accompagnarlo al cimitero di Trento, voleva portare un fiore sulla tomba di Mara. Mi aveva già accennato a questo suo desiderio durante il nostro colloquio telefonico e perciò nei giorni precedenti mi ero già portato al cimitero per cercare la sua tomba in modo da andare a “colpo sicuro”. Non nascondo una certa emozione nel rievocare un momento di cui ho ancora l’immagine nitida davanti agli occhi. Nel baracchino vicino aveva comprato un mazzo di fiori rossi, non ricordo bene quali, e dopo aver raggiunto la sua tomba, posò i fiori sulla lapide di Margherita Curcio Cagol su cui c’è scritto Chi dona la sua vita la salva. Rimase alcuni momenti in silenzio, raccolto, io ero molto emozionato, sentendomi a tratti inadeguato, di fronte a questo intenso incontro, seppure virtuale, di due persone appartenenti a due diverse generazioni, che avevano dato tutto nella propria scelta di ribellarsi e lottare. Mi disse che nei lunghi anni di carcere il discorso capitava spesso su Mara e ciò che emergeva sempre era il grande rispetto che lei, capace di organizzare l’evasione del proprio marito e compagno Renato, aveva saputo guadagnarsi in un ambiente in ogni caso non facile per una donna che si dimostrò capace di trovare sintesi ed equilibrio fra le varie anime e tendenze dell’organizzazione. Subito dopo aver appreso della sua morte, Sante, all’epoca detenuto nel carcere di massima sicurezza sull’isola di Favignana, gli dedicò la poesia A Mara:
Fu scarno il commiato dei compagni / poi colonne di piombo a lacerarti / insinuare negli animi deboli una fragilità ch’è patrimonio tutto borghese / la nostra prece ha sfumature diverse / nella mente precisi gli obiettivi / e nel cuore resta fissa la generosità tua che / a braccia spalancate tutto hai dato sotto un cielo chiaro di giugno.
Dopo aver riposato a casa e letto alcune pagine del libro Il sistema periodico di Primo Levi che aveva con sè, la sera andammo allo spazio anarchico El Tavan, gremito di compagni e compagne, per la presentazione della sua raccolta di poesie nel libro L’anima e il muro. Iniziò la serata spiazzando un po’ tutti, ringraziando dell’invito ma rivendicando ancora di essere stalinista, cresciuto alla scuola del Banfo. Durante la serata vennero lette, con accompagnamento musicale, alcune sue poesie prese dalla raccolta L’anima e il muro, una cosa che lo commosse. Rimanemmo diverse ore a chiaccherare in una di quelle serate che vorresti non finissero mai.
Il giorno dopo replicammo la serata anche a Bolzano, in una biblioteca locale ancora una volta affollatissima, per ascoltare la testimonianza di un compagno sempre in prima linea nelle lotte più dure e importanti che avevano attraversato le carceri italiane del secondo dopoguerra. Finita la serata, mentre tornavamo alla macchina per rientrare a Trento, passammo vicino a un monumento dedicato al carabiniere ucciso dai nazisti Salvo d’Acquisto, una cosa che gli fece riaffiorare un momento della sua lunga detenzione e scoppiò a ridere ricordando un aneddoto che purtroppo non ricordo più, a differenza della sua bellissima risata.
Decise poi di passare un altro giorno con noi ed il giorno seguente insieme a Lucia andammo sul monte Bondone per pranzo in un rifugio gestito da compagni: ricordo il suo sguardo meravigliato dalla bellezza della montagna e delle cime ancora innevate, ringraziando per il “regalo che gli avevamo fatto”. Mi meravigliò il fatto che fosse juventino, la squadra degli Agnelli e glielo dissi: mi raccontò così che si trattava di una scelta legata alla sua condizione di emigrato del Sud, una specie di reazione contro i torinesi di Torino, legati alla squadra granata e mai troppo benevoli con i terroni.
Senza rischio di cadere nelle retorica a buon mercato, in quei pochi giorni passati con lui la cosa che ricordò con maggior affetto è proprio la forte carica umana che portava con sé. Un compagno premuroso, attento agli aspetti emotivi che la lotta politica porta con sè, un compagno che si prendeva cura degli altri, di chi si trovava ancora in carcere, e che aveva un amore viscerale per i libri, consigliandone diversi che ho poi puntualmente letto, capace di ascoltare con grande umiltà, senza fare pesare il proprio immenso bagaglio di esperienze. Ricordo ancora con affetto e stupore la sua chiamata dopo la manifestazione contro il muro antimigranti e le frontiere al Brennero, il 7 maggio 2016, in cui chiedeva come stavamo domandando aggiornamenti sulla situazione. Pensa Sante, adesso per quella manifestazione la procura di Bolzano, dopo aver già regalato alcune decine di anni di galera, chiede oltre 330 anni di carcere per 63 compagni/e. E mi viene in mente una delle tue poesie che amo di più La nostalgia e la memoria che parla della generazione che correva compatta da papà Cervi a consolarlo, a consolarsi, degli operai perseguitati da Scelba e da Valletta, di tutti quelli che nella storia, nonostante le peggiori porcate e infamie commesse obbedendo zelanti alla legge, la passano sempre liscia. Tanti compagni/e rischiano di pagare un prezzo altissimo per non essersi girati dall’altra parte mentre migliaia di persone morivano – e muoiono – in mare o sui passi alpini, contro cui volevano militarizzare un confine con muro annesso. La cosiddetta società, soprattutto oggi, fatica a capire cosa abbia spinto, in passato come oggi, centinaia e migliaia di persone a rischiare la propria libertà per difendere quella altrui. Il motivo, ieri come oggi, è lo stesso che hai descritto in – Comunismo – un’altra tua bellissima poesia: É l’inno all’amore di sempre: per l’uomo sfruttato, inchiodato, calpestato che finalmente dall’officina e dalla prigione alza l’arma e la fronte.
Ciao Sante, grazie. Un brindisi a te
Enzo