Processo per i fatti del Brennero. Un processo politico. Alcune considerazioni.

“Che cos’è un uomo in rivolta? Un uomo che dice no. Ma se rifiuta, non rinuncia tuttavia: è anche un uomo che dice di sì, fin dal suo primo muoversi. Uno schiavo che in tutta la sua vita ha ricevuto ordini, giudica ad un tratto inaccettabile un nuovo comando. Qual’è il contenuto di questo no? Significa, per esempio “le cose hanno durato troppo”, “fin qui sì, al di là no”, “vai troppo in là” e  anche “c’è un limite oltre il quale non andrai”. Insomma questo no afferma l’esistenza di una frontiera.”

“Nell’esperienza, assurda, la sofferenza è individuale. A principiare dal moto di rivolta, essa ha coscienza di essere collettiva, è avventura di tutti. Il primo progresso di uno spirito intimamente straniato sta dunqe nel riconoscere che questo suo sentirsi straniero, lo condivide con tutti gli uomini, e che la realtà umana, nella sua totalità, soffre di questa distanza rispetto a se stessa e al mondo. Il male che un solo uomo provava diviene peste collettiva. In quella che è la nostra prova quotidiana, la rivolta svolge la stessa funzione del “cogito” nell’ordine del pensiero: è la prima evidenza. Ma questa evidenza trae l’individuo dalla sua solitudine. E’ un luogo comune che fonda su tutti gli uomini il primo valore. Mi rivolto, dunque siamo.”

Albert Camus “L’uomo in rivolta”

Molte volte, a scuola, al lavoro e nelle piazze, ci siamo chiesti come è stato possibile che in passato siano accaduti orrori come l’olocausto, le persecuzioni razziali, i genocidi, le torture di massa, le pulizie etniche ecc. Come è stato possibile che determinati crimini venissero perpetrati sotto gli occhi di tutti e che, nell’annichilimento generale, nessuno facesse niente?

Come è stato possibile arrivare alle leggi razziali, alla costruzione, nel caso del nazifascismo, di un sistema industriale per cancellare dalla terra interi popoli? Come è stato possibile, ieri come oggi, permettere ai governi di trascinare milioni di persone in immensi conflitti e convincere le masse che venivano fatti nel loro interesse? Come è stato possibile che nessuno, o solamente pochi, abbiano trovato il coraggio di opporsi, spesso pagando il prezzo più alto, mentre la maggioranza stava a guardare? Quali sono stati i passaggi storici che hanno preparato il terreno, prima nelle coscienze e poi nella realtà, attraverso dispositivi giuridici, al compimento di tali orrori? Siamo sicuri che oggi, in un momento in cui parole d’ordine e pratiche razziste vengono sistematicamente sdoganate, sapremmo opporci alle stesse ingiustizie? In che modo? 

Non troveremo le risposte a queste domande fra le righe di un codice penale, lo stesso attraverso cui, la Procura di Bolzano intende, attraverso l’articolo 419 del codice fascista Rocco, seppellire sotto oltre 300 anni di carcere 63 compagni e compagne che sono scesi in strada al Brennero nel maggio 2016. 

“Abbattere le frontiere-Grenzen Niederschlagen” Brennero 7 maggio 2016

Coloro che sono scesi in strada al Brennero oltre 4 anni fa erano mossi dalla consapevolezza che il principale alleato di chi costruisce progetti grondanti di sangue è l’apatia e la paura dei proletari. Vi era la consapevolezza che soltanto con un po’ di generosità, slancio e decisione sarebbe stato possibile inceppare la tragica normalità con cui gran parte delle persone diviene spettatrice di aberrazioni di ogni tipo e dimostrare come la martellante propaganda xenofoba non aveva anestetizzato tutte le coscienze. E per fare ciò non poteva certo bastare una lettera al giornale, un post sui social network oppure un flash mob sotto i flash dei giornalisti.

Non può essere normale costruire un muro antimigranti

Non può essere normale deliberare invasioni militari, guerre, bombardamenti e pulizie etniche

Non può essere normale assistere passivamente alle stragi nel Mediterraneo o alle morti su passi alpini.

Il banner che pubblicizzava il corteo del 7 maggio 2016 al Brennero

Sebbene materia per avvocati ci sarebbe molto da dire sull’entità di tali richieste da parte degli zelanti PM bolzanini, contro manifestanti accusati di devastazione e saccheggio per un corteo dove il Ministero dell’Interno ha chiesto (esagerando) poche migliaia di euro di risarcimento e dove i manifestanti sono stati inizialmente caricati dalla celere mentre si stavano portando sui binari.

Quale obiettivo si sono posti i procuratori bolzanini titolari dell’accusa?

E’ proprio questo il punto in cui il processo assume una valenza politica che si desume dall’incredibile discrepanza fra la realtà dei fatti accaduti in quella giornata e l’assurdo disegno accusatorio creato dalla Procura bolzanina che, supportata dalla grancassa mediatica, ha lavorato di fantasia costruendo una narrazione tesa a trasformare, agli occhi del Tribunale e in generale della società, una giornata di lotta contro il muro e le politiche razziste in una giornata dove un gruppo organizzato di vandali si è trovata al Brennero per distruggere il ridente paesino sul valico, perchè non avevano altro da fare.

L’obiettivo che essi si pongono è intimidire, punire e isolare, attraverso una pena volutamente sproporzionata, chi ha ancora la forza, il coraggio, la determinazione di lottare contro un sistema sociale ed economico che vive di guerra, razzismo, sfruttamento degli uomini e dell’ambiente.

Il solito vecchio giochino della peggiore repressione di ogni epoca: ignorare il contesto sociale e politico in cui un fatto è maturato riconducendo ad una devianza atavica il comportamento di chi è sceso in piazza o di chi ha violato, per qualche motivo, la legge. Seguendo tale schema retorico se i detenuti di un carcere o di un lager per immigrati si ribellano non è per colpa della sofferenza, del sovraffollamento, della mancanza di cure o di cibo decente ma è colpa di fantomatici istigatori o di presunti capi che fomentano. Con lo stesso schema i tribunali fascisti condannavano gli oppositori politici che si opponevano alla dittatura ed alle sue guerre e leggi razziali, i tribunali americani condannavano i militanti neri che si ribellavano alla segregazione razziale ed i tribunali turchi condannano oggi curdi e turchi che si oppongono ai progetti guerrafondai di Erdogan. La legge, ieri come oggi, serve a mantenere uno status quo ed esprime dei rapporti di forza fra classi sociali. Al riguardo le richieste di condanna dei procuratori bolzanini ne sono la dimostrazione più eclatante. Perchè ribellarsi dato che viviamo nel migliore dei mondi possibili?

Richiedere 338 anni di carcere per una manifestazione collettiva in cui sono stati contestati 8000 euro di danni è già di per sé, allucinante, ma ciò che deve far riflettere è la disinvoltura con cui alcuni uomini togati possano farlo, come essi, presi da una sorta di delirio di onnipotenza, si sentano in diritto di farlo. Un tentativo pericoloso di criminalizzazione del dissenso e che intende abbassare sempre più la tolleranza del potere nei confronti di ogni manifestazione di rabbia degli oppressi o di chi ne prende le parti. Negli ultimi anni infatti sono innumerevoli i processi istituiti in tutta Italia contro compagni e compagne, in particolare anarchici, per manifestazioni di piazza o per reati associativi. Oltre a ciò la repressione, forte anche degli strumenti forniti da Salvini e dal movimento 5 stelle con i decreti sicurezza I e II, si accanisce contro i lavoratori più combattivi, come gli operai del SiCobas, protagonisti di lotte durissime e vincenti oltre che oggetto privilegiato della repressione di polizia e magistratura come dimostra il maxiprocesso contro 400 operai colpevoli di aver scioperato, che a breve si terrà a Modena.

In un volantino pubblicato sulla pagina Facebook Bolzano Antifascista è stato scritto:

Centinaia di compagni e compagne sono scesi in strada al Brennero, 4 anni fa, per rompere l’indifferenza e l’inerzia con cui ormai troppe persone, accettano tutto, anche le peggior ingiustizie, consapevoli che non sarebbe stata sufficiente la marcia simbolica. Centinaia di compagni e compagne si sono assunti una responsabilità, ed hanno voluto interrompere la tragica normalità con cui certe decisioni vengono prese, come le guerre, i bombardamenti o la possibile costruzione di un muro a dividere due popolazioni, muri che non appartengono al passato, come vorrebbero farci credere coloro che celebrano solo la caduta del muro di Berlino, ma costituiscono un tragico presente: dal muro fra Israele e territori occupati palestinesi al muro fra Messico e Stati Uniti, dal muro fra Turchia e Siria alle barriere fra Serbia e Ungheria. Muri e fili spinati producono morte, paura, odio e razzismo. Centinaia di compagni hanno voluto rompere la mediocre apatia con la quale la maggioranza della popolazione vive ed apprende le più inaccettabili decisioni dei governi, attraverso uno schermo televisivo oppure limitandosi a commentare un inutile post su Facebook.”

É importante, oggi più che mai, ricordare e riaffermare, oltre ogni strumentalizzazione e mistificazione, lo spirito che portò centinaia di compagni e compagne a manifestare al Brennero in quella giornata.

Le prossime udienze del processo per i fatti del Brennero saranno l’11 settembre, quando sarà possibile fare delle dichiarazioni spontanee individuali e collettive, il 2 e il 9 ottobre, sempre alle ore 10.

Non lasciamo soli i compagni e le compagne sotto processo. 

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Storie di carcere. Il libro “Rinchiusa-Unrecht” di Agnes Schwienbacher

Quando sui giornali leggiamo di “brillanti operazioni” antidroga o presunte associazioni a delinquere a fine di spaccio siamo poco abituati a chiederci chi siano le persone sbattute in prima pagina e messe alla gogna, spesso considerati, in quanto tossicodipendenti, alla stregua di rifiuti sociali. Al di là di alcuni casi in cui vi è la presenza reale di criminalità organizzata, molto spesso a finire nella rete che viene costruita, a volte inventata di sana pianta, dal magistrato di turno, sono piccoli consumatori, persone la cui vendita e consumo di sostanze avviene all’interno di reti amicali o di conoscenti. Persone a cui vengono rifilate con una facilità disarmante numerosi anni di carcere in disegni accusatori costruiti su intercettazioni, allusioni e interpretazioni, spesso degne di film fantasy.

Una di queste roboanti operazioni, supportate dalla grancassa mediatica, fu l’operazione antidroga Sinergy, condotta congiuntamente da polizia e carabinieri nel novembre 2007 e che portò all’arresto, fra Trentino-Alto Adige e altre regioni, di 48 persone, gran parte delle quali poi trasferite nelle patrie galere.

Dopo le notizie di cronaca solitamente non sappiamo più nulla, che fine fanno le persone accusate, come la loro vita venga sconvolta, come una debolezza venga trasformata in una pena draconiana da scontare.

Una delle persone coinvolte nell’operazione, Agnes Schwienbacher, si è decisa, dietro sollecitazione, fra gli altri, di Peter Oberdorfer, a raccontare, nel libro Rinchiusa-Unrecht pubblicato dalle edizioni Raetia, così come nel corso della trasmissione Malaerba su Radio Tandem, come la propria vita venne sconvolta dall’arresto, dal carcere, dai processi, in cui scoprì cosa cosa significa trovarsi improvvisamente in balia degli eventi, pedina di un disegno scritto da altri in cui le forze impari in campo non permettono un’adeguata difesa. Un libro prezioso che permette di leggere e conoscere il punto di vista di chi in tali operazioni rischia di finirci stritolato, a maggior ragione se rimane isolato.

Copertina del libro di Agnes Schwienbacher “Unrecht”

Un libro che ci racconta l’importanza di mantenere vive e salde le relazioni di solidarietà, oltre alla necessità di sapere leggere criticamente ciò che avviene fra le righe di un fatto di cronaca, con le sue inevitabili implicazioni di classe.

Dopo l’arresto, avvenuto in una notte del novembre 2007 nella sua casa della Val d’Ultimo, Agnes apprende ciò che è successo nel suo complesso da una articolo che le viene mostrato da una compagna di cella nel carcere La Dozza di Bologna che le permette di inquadrare la situazione:

Erna mi mostra un articolo di giornale del 14 novembre 2007: operazione Sinergy: carabinieri e polizia portano alla luce presunto giro di droga in Trentino […] Oltre al testo ci sono foto in quantità degli imputati, a me sconosciuti. Vedo anche una mia foto, ci sono anche il mio nome, la mia età, il luogo di residenza. […] Mi sento alla mercè della giustizia. Studio il mio atto di accusa. Deve esserci una ragione, una qualche logica, se muovono un’accusa nei miei confronti. […] Pezzo per pezzo ricostruisco le mie telefonate e gli scambi via SMS delle ultime settimane e mesi. Nel mio atto di accusa ci sono anche le vicende degli altri imputati. Non conosco nessuno di loro. E mi si rizzano i capelli in testa per tutto ciò di cui mi si accusa. Sono tantissime le traduzioni e interpretazioni che non corrispondono al vero. Ogni cosa di cui ho parlato per loro è droga. Tutti gli interlocutori sono miei clienti che non hanno nulla a che fare con la questione.”

Un’esperienza tragica in cui Agnes racconta come riuscì a salvarsi dal tritacarne dei Tribunali e delle galere, e dal disinteresse degli avvocati d’ufficio:

Il 14 febbraio 2008 in Tribunale a Trento. […] Giudice, Pubblico Ministero e cancelliere sono già in piedi davanti a me. Come avevo già scritto al mio avvocato, metto in chiaro i fraintendimenti e le traduzioni errate riportate nel mio atto d’accusa. Sono accusata di essere stata in possesso di mezzo chilo di eroina. L’imputazione, stando all’atto di accusa, nasce dal fatto che il giorno X il signor X sarebbe stato beccato con quasi un quarto di chilo di eroina e al telefono avrebbe detto a qualcuno: Lei non mi ha dato enanche la metà della cosa. Si è concluso che s’intendeva fossi io ad avergli dato quel quarto di chilo e che avessi dovuto avere un ulteriore quarto. Invece si trattava di soldi. […] Il 6 maggio 2008 […] a causa del traffico di stupefacenti mi vengono inflitte una pena detentiva di 4 anni e 2 mesi e una pena pecuniaria di 24.000 euro”.

Parte centrale del libro è l’esperienza del carcere, la privazione della libertà, l’inattività forzata, la lontananza dai propri affetti, la vita sul letto a causa della mancanza di spazi, la mancanza di uno spazio per sé, riservato. Il Natale trascorso lontano da casa, lontano dai propri figli. Il funzionamento del carcere, la burocrazia, il consumo di psicofarmaci, le domandine per fare ogni cosa, il sovraffollamento, la mancanza di attenzione per la cura della salute.

Ma uno spazio importante è riservato anche alla triste esperienza nella comunità terapeutica Il sorriso in cui non le era permesso scrivere le lettere nella propria madrelingua, costretta dalla direzione della comunità a leggere davanti a loro il contenuto della propria corrispondenza e a parlare al telefono solo in italiano e solo in presenza dgli operatori. Un periodo in cui fra le altre cose apprende l’ulteriore inasprimento della propria condanna:

21 marzo 2009 […] Il maresciallo mi porta la sentenza del Tribunale. Prevede non quattro anni di reclusione, ma sei anni e tre mesi. Quindi non sarò libera prima del 24 gennaio 2014. Oh Dio, che altro è successo ora? Apprendo che a Verona mi avevano dato due anni di reclusione con la condizionale per i fatti dell’epoca [detenzione 5 grammi eroina]. Ora devo scontare anche quelli.”

La situazione in cui si trova Agnes è resa ancora più difficile dal fatto che i processi avvengono solo in italiano, così come le carte dei tribunali. Oltre a ciò la sua inesperienza e tendenza a fidarsi di avvocati poco impegnati la porta in una situazione ancora più difficile:

Apprendo che inconsapevolmente e in buona fede ho sottoscritto alla mia avvocatessa che riconosco la mia accusa ovvero ammetto la mia colpa. Mi sono fidata di lei e la mia conoscenza dell’italiano era inadeguata. Venne così avviato il patteggiamento vale a dire: rinuncia alla difesa. Le imputazioni errate non sono mai state evidenziate non lo saranno mai. La sentenza è definitiva. Non si può tornare indietro. Sono finita in un vicolo cieco.”

Nel libro è poi raccontato il ritorno a casa, il confronto con i paesani sull’ingiustizia subita, il periodo trascorso ai domiciliari, l’incontro, purtroppo tardivo, con un avvocato che si prese a cuore la sua situazione, Bonifacio Giudiceandrea di Trento.

Nel corso della sua dura esperienza, Agnes non manca di sottolineare il ruolo deleterio che le carceri hanno e le terribili conseguenze a cui la detenzione porta:

Guarda un po’, sono solo pochi giorni che siamo in cella solo in due, che già ci stipano dentro una terza detenuta. Oh no! Di nuovo pressate come sardine! Ben presto mi ritorna la claustrofobia. Non mi va più! Il mondo sarebbe così grande e loro ci chiudono in gabbie così strette. Orrore! Chi lo stabilisce? La gente è fuori di sè! Non dovrebbe essere una rieducazione? Dov’è la dignità umana? Sono sempre più sicura: il carcere provoca le persone, porta al crimine!”

La rabbia per le condizioni di vita sia accompagna anche alla presa di coscienza della necessità di lottare per cambiarle, come Agnes scrive nell’occasione di una visita di Marco Pannella nel carcere La Dozza:

Le detenute protestano insieme a Marco Pannella con una battitura annunciata. Tre volte al giorno in tutte le celle si picchia per una mezz’ora e si fa baccano. La battitura si può udire anche dal carcere maschile. Alcune detenute trovano la battitura inutile. Il signor Pannella non si arrende, indice anche uno sciopero della sete. […] Tutti i detenuti di tutta Italia dovrebbero avere il coraggio come quello di Pannella. Non ce l’ho neanche io. Se tutti facessero uno sciopero della fame, magari per un mese, se tutti i carcerati si ribellassero, allora sicuramente crollerebbero tutti i muri. A quel punto lo stato di polizia non avrebbe più potere. Quindi si potrebbero ristrutturare tutte le prigioni, ad esempio come centri culturali. La mia fantasia non conosce confini. La realtà è diversa. Fintanto che non tutti faranno causa comune, nulla cambierà.”

Un bel recente ritratto di Agnes Schwienbacher

Un libro da leggere, per conoscere la realtà delle carceri italiane ed il tritacarne dei tribunali, implacabile con la povera gente, con chi tira a campare, con chi si trova già in situazioni di difficoltà economiche o con chi mette in discussione lo stato di cose presenti. In tal senso la storia di Agnes è esemplare, la sua condizione di donna di madrelingua tedesca, con problemi di dipendenza nonché economici, è rappresentativa anche della popolazione carceraria costituita in gran parte da persone povere che non si possono permettere un avvocato che sappia affrontare una difesa in modo adeguato. Ma è anche rappresentativa di chi fa parte di una minoranza linguistica, fattore che porta con sè l’inevitabile aumento dell’asimmetria, già di per sè evidente, fra chi accusa e chi viene accusato.

Ringraziamo Agnes di avere scritto questo bellissimo libro sapendo affrontare pubblicamente anche i pregiudizi sociali che spesso l’esperienza del consumo di droga porta con sé. Un libro che permette di guardare con occhi nuovi ai fatti di cronaca che riempiono le pagine dei giornali e che contribuisce a vedere la persona, con i suoi problemi e le sue difficoltà, dietro alla foto segnaletica o ai titoli roboanti dei giornali che spesso accompagnano le campagne “antidegrado” imbastite e fomentate anche da politici in cerca di facile consenso sulla pelle dei più poveri e dei più vulnerabili.

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Quel trenta luglio 1970 alla Ignis di Trento. 50 anni fa.

Dei fatti avvenuti in Trentino negli anni Sessanta/Settanta, oltre alle lotte nate all’interno della facoltà di Sociologia di Trento ed il percorso politico successivo di alcuni suoi studenti, un episodio che colpì l’immaginario di compagni e compagne di tutta Italia fu la cosiddetta gogna che il 30 luglio 1970 venne fatta fare per le strade di Trento ai neofascisti Andrea Mitolo e Gastone del Piccolo.

Non avrebbe senso raccontare quell’episodio se non preceduto da una breve contestualizzazione in grado di far comprendere a chi legge il clima che si era venuto a creare a Trento nel periodo precedente. Solo pochi mesi prima, il 12 dicembre 1969, una bomba esplose in piazza Fontana a Milano e il movimento operaio e studentesco annusò subito l’aria che tirava attribuendo la responsabilità morale e politica di tale strage allo Stato. Dopo quella bomba nulla è come prima e sempre più compagni e compagne capiscono che ci sono settori più o meno oscuri del potere che pur di frenare e respingere l’avanzata delle rivendicazioni proletarie sono disposti a tutto, anche a compiere stragi per sfruttare il terrore, la paura della popolazione ed il conseguente bisogno di “sicurezza” che arriverebbe a far accettare possibili svolte autoritarie dello Stato.

In questo periodo, fra il 1970 ed il 1971, la città di Trento fu teatro di attentati dinamitardi e fatti mai del tutto chiariti ma che si possono ricollegare direttamente ad una volontà di creare, anche per mezzo della manovalanza neofascista, un clima di terrore per costringere a indietreggiare il movimento di classe e gli studenti della facoltà di Sociologia.

Ecco una breve cronologia di alcuni fatti significativi avvenuti in Trentino prima del 30 luglio 1970, dove la situazione degenerò in particolare dopo l’apertura della sede di Avanguardia Nazionale per opera di Cristiano De Eccher, uomo legato al nazista Franco Freda e alle sue edizioni AR. Negli anni successivi politico missino e poi deputato di Alleanza Nazionale, ricordato per il suo tentativo, nel 2011, di proporre una riforma costituzionale per abolire la XII norma della Costituzione italiana, che vieta “la riorganizzazione, sotto qualsiasi forma, del disciolto partito fascista”.

-Nel gennaio 1970 l’Associazione degli Industriali tenta, senza riuscirci grazie all’opposizione ei sindacati, di accreditare il sindacato neofascista della Cisnal al tavolo degli incontri nella vertenza sindacali delle operaie tessili della Brinkmann.

-Il 26 gennaio 1970 la sede del Partito Socialista Italiano (PSI) di Trento è oggetto di un attentato incendiario rivendicato da scritte neofasciste.

-Il 12 febbraio, per la quarta volta, anonimi fascisti tentano di dare fuoco alla sede del Comitato di Quartiere di San Pietro.

-Il 23 marzo militanti del gruppo neofascista Avanguardia Nazionale [AN] si presentano armati di bastoni davanti al liceo Prati, a scopo intimidatorio contro compagni del movimento studentesco.

-Il 1° aprile quinto attentato incendiario contro la sede del Comitato di Quartiere di San Pietro. Vengono distrutti manifesti, tabelloni, fotografie che denunciavano la speculazione urbanistica del quartiere.

-Il 2 aprile la Cisnal, tenta di inserirsi nell’assemblea sindacale della fabbrica Michelin, ma è respinta ai cancelli dagli operai.

-Il 4 aprile viene commesso un attentato alla sede di un gruppo politico antifascista a Mezzolombardo.

-Il 5 aprile due croci runiche sono tracciate sulla sede del sindacato UIL di Trento, il giorno seguente anche le sedi del PCI e del PSIUP sono coperte dalle stesse scritte con lo stesso simbolo, adottato da AN.

-Il 7 aprile un altro attentato incendiario viene commesso contro la sede di un altro gruppo della sinistra di Mezzolombardo.

-Il 10 aprile nell’aula 3 della Facoltà di Sociologia è fatta esplodere una bomba che provoca il crollo della porta d’entrata e gravi danni.

-Il giorno seguente viene inaugurata la sede di Trento del Movimento Sociale Italiano [MSI]. Un giorno pieno di tensioni a Trento con i neofascisti di Avanguardia Nazionale guidati da De Eccher che durante un volantinaggio fuori dal liceo classico Prati di Trento, armati di bastoni, aggrediscono alcuni studenti, poi ricoverati in ospedale. Lo stesso giorno nel pomeriggio altri 3 studenti vengono aggrediti nei pressi di via Santa Maddalena, dove si trova la sede di Avanguardia Nazionale. A questo punto una grande manifestazione spontanea di studenti e abitanti del quartiere assediano fino a notte inoltrata la sede di AN.

Nel frattempo il giornale l’Adige legato alla DC di Flaminio Piccoli, dietro al paravento di una campagna “contro la violenza”, orchestra continui attacchi giornalistici contro le varie anime della sinistra e gli studenti di Sociologia.

-Il 30 aprile un attentato neofascista colpisce il monumento a Degasperi mentre il giorno seguente la Questura vieta una manifestazione ed un’assemblea popolare tenuta del Movimento Studentesco. Ciònonostante il corteo viene fatto.

In questo clima, a Gardolo, il 15 maggio apre la fabbrica Ignis, dentro sono impegnati almeno 600 operai su tre turni. Pochi giorni dopo, grazie ad una dura lotta, viene approvato lo Statuto dei lavoratori, all’interno della fabbrica si elegge il Consiglio in cui sono presenti anche operai di Lotta Continua, i cui militanti esterni sono spesso presenti ai cancelli per volantinare agli operai duranto il cambio turno. Nello stesso periodo dure lotte operaie si svilupparono alla Grundig di Rovereto.

Cosa successe il 30 luglio 1970?

Verso le ore 13 doveva aver luogo presso la stabilimento Ignis di Spini di Gardolo una assemblea del sindacato neofascista Cisnal. I lavoratori della fabbrica si organizzarono per impedirne lo svolgimento. A dar manforte agli esponenti del sindacato fascista arrivano picchiatori missini e di Avanguardia Nazionale provenienti da tutta la Provincia, ma anche dal Veneto e da Bolzano. Ecco i fatti nella testimonianza di un operaio pubblicata su un opuscolo/inchiesta di Lotta Continua:

Mi trovavo alle 12.20 sul posto davanti ai cancelli. Appena arrivato ho scorto una trentina di persone, arrivate con macchine targate TN, BZ, VR, con una fascia tricolore la braccio chiaramente riconoscibili come fascisti. Io e alcuni compagni di Lotta Continua che distribuivano un volantino ci siamo messi dal lato opposto dei cancelli con l’intenzione di rifiutare ogni provocazione da parte dei fascisti.[…] In quel momento stava arrivando un compagno operaio dell’Ignis che fu deriso e beffeggiato dai fascisti. […] Improvvisamente i fascisti lo rincorsero all’interno dello stabilimento pestandolo come bestie inferocite. Mentre tutto questo stava accadendo, sul posto si trovava una 850 Fiat con tre poliziotti in borghese a bordo, una macchina della volante e una del pronto intervento, che non hanno mosso un dito per evitare il linciaggio. Appena l’operaio cadde a terra, livido dalle botte, lo raccogliemmo e lo trasportammo dietro la cancellata, dentro lo stabilimento. Intanto sopraggiungevano altri operai che dovevano entrare per il secondo turno. Visti i fatti corsero in fabbrica gridando: “Stanno massacrando il nostro compagno di lavoro!”. In pochi minuti tutti gli operai erano davanti ai cancelli e quando invitarono i fascisti ad andarsene, ebbero per risposta una fitta sassaiola. Gli operai avrebbero voluto rispondere ma i fascisti erano barricati proprio dietro le nostre macchine. Ci fu un attimo di pausa. Ad un tratto furono scagliati contro di noi due ordigni che esplosero. Tutto questo provocò da prima panico tra di noi, ma subito fummo tutti decisi a cacciare via questi rpvocatori fascisti che, ci tengo a specificare, avevano nelle mani bastoni, catene e sassi. Avanzavamo piano piano invitando ancora i fascisti ad andarsene, ma alla distanza di circa dieci metri da loro, la risposta fu un’altra sassaiola. Una donna cadde colpita in piena fronte da un sasso e così successe per altri operai. Questo scatenò la nostra rabbia e si arrivò ad un corpo a corpo : fu allora che i fascisti estrassero i coltelli e colpirono due operai: uno al ventre e l’altro alla schiena mentre era caduto a terra. Poi i fascisti fuggirono per la campagna, ma due riuscimmo a fermarli. Decidemmo di fare un corteo e portarli fino a Trento. La polizia, tanto per precisare da che parte stava, caricò per ben due volte il corteo.”

Gli operai della Ignis accoltellati furono Paolo Tenuta e Adriano Mattivi.

Poco dopo la fine degli scontri, nel momento in cui la rabbia aveva raggiunto le stelle, comparvero di fronte ai cancelli il consigliere regionale del MSI Andrea Mitolo e il dirigente locale missino Ceccon, chiamato da Del Piccolo. Riconosciuti dagli operai, i neofascisti vennero circondati e nella borsa di Del Piccolo venne ritrovata un’ascia. La goccia che fece traboccare il vaso.

Il passaporto di Gastone Del Piccolo e l’accetta trovati nella sua borsa. Archivio dell’Università di Trento (fondo Giorgio Salomon)

Come riportato anche nei verbali del Processo che venne successivamente fatto:

L’Avv. Mitolo e il Del Piccolo venivano costretti a porsi alla testa del corteo con le mani dietro la nuca. Aveva così inizio per essi una specie di via Crucis. Dovettero infatti percorrere, assoggettati a periodici insulti, sputi, percosse […] la lunga strada di accesso alla città e quindi le centrali vie cittadine sino all’ospedale civile, per un totale di quasi 9 km.”.

Archivio dell’Unversità di Trento (fondo Giorgio Salomon)

Archivio dell’Unversità di Trento (fondo Giorgio Salomon)

Il corteo, composto da circa 400 fra operai e studenti, parte, a un certo punto arrivano voci drammatiche che parlano della possibile morte di uno degli operai accoltellati, la rabbia è tanta, due cartelli vengono appesi al collo dei due neofascisti. A Del Piccolo viene fatto portare il cartello con la scritta: “Siamo fascisti. Oggi abbiamo accoltellato 3 operai della Ignis. Questa è la nostra politica operaia. All’avvocato neofascista bolzanino, nonché ex repubblichino, Andrea Mitolo, viene invece fatto portare il cartello recante la scritta: “Siamo fascisti. Oggi abbiamo acoltellato 3 operai Ignis. Questa è la nostra politica pro operai”.

immagine di presentazione articolo

Archivio dell’Università di Trento (fondo Giorgio Salomon)

Archivio dell’Università di Trento (fondo Giorgio Salomon)

Archivio dell’Università di Trento (fondo Giorgio Salomon)

Archivio dell’Università di Trento (fondo Giorgio Salomon)

Racconta il sindacalista, allora operaio alla Ignis, Bruno Bernabé in una testimonianza pubblicata nel libro di Sandro Schmid intitolato 30 Luglio 1970: “Io facevo il secondo turno. Quindi sono arrivato con la mia macchina 15-20 minuti prima delle 14.  La confusione era totale. Grida e urla fra gli operai e i neofascisti. Gli scontri erano già in corso, ho visto i neofascisti armarsi di catene di ferro e bastoni. Poi gli scoppi delle bombe lanciate nel piazzale della Ignis verso gli operai. […] nel parapiglia sono colpiti tre operai che cadono riversi a terra pieni di sangue. Gli operai sono subito portati via dalle ambulanze verso l’ospedale. Pensavamo al peggio. […] Nel frattempo arrivano Prevè Ceccon e Mitolo, assieme a Del Piccolo (che li aveva avvisati). Sono riconosciuti. Nela breve coluttazione a Del Piccolo Sfugge la borsa. Un operaio la apre. Dentro c’era un’accetta e il passaporto. Gli animi si scaldano ancora di più. Prevè Ceccon viene caricato in macchina dalla polizia. Gli altri due pagano per tutti. La rabbia operaia è alle stelle. […] Che fare? Non era facile prendere una decisione. Nonostante la pioggia battente decidiamo tutti: portiamo Mitolo e Del Piccolo fino al Tribunale. Così avremmo potuto testimoniare cosa significa autorizzare l’ingresso in fabbrica, contro la volontà degli operai, del sindacato della Cisnal e il vero volto dell’aggressione neofascista e l’accoltellamenteo dei nostri tre compagni operai. Giusta o sbagliata questa è stata la decisione di tutti. […] Gli episodi e gli insulti più pesanti nei confronti di Mitolo e Del Piccolo, sono stati quando lungo la via Brennero siamo passati davanti alle fabbriche la Ferriera e la Prada. L’eco degli avvenimenti era già arrivato prima del corteo. ‘I fascisti hanno accoltellato tre operai della Ignis’ era il succo della notizia. Gli operai della Ferriera e della Prada al sopraggiungere del corteo sono usciti dalle fabbriche. Diversi avevano subito angherie e persecuzioni durante il fascismo. La loro rabbia era incontenibile, sono volate pesanti frasi ingiuriose, spinte e qualche sputo, impossibile frenarli. Il resto degli accadimenti è noto. All’Ospedale S. Chiara entra una delegazione con Giuseppe Mattei, per avere notizie sui tre operai feriti. Mattei riferisce che i tre sono sicuramente fuori pericolo e con noi tenta di dare uno sbocco alla manifestazione con la parola d’ordine di portare i due ostaggi in Questura. […] Nei pressi della Questura abbiamo così consegnato i due al brigadiere Raja, che li ha presi in consegna.”

Archivio dell’Unversità di Trento (fondo Giorgio Salomon)

Chi era Andrea Mitolo?

Durante la guerra, dopo l’8 settembre 1943 aderì alla Repubblica di Salò, combattendo al fianco della truppe naziste fino all’ultimo giorno. Fondatore della sezione bolzanina del Movimento Sociale Italiano, il neofascista fu rappresentante del MSI nel consiglio della Regione Trentino Alto Adige dal 1948 al 1973. Nel 1972 venne accusato di essere tra i finanziatori di un campo di addestramento paramilitare fascista a Passo Pennes. Nel 1974 venne eletto nel consiglio comunale di Bolzano, mentre nel 1987 fu eletto deputato nel Parlamento, fino alla morte, avvenuta nell’agosto 1991. Nella sua carriera di avvocato penalista difese, fra gli altri, noti picchiatori fascisti come Carlo Trivini, assassino nel 1971 di un cameriere del locale notturno di via Resia a Bolzano e successivamente trafficante di eroina, e militari come il tenente Palestro, incriminato nel 1972 per la morte in Val Venosta di 7 militari di leva, seppelliti da una slavina.

Il 2 agosto 1970, sulle colonne del Giorno il giornalista Giorgio Bocca scrisse “L’avvocato Andrea Mitolo è una mia vecchia conoscenza: lo facemmo prigioniero ufficiale fascista nel ’45 in una valle del Cuneese. Aveva combattuto assieme ai nazisti fino all’ultimo giorno. L’ordine sarebbe stato di fucilarlo visto che aveva le armi in pugno al momento dell’arresto, ma lo facemmo tornare a casa sua a Bolzano, dove a tavolino si mise a stendere una denuncia alla Magistratura contro di noi per omicidio e strage (in Trentino Alto Adige c’era ancora l’Alpenverland). C’è da credere che ora stia denunciando gli operai che non hanno risposto alle coltellate con le coltellate dei suoi sgherri perché è un uomo che crede nell’odio”.

A conferma del personaggio che Andrea Mitolo fu va ricordato come, oltre al suo passato nazifascista, egli non smise mai di abbracciare tali aberranti idee, continuando, con i mezzi messi a sua disposizione dal nuovo corso democratico a mistificare la storia e infangare la Resistenza. Ancora in una lettera da lui inviata e poi pubblicata sul quotidiano Alto Adige il 26 luglio 1975 Mitolo affermò come la condanna a 30 anni del partigiano Johann Pircher e la sua permanenza in carcere fino agli Settanta era ineccepibile dal punto di vista giuridico, negando –ovviamente– le fondamenta ideali e le ragioni storiche del suo agire e della sua scelta resistenziale. Curioso che un reduce nazifascista come Mitolo si appellò a cavilli giuridici e regolarità processuali per giustificare la condanna a vita di un partigiano. Assurdo vedere che chi collaborava e combatteva con chi costruiva Auschwitz puntava il dito invocando il carcere per chi si era ribellato, in condizioni impossibili come quelle presenti in Sudtirolo, agli orrori di cui lo stesso Mitolo era protagonista e servitore. Eppure anche questo è uno dei tanti paradossi e delle profonde ingiustizie che attraversarono questo paese, e questa Provincia.

Cosa successe dopo

Dopo i fatti della Ignis continua la campagna mediatica e politica tesa a delegittimare l’attività politica dei movimenti extraparlamentari e la presenza stessa degli studenti di Sociologia. Anche l’attività neofascista non si ferma: il 10 settembre venne compiuto un attentato alla linea ferroviaria del Brennero aTrento Sud. Rivendica il sedicente gruppo neonazista Mar -Movimento d’Azione Rivoluzionaria- che proclama: “Via Sociologia o Trento brucerà”.

Il 4 ottobre successivo vengono compiuti 3 attentati dinamitardi nei principali cinema di Trento. Lotta Continua attribuisce la responabilità degli attentati ad Avanguardia Nazionale. Nei mesi seguenti lotte operaie attraversano Trento, mentre i fascisti proseguono la loro attività di mazzieri con l’aggressione dell’ottobre 1970 contro alcuni studenti al caffè Italia in piazza Duomo. L’azione è rivendicata sul giornale missino Secolo d’Italia. Nel gennaio 1971 un attentato colpisce la sede del movimento studentesco in via Prati mentre due giorni dopo viene fatta esplodere l’auto del sindacalista trentino Giuseppe Mattei, della Cisl, contemporaneamente viene fatta esplodere una bomba davanti al collegio universitario di Corso Buonarroti.

Il 18 gennaio 1971 al monumento alla Resistenza di fronte al Tribunale di Trento, viene forse sventata una potenziale strage: fu ritrovata infatti, in una sacca sportiva, una potente bomba al plastico. Il giorno successivo nella stessa piazza era prevista una manifestazione studentesca.

Il processo venne però rinviato e così la bomba non serviva più: un intreccio di telefonate anonime aveva fatto così rinvenire la bomba. Un’inchiesta di Lotta Continua rivelò come dietro alla bomba c’era lo zampino di numerosi uomini di Stato che vennero coinvolti poi in un indagine processuale a riguardo. Come scritto anche dalla commissione parlamentare d’inchiesta sul terrorismo in Italia del 1992: “Nell’ambito delle inchieste che riguardarono la strage vennero arrestati il colonnello del SID Pignatelli, il colonnello dei carabinieri Santoro, il vice-questore della polizia Molino e i confidenti dei tre servizi segreti Zani e Widmann. Furono tutti assolti nel prosieguo dei processi, ma nel corso dì quell’istruttoria vennero comunque alla luce le reti operative dei servizi di sicurezza, sperimentate in Alto Adige negli anni ’60 e trasferite di peso nel Trentino degli anni ’70 e anche sul piano nazionale.”

La gogna a Mitolo e Del Piccolo fu conseguente all’esasperante attività squadrista che oltre agli studenti ed ai militanti, colpiva anche gli operai ed i sindacalisti. Il fatto che un consigliere regionale come Andrea Mitolo ed i suoi sgherri si presentasse fuori da una fabbrica in cui erano appena stati accoltellati degli operai dai suoi camerati, con un’accetta nella borsa di Del Piccolo fu la goccia di troppo che portò tutti a dire basta. Un tassello di lotta operaia da conoscere e ricordare, da inserire nel campo più ampio delle lotte del tempo, in cui, dopo piazza Fontana, le regole del gioco cambiarono, ed attraverso l’utilizzo di provocatori legati a gruppuscoli nazifascisti, la borghesia tentava di disarticolare e condizionare obiettivi e modalità di lotta dei proletari e delle loro diverse organizzazioni. 

 

La vasta eco che il fatto suscitò in tutta Italia fu fonte di ispirazione di una canzone tratta dal canzoniere pisano:

Trenta luglio alla Ignis

Questa mattina, davanti ai cancelli
sono arrivati trenta fascisti:

erano armati di bombe e coltelli,
questi di Borghi son gli squadristi.

Han cominciato tirando sassi

contro i compagni di un capannello;
alle proteste han risposto sparando:

tre ne han feriti con il coltello.

Noi operai gli siam corsi dietro
ma quei vigliacchi sono fuggiti,

approfittando della confusione
mentre portiamo in salvo i feriti.

Subito dopo la vile aggressione

ecco arrivare due capi fascisti;
van con la borsa dal porco padrone

a prender la paga pei loro squadristi.

Li abbiamo presto riconosciuti:
uno è Del Piccolo, quell’assassino,

e l’altro è Mitolo, capo fascista,
torturatore repubblichino.

Dentro la borsa, coi passaporti,

hanno una scure ben affilata:
questa è la prova che i due compari

la sanno lunga su come è andata.

Gli abbiamo fatto alzare le mani,
gli abbiamo messo al collo un cartello

con sopra scritto: « Siamo fascisti,
facciam politica con il coltello ».

E dalla Ignis fino in città,

mentre tremavano per la vergogna,
li abbiam portati in testa al corteo

e tutta Trento li ha messi alla gogna.

E in fin dei conti vi è andata bene,
perché alla fine della passeggiata

quella gran forca che meritate
non ce l’avete ancora trovata.

Cari compagni, quella gran forca

dovremo farla ben resistente,
per impiccarci, assieme ai fascisti,

il padron Borghi porco e fetente.

Cari compagni, quella gran forca
dovremo farla ben resistente

per impiccarci, assieme ai fascisti,
ogni padrone, porco e fetente.”

 

 

Riferimenti bibliografici:

Sandro Schmid, Luigi Sardi, 30 luglio 1970, storia della Ignis e del neofascismo trentino

Maurizio Gretter, Le Bombe di Trento, in: “Controinformazione”, anno IV, n. 9/10, novembre 1977.

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Dalle bombe in Alto Adige alla bomba di Piazza Fontana. Il caso di Silvano Russomanno.

Sono passati ormai 50 anni dalla strage di Piazza Fontana e dall’assassinio di Pino Pinelli, eppure ci sono particolari, connessioni che non sono mai state debitamente messe in evidenza. Storie da conoscere, per comprendere meglio il presente.

Alcuni anni prima dell’inizio della cosiddetta “Strategia della tensione” l’Alto Adige fu a tutti gli effetti un laboratorio, una palestra in cui lo Stato mise alla prova tecniche di controguerriglia, spionaggio, infiltrazione, utilizzo di neofascisti nella “guerra non convenzionale” contro i militanti del Befreiungsausschus Südtirol [BAS].

Molti dei protagonisti ed esecutori della cosiddetta “strategia della tensione” si “fecero le ossa” in Alto Adige, negli anni Sessanta. Fra loro ricordiamo Amos Spiazzi, il colonnello Angelo Pignatelli, Silvano Russomanno e il Questore di Bolzano (negli anni Sessanta, poi passato a Milano) Ferruccio Allitto Bonanno.

Esiste un filo rosso inquietante che collega le vicende legate alla lotta contro l’irredentismo sudtirolese degli anni Sessanta alla strage di piazza Fontana ed alle successive vicende che ne scaturirono.

Grazie al libro “Pinelli: la finestra è ancora aperta”scritto da Gabriele Fuga ed Enrico Maltini per le edizioni Colibrì nel 2017,  è stato possibile ricostruire ed evidenziare uno dei fili che collega i fatti avvenuti in Alto Adige con l’inizio della cosiddetta strategia della tensione. Un filo la cui consistenza è qui brevemente e superficialmente raccontata, ma che meriterebbe senz’altro maggiori approfondimenti ed uno studio sistematico che ad oggi purtroppo manca.

Un uomo chiave per comprendere quali personaggi agivano allora nella questura di Milano è senza dubbio Silvano Russomanno, del quale devono essere ricordati alcuni dati biografici: nato a Reggio Calabria nel 1924, nel corso della seconda guerra mondiale venne arruolato nel 51° Reggimento Fanteria con sede a Perugia. In seguito all’8 settembre venne catturato dai tedeschi ed aderì alla Repubblica di Salò venendo assegnato come volontario al 373° Battaglione Flak, quindi a un battaglione nazista. Nel maggio 1944 fu inviato in Cecoslovacchia e impiegato nel 133° Battaglione Misto Flak alla difesa antiaerea; nel luglio dello stesso anno fu trasferito con lo stesso Battaglione a Deep sul Mar Baltico. Nel febbraio 1945, ritornato in Italia, fu destinato col 456° Battaglione Rovereto e alla fine di aprile fece ritorno a Correggio [RE]. Il 20 luglio dello stesso anno venne catturato dagli Alleati e internato a Coltano [PI] mentre nell’ottobre seguente venne rimesso in libertà.

Dopo la guerra, durante la quale mentre prestava servizio nella Wehrmacht, imparò il tedesco, si laureò in Giurisprudenza entrando in polizia nel 1950, in servizio nella sede di Merano. Dal 10.9.1953 al 16.9.1954 dirige il settore della polizia di Frontiera di San Candido. Successivamente, fino al 11.3.1960, dirige il settore Polizia di Frontiera di Tarvisio, data dalla quale, sino al 19.12.1960 assume la dirigenza del Commissariato di P.S. di Bressanone. Nello stesso mese Silvano Russomanno, che ha raggiunto ormail il grado di Commissario Capo, viene trasferito da Bressanone al Ministero dell’Interno ed assegnato all’Ufficio Affari Riservati del Viminale, erede spirituale e materiale dell’OVRA fascista, ove inizialmente svolge compiti di funzionario addetto alla 2° e 4° sezione.

Silvano Russomanno in una foto d’archivio

In questi anni Russomanno matura una conoscenza approfondita della situazione altoatesina, infatti dopo i noti fatti del giugno 1961, conosciuti come “la notte dei fuochi”, proprio lui venne inviato a Bolzano per alcuni mesi, con non meglio precisati incarichi di antiterrorismo anche al di là della frontiera del Brennero.

In seguito alla Notte dei Fuochi l’Alto Adige venne messo in stato d’assedio, migliaia di militari vennero inviati in Provincia, in alcune zone venne imposto il coprifuoco, negli interrogatori dei militanti arrestati venne fatto ampio uso della tortura e due militanti del BAS, Franz Höfler e Anton Gostner, morirono in seguito alle torture che subirono da parte dei Carabinieri. I militi dell’Arma responsabili delle torture vennero denunciati dagli arrestati ma il processo che ne seguì non portò a nessuna condanna, anzi, l’allora generale dei Carabinieri Giovanni De Lorenzo (già a capo fino al 1962 del Servizio Informazioni Forze Armate-SIFAR), in seguito coinvolto in piani golpisti nonché esponente del partito neofascista Movimento Sociale Italiano [MSI], conferì loro onoreficenze per “l’impegno esemplare prestato nel corso del servizio”.

Nel giugno 1964, dopo altri attentati commessi in Alto Adige, Russomanno venne inviato a Colonia allo scopo di iniziare la collaborazione col Servizio Federale del settore antiterroristico. Federico Umberto D’Amato il 10 maggio 1965 venne nominato direttore della 4° Sezione della Divisione Affari Riservati, competente nella materia del separatismo e terrorismo.

La figura di Russomanno e quella dell’allora questore di Bolzano, Ferruccio Allitto Bonanno, vennero considerati i registi dell’operazione di polizia in cui l’infiltrato nei BAS Christian Kerbler, uccise Amplatz e tentò di uccidere Georg Klotz, in un baita sopra Saltusio, in Val Passiria.

Molto ci sarebbe da scrivere e molto c’è ancora da sapere sull’operato dei servizi e delle forze dell’ordine italiane in Alto Adige in quegli anni, ma qui ci interessa evidenziare il filo che collega le vicende altoatesine con l’inizio della strategia della tensione ed ecco ricomparire Russomanno, riconosciuto a livello europeo come “specialista” di temi legati al terrorismo, sui quali tiene corsi di aggiornamento per i servizi di mezza Europa.

In un saggio di Russomanno sul “terrorismo” scritto, a suo dire, prima della bomba di Piazza Fontana, l’agente dell’Ufficio Affari Riservati si dilunga in analisi il cui obiettivo di fondo è sminuire l’attività della destra, additando allo stesso tempo gli anarchici come il maggiore pericolo pubblico per la sicurezza in Italia nel periodo. Siamo nel 1969, ed il 25 aprile dello stesso anno esplosero delle bombe alla Fiera Campionaria (in seguito venne accertato come gli autori fossero i neofascisti di Ordine Nuovo Franco Freda e Giovanni Ventura) per le quali le indagini presero subito la direzione degli anarchici. Il commissario Calabresi, già ridenominato “commissario finestra”, insieme ad altri agenti della polizia politica si rese responsabile di efferate violenze, minacce e torture ai danni di numerosi giovani anarchici arrestati fra cui il bolzanino Paolo Faccioli, il livornese Paolo Braschi e Angelo della Savia, a cui, dopo giorni di violenze, vennero estorte dichiarazioni in cui “confessavano” la paternità degli attentati.

Qui vennero poste le basi e fatte le prove generali per la strategia messa in atto pochi mesi dopo. Il 12 dicembre 1969 a Milano una bomba esplode presso la banca dell’agricoltura, in piazza Fontana: rimangono uccise 17 persone e altre 88 vengono ferite. Le indagini, sebbene non ci siano prove o indizi di nessun tipo, vennero indirizzate, ancora una volta, contro gli anarchici; decine di giovani e meno giovani militanti vennero rastrellati dagli agenti della Questura di Milano e sottoposti, ancora una volta da Calabresi e i suoi colleghi, a violenze, torture e minacce. Il 16 dicembre seguente, nel corso dell’interrogatorio, dal terzo piano della Questura di Milano, l’anarchico Pino Pinelli muore precipitando dalla finestra.

Il giorno dopo, in una conferenza stampa improvvisata, l’allora Questore di Milano Marcello Guida, già direttore del confino fascista di Ventotene, affermò: “Vi giuro, non lo abbiamo ucciso noi…”.

Fino a qui è storia più o meno conosciuta. Solo il ritrovamento dell’archivio della divisione ufficio affari riservati nel 1996 permise di ricostruire per intero la vicenda e colmare le infinite zone d’ombra che oscuravano la vicenda relativa alle bombe di piazza Fontana e alla morte di Pinelli.

Già il 13 dicembre infatti, gli uomini di Federico Umberto D’Amato, capo dell’Ufficio Affari Riservati, piombarono alla Questura di Milano prendendo in mano le indagini e gli interrogatori dei fermati. Fra le (almeno) 14 persone dipendenti direttamente dal Ministero dell’Interno presenti in quei giorni in Questura a Milano, ecco nuovamente Silvano Russomanno, amico del capo dell’Ufficio politico di Milano Antonino Allegra. L’ex repubblichino, insieme agli altri uomini dei servizi in missione riservata, prese in mano la situazione, con gli agenti dell’Ufficio politico di Milano che per motivi gerarchici, obbedirono agli ordini. Russomanno si rese responsabile di gravi depistaggi e non è difficile immaginare che ruolo l’ex repubblichino possa avere avuto nell’interrogatorio che portò alla fine di Pinelli. In un documento datato 18 dicembre 1969 (due giorni dopo la morte del ferroviere anarchico) lo stesso Russomanno, nel tentativo di giustificare il suo “Suicidio”, attribuiva a Pinelli la responsabilità di attentati compiuti l’8 agosto precedente su due treni.

La riservatezza di tale missione è confermata dal fatto che durante i processi la loro presenza non emerse fino al ritrovamento dei documenti conservati nell’archivio della via Appia, nel 1996. Nei processi relativi alla morte di Pinelli, gli agenti della Questura di Milano, fra cui Calabresi, per coprire e negare la presenza degli uomini dei servizi, si contraddissero infatti innumerevoli volte.

La sua attività negli apparati più riservati dello Stato continuò indisturbata negli anni più caldi del conflitto sociale in Italia. La carriera proseguì tanto che nel 1973 venne chiamato a rappresentare la polizia italiana nelle sessione del comitato speciale della NATO per le questioni del terrorismo a Bruxelles. Il 4 gennaio 1978 gli vennero conferite le funzioni di Ispettore Generale. Nel’ambito dell’inchiesta su Piazza Fontana Russomanno, insieme al vice capo dell’Ufficio affari riservati Elvio Catenacci e altri funzionari, viene accusato di aver occultato prove alla magstratura.

La prima volta in cui Russomanno dovette rispondere in un aula di Tribunale della sua attività fu nel 1997 quando nel corso dell’interrogatorio mentì spudoratamente sulla propria attività e sulle proprie responsabilità, nulla di cui stupirsi.

Perchè è importante conoscere questa storia?

É significativo sapere che nel dicembre 1969, nella Questura di Milano diretta dall’ex direttore del confino fascista di Ventotene Marcello Guida, un ex repubblichino conosciuto per le sue simpatie naziste come Silvano Russomanno, fu protagonista degli estenuanti interrogatori a cui fu sottoposto l’anarchico, nonché ex partigiano, Pino Pinelli ed altri arrestati. Una piccola cartina tornasole che restituisce il clima allora esistente all’interno degli apparati repressivi dello Stato e che entra in una “tradizione” nazionale che trova le ultime appendici più conosciute nelle torture ai manifestanti durante il G8 di Genova, ma non solo. La vicenda di Stefano Cucchi o Federico Aldrovandi (solo per citare due fra le decine di casi conosciuti) dimostra inoltre il clima omertoso esistente all’interno degli apparati repressivi, così come emerge dalle recenti vicende intorno alla caserma dei carabinieri di Piacenza o nell’omicidio di Serena Mollicone , per citare i casi saliti recentemente agli onori delle cronache. Vicende che hanno trovato notorietà solo grazie all’ostinato coraggio di donne come Ilaria Cucchi o parenti ed amici indomiti. Ha senso parlare di mele marce? Ha senso parlare di Servizi deviati? O si tratta piuttosto di conseguenze inevitabili di un sistema? Nessuno Stato permette a una propria parte di agire fuori dal proprio controllo così come ogni carabiniere agisce sempre con l’appoggio più o meno esplicito, dei propri superiori. Ciò è storicamente avvenuto ed avviene tutt’oggi grazie alle ampie coperture politiche di cui certi settori dello Stato possono godere e del totale senso d’impunità che li accompagna.

La figura di Russomanno è esemplare in tal senso; dimostra inoltre la continuità del fascismo nelle istituzioni repubblicane e di come esse si mostrarono ampiamente tolleranti nei confronti di fascisti e nazisti più o meno ex, mentre assai più decisa fu la repressione nei confronti dei partigiani insoddisfatti del nuovo corso democratico, che tanto assomigliava a quello precedente.

Uno spaccato delle tensioni e dei personaggi che attraversarono questa provincia di confine, dove le tensioni etniche vennero utilizzate, fomentate e sfruttate per sperimentare nuove tecniche militari in vista di possibili svolte autoritarie, assolutamente non lontane dalla realtà visti i progetti golpisti del 1964 “Piano Solo” e quello del 1970, anche questo, guarda caso, sotto la supervisione di un altro collaborazionista nazista e ufficiale militare della Repubblica di Salò, come il principe Junio Valerio Borghese.

Ancora una volta, come avvenuto durante il Ventennio fascista, per lo Stato le politiche contro le minoranze linguistiche e le loro espressioni politiche, diventarono una palestra in cui sperimentare provvedimenti e tecniche da estendere successivamente sul piano nazionale.

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Benko licenzia migliaia di lavoratori in Germania. A Bolzano vuole anche abbattere platani secolari

Nel settembre 2018 veniva annunciato come il gruppo austriaco Signa, uno dei maggiori investitori immobiliari in Europa con un patrimonio di oltre 13 miliardi di dollari, avesse ottenuto l’acquisizione del 50,1% delle operazioni retail del gruppo canadese Hudson’s Bay Co. in territorio europeo, il cui business è legato principalmente alla catena di centri commerciali Galeria Kaufhof.

Karstadt, già controllata da Signa, e Kaufhof, vennero così unite in un colosso commerciale dal valore di circa 5,4 miliardi di dollari.

Oltre a ciò Signa, gruppo guidato da René Benko, prese possesso, con una transazione separata, del 50% delle proprietà immobiliari di Hudson’s Bay in Germania, valutate 3,25 miliardi di euro.

Già allora secondo la Süddeutsche Zeitung l’integrazione delle due catene avrebbe comportato la perdita di 5.000 posti di lavoro (dei 20.000 totali) per Kaufhof, e di molti altri fra le filiali Karstadt.

Dopo nemmeno due anni ecco arrivare l’annunciato piano di ristrutturazione dell’immobiliarista austriaco: 62 delle 172 filiali di Galeria Karstadt Kaufhof saranno chiuse, circa un terzo delle filiali. Oltre 5000 lavoratori rimarranno disoccupati, mentre Benko, che può contare su un patrimonio personale di circa 4,9 miliardi di euro, come al solito sarà abile nel privatizzare i profitti ma nel socializzare le perdite.

Nelle settimane scorse in Germania è stata lanciata una campagna di lotta contro il piano di licenziamenti voluto dalla società Signa e dal suo proprietario, Benko. #nichtaufunseremrücken.

Numerosi presidi e manifestazioni si sono svolte in tutta la Germania, in solidarietà ai lavoratori di Karstadt-Kaufhof, contro le speculazioni di Benko.

A Berlino

A Stoccarda

A Landau

A Bolzano, nel frattempo, proseguono i lavori di “riqualificazione” voluti, ad ogni costo, dalla borghesia cittadina e dai esponenti politici di ogni colore politico che vivono da anni su campagne allarmistiche intorno al parco della Stazione. La stessa società immobiliare Signa, dopo mesi di martellante propaganda “antidegrado” condotta da giornali locali, pagò a sue spese un inserto patinato dal titolo “Rilanciamo Bolzano” da allegare all’Alto Adige in cui veniva illustrato un futuro luminoso del centro storico privo di degrado (leggi: poveri) e senza episodi di piccolo spaccio e microcriminalità.

Ricordiamo inoltre come si arrivò all’approvazione del progetto Waltherpark di Benko: fu necessario di fatto, dopo la prima votazione contraria, sciogliere il consiglio comunale, rivotare e far passare il progetto per un referendum-farsa della durata di 5 giorni. Lo stesso braccio destro di Benko, Heinz Hager, non esitò a denunciare e intimidire chi tentò di fare controinformazione per smascherare le pesanti contraddizioni dei progetti urbanistici della Signa. Anche chi non voleva lasciare il proprio appartamento fu di fatto costretto a farlo, come ricorda la storia di Bruno Lorenzi e Gabriella Cecchelin.

Mentre il centro viene sventrato ed il parco della stazione devastato, la sete di profitto della Signa non si ferma nemmeno di fronte ad alcuni secolari platani, da decenni fonte di gratuito riparo per i passanti, che vuole abbattere per fare posto ad alcuni parcheggi. 

Striscioni e cartelli di protesta affissi lunedì 13 luglio al Parco della Stazione a Bolzano, contro l’abbattimento dei platani e contro il progetto Waltherpark.

In una città in cui gli affitti sono da anni a livelli inaccettabili, in cui per comprare una casa occorre indebitarsi a vita, il progetto Benko ed il processo decisionale che portò alla sua approvazione è la cartina tornasole che dimostra chi sia in realtà a prendere le decisioni e di chi siano gli interessi maggiormente tutelati: immobiliaristi miliardari che non esitano, in caso di necessità, a scaricare sulla collettività i costi delle proprie operazioni commerciali, mirate esclusivamente al profitto personale. Non è certo un caso se Benko, nel periodo del referendum, portò a proprio sostegno, personaggi come Oscar Farinetti, a sua volta accusato da molti lavoratori della catena “Eataly” di creare per loro condizioni inaccettabili.

Dopo le iniziative di controinformazione fatte a suo tempo contro il progetto Benko ed i presidi in piazza contro il tandem Benko-Farinetti, impedire oggi l’abbattimento dei platani è una possibilità per portare solidarietà ai lavoratori licenziati in Germania e per riaffermare ancora una volta come ci siano cose più importanti di profitto e parcheggi: la loro ombra e il loro ossigeno per esempio.

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