Per una cronistoria tragica delle occupazioni in terra del Basso Tirolo

Per una cronistoria tragica delle occupazioni in terra del Basso Tirolo

di Marco

Dal gattile ci sgomberò una vecchia. E’ seccante riconoscerlo, ma andò proprio così. Una di quelle con la telara a fiori che portano avanzi di carne putrida ai gatti randagi

Oggi di queste vecchie fai fatica a trovarne, persino ai mercati rionali, la nostra però era scaltra, con una laurea in psicologia nel cassetto del tinello.

Doveva aver lavorato a lungo sui concetti di dissuasione/persuasione perchè ci inquadrò subito e in poche secche affermazioni seppe dirottare il nostro ingenuo ardimento lontano da quella meravigliosa villa abbandonata. 

Le strutture ragazzi!…le strutture!!… Possibile che la tardona ci richiamasse ad un maggior rigore di critica Lacaniana? Lei parlava e noi ci guardavamo sgomenti…Le strutture! …che centrassero davvero Ahltusser e Levi-Strauss?

No, no,no,… qui non va bene, lo capirebbe anche un bambino, qui c’è l’Avvocato, c’é il Notaio, la Villa la gestisce lui cosa credete! Quello capita qui una sera si e una sera no, varda che ghe mette zinque minuti, …è di modi spicci. Mica io, seeh… mi porto solo i svanzeroti ai gatti, ma l’avete vista bene questa Villa, ma quello credete che la lasci a Voi?

Le strutture ragazzi, più giù, risalite il torrente, quelle vanno bene per voi, li non vi disturba nessuno.

Fu dunque alle strutture, ignobile sottorudere cementizio, archeologia d’ aborto costruttivo, rivendicato dai licheni, che andò a frantumarsi l’ardimento di un manipolo di giovani impavidi, intenzionati a muovere guerra alla società dei Consumi.

Poi venne il tempo di “Immerfrei” , un paio di palazzine sfitte, appollaiate sopra al Garda, talmente brutte da muovere causa all l’intero Ordine degli architetti. Neppure ci scoraggiò il fatto che a confronto l’Overlook Hotel assomigliasse all’accogliente baita del nonno di Heidi.

Il Gattile occupato

Mossi da nobili sentimenti, quali la riappropriazione degli spazi abbandonati per ridestinarli ad una socialità liberata, la fine della cultura della merce e della dittatura degli orologi sul nostro quotidiano, e un altro paio di concetti di altrettanto semplice realizzabilità, andammo però ben presto a naufragare su istanze più meramente soggettiviste ed individuali.

Così mentre tra noi era partita una feroce gara all’appropriazione della stanza più prestigiosa e all’accaparramento degli arredi più voluttuari, una coppia di increduli carabinieri si introduceva nell’edificio semplicemente spingendo la porta d’entrata, che nessuno si era premurato di barricare.

Soverchiati dalle protervia delle forze nemiche, abbandonammo gli Hotel, non senza fregiarci dell’onore eroica ritirata, attraversare mezzo gruppo montuoso del Baldo.

Alla Peterlini invece, una vecchia rimessa di autocorriere, nel centro di Rovereto, passammo ore a saldare sbarre improvvisate per barricare le finestre. Poco importa poi che i vigili del fuoco entrarono dalla porta principale con un solo, sapiente colpo di mazza. Ora in quel caso, pare che la questura si fosse di molto spaventata, forse per la vicinanza dell’edificio alle carceri cittadine e al timore inspiegabile di una rivolta contagiosa e straripante. Fatto sta che in poche ore fece isolare l’intero quartiere e fece convergere sul posto ben due battaglioni dei reparti celere. Immaginate un paesaggio surreale: la città bloccata e transennata nelle sue arterie principali, un dispiegamento di divise consono più allo sbarco in Normandia e ai lati dei marciapiedi una folla silenziosa di curiosi, quasi sicuramente assetata di sterminio.

Ricordo infatti un pomeriggio triste e le parole di un mio amico, famoso meccanico svizzero, affacciato alla finestra a violare quel silenzio plumbeo : “Ma daffero foi folete massacrare noi per questa vecchia casa?” A riprova di questa rassicurante ipotesi, arrivò poi, come nei migliori Thriller, il negoziatore inviato da municipio e questurini. Come negoziatore era una vera schifezza, ma si sa che in provincia ci si arrangia come si può. Così un consigliere comunale dei verdi, un po’ male in arnese si presentò alla finestra del pianterreno con queste rassicuranti parole: “io li ho visti gli occhi di quelli là, sono iniettati di sangue, qua finisce come a Bolzaneto, altro che Genova ve lo dico io, qua è un massacro poi voi fate un po’ come cazzo vi pare”.

Così appena la mazza del pompiere si aprì un varco nel multistrato di pioppo, noi intruppati in uno schieramento di grande complessità tattica, una sorta testuggine romana protetta da materassi logori e fradici di urina, sfilammo senza colpo subire nel cortile in mezzo alle truppe avversarie. Forte si alzò un canto e tutta la città lo dovette ascoltare: La casa è di chi l’abita e vile è chi lo ignora…ma non era vero niente e come sempre finimmo per abitare le stanze disadorne della Questura cittadina.

Paura, terrore e delirio a Rovereto. Sgombero ex-Peterlini anno 2002

Poi ne vennero altre e tra queste, quelle ripetute del Bocciodromo. Sia ben chiaro che in quel posto mai si era mossa una boccia, né si era radunata quella schiera di anziani catarrosi che normalmente popolano codeste strutture. Era solo una vecchia e triste azienda abbandonata, forse un magazzino con un ampio cortile di cemento antistante. Noi l’avevamo chiamato così perché il sindaco era riuscito a giustificare lo sgombero della Peterlini con la necessità imminente di costruirvi un bocciodromo per anziani. Ovviamente si trattava di una clamorosa puttanata, come sovente questi soggetti, si intestardiscono a produrre. A distanza di vent’anni la Peterlini è sempre più decrepita, alle sue finestre sono visibili ancora le originalissime sbarre confezionate dall’operosità anarchica, e in tutta la città, si sono completamente estinti i bocciodromi.

Qua però si elaborò una delle più raffinate strategie di lotta mai concepite, che consisteva nell’affiorare e poi sparire quando il nemico si manifestava. Così studiando approfonditamente le mosse delle forze rivali sapemmo prevederne gli assalti per scomparire subito un attimo prima dello sgombero e poi riapproppriarci dell’immobile appena il campo si era liberato. Non lo avevano fatto forse i russi con Napoleone? E che eravamo noi forse più coglioni?

Manifesti bocciodromo occupato anno 2003

Manifesti bocciodromo occupato anno 2003

Insomma gioca al topo col gatto, occupa un giorno e disoccupa l’altro, finì che la Polizia si incazzò veramente e un questore genovese in vacanza premio in Trentino decise di levarci la sete con il prosciutto; così ci prese a calci in culo in pieno pomeriggio, dinnanzi al disinteressato andirivieni dei passanti, ormai usi a queste messeinscena. In quella occasione però una casa riuscimmo ad occuparla stabilmente: la casa Circondariale di Bolzano.

Manifesti bocciodromo occupato anno 2003

Insomma fu un periodo carico di un’elettricità inquieta, in cui la pratica delle occupazioni di spazi abbandonati mirava a dare forma a un desiderio collettivo, parlava della nostra voglia di sfuggire a un quotidiano fatto di alienazione e ricatti salariali. Voleva mostrare a tutti la possibilità concreta di riappropriarci dei nostri corpi, degli spazi nelle città, dei tempi troppo spesso sacrificati a stanchi e vuoti riti sociali, volevamo contrapporre la condivisione e la gestione collettiva degli spazi e delle vite alla brutale competizione sociale che lascia sul terreno, sempre più spesso le sue vittime.

Forse questo non abbiamo saputo dirlo con le parole più appropriate, o forse semplicemente tanti altri non hanno voluto ascoltarlo perché viviamo nella parte del mondo dove lottare significa avere qualcosa da perdere e non tanto di più da guadagnare.

In ultimo permettetemi di raccontare ricordare la mia prima tra le esperienze di Occupazione, quella che ancora ricordo con più affetto e coinvolgimento, l’Occupazione del Mulino Vittoria a Trento.

Alle prime luci dell’alba di sabato 23 aprile 1993 via Verdi si popolò di uno strano corteo di curiosi individui. Da ogni angolo, furtivo sbucava qualcuno, chi con mestoli e pentolone, chi con scopa e paletta, chi con materassi arrotolati, altri con tra le mani un pesante generatore di corrente. Ognuno sembrava sapere benissimo cosa fare. Così Crackers presero possesso del loro Mulino, un edificio monumentale di proprietà dell’università, ma abbandonato da decenni.

In quegli anni il clima universitario era particolarmente vivace, ancora ben saldato dalle lotte molto partecipate e trasversali contro la prima Guerra del Golfo del ’91 e si articolava soprattutto tra le facoltà di Sociologia e di Lettere. L’Occupazione del Mulino era sicuramente il frutto del lavoro di studio e preparazione dei collettivi studenteschi, che volevano in primis porre una severa critica alla gestione degli spazi attuata dall’Opera Universitaria. All’assemblea preparatoria erano però state invitate diverse realtà compreso il gruppo di roveretani che gravitavano intorno al centro sociale Clinamen.

Il molino vittoria a Trento

Ricordo bene che quando un rappresentante degli studenti lesse la bozza del volantino che avrebbe dovuto accompagnare l’occupazione seguirono alcuni minuti di silenzio.

Ora non ricordo benissimo quel testo, era sicuramente il frutto più che onesto e molto documentato di una denuncia contro i vertici amministrativi delle Facoltà rei di non prodigarsi a dovere per il benessere dei loro studenti.

In pratica, una rottura di coglioni di epocale portata, in cui si snocciolavano dati, cifre, bilanci e meste rivendicazioni di parte. Ma a noi ci scorreva caldo il sangue nelle vene e non potevamo appassionarci di tutta quella timidezza. Così, un po’ alla volta, dal fondo dell’aula si alzarono alcune voci perplesse. “Tutto bene per carità… è che avremmo qualche breve appunto da muovere” …e quando si metteva in moto la macchina della persuasione e della retorica, lì non avevamo rivali, fu un successo travolgente, 92 minuti di applausi, un vero e proprio colpo di Stato. In pochi minuti le istanze degli organizzatori vennero travolte e quella del Mulino si trasformò in una delle più radicali occupazioni che il territorio avesse visto da parecchi anni. Nulla si chiedeva, nulla si rivendicava o si voleva negoziare, tutto volevamo prenderci, soprattutto volevamo dare fuoco alla miccia dei nostri desideri. Ammettiamolo fu un’operazione scorretta e diversi tra gli studenti arrivarono ad odiarci, ma la passione che si generò nei pochi giorni di occupazione seppe poi consolidare i rapporti di tutti quelli che vi presero parte. E furono tanti, tanti i dialetti e gli accenti che si alternavano nelle stanze del Mulino, siciliano, calabrese, pugliese, veneto, laziale, toscano, lombardo, tanti erano gli studenti fuori sede, ma anche i ragazzi di Trento, Rovereto, Riva, Folgaria. All’occupazione diede una sostanziosa mano anche una folta pattuglia di punk sudtirolesi di lingua tedesca, con cui solidarizzavamo ormai da anni.

Contributi sudtirolesi alla lotta

Contributi sudtirolesi all’occupazione

Così, carabinieri, giornalisti e Rettori venivano puntualmente messi alla porta. Con questi soggetti non ci interessava il dialogo, ci premeva che fosse l’autogestione a parlare da sola, ad indicare un modo di vivere e di prendere decisioni più collettivo; ci interessava che quella fosse una delle tante scintille possibili, non un modo alternativo di gestire degli spazi nel contesto di una società ingiusta ed autoritaria, ma una forma di contagio che guardasse a qualcosa che ancora non c’era.

Le porte del Molino Vittoria parlano

La polizia giocò sporco e fece girare la voce tra tutti i tossici, spaccini e derelitti delle strade che al Mulino Vittoria c’era un posto per loro e che sarebbero stati accolti senza problemi. Speravano di far saltare il banco, di creare il caos più totale tra soggetti instabili e altamente conflittuali, di trasferire le zone di spaccio nella struttura e avere mano libera per sgombero e sputtanamento. Ma non andò così, all’inizio si creò un po’ di maretta, loro erano tanti e decisi a stabilirsi nel Mulino. Ma fu loro spiegato che se di giorno erano accetti alle attività del Mulino, a fermarsi la notte erano solo quelli che condividevano i principi libertari dell’autogestione e che in nessun modo sarebbe stata tollerata la presenza di eroina tra le mura dell’edificio. Alcuni furono allontanati in maniera non del tutto consenziente, ma diversi tra loro rimasero con noi a condividere quel modo strano di stare insieme.

Ma le cose belle durano poco, così mercoledì 27 aprile, dopo solo quattro giorni di occupazione, la polizia sgomberò il Mulino, denunciò i suoi occupanti, e lo restituì ancora, per tanti anni a venire, ai sorci e alla polvere.

Vittoria però non fu soltanto il nome di quel fastoso Palazzo, fu anche la sensazione che mi rimase dentro a lungo, ci avevamo provato e ci avevamo preso gusto, eravamo riusciti a costruire rapporti solidali, a comprendere che le difficoltà sono inferiori all’appagamento che ne scaturisce, che non bisogna sempre chiedere ai potenti e accontentarsi delle briciole.

Questa è una bella storia, una storia che non finisce mai.

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