Dietro ogni matto c’è un villaggio. Storie di Giorgio, Hans, Arturo, Maria Silvia, Günther.

Tu prova ad avere un mondo nel cuore
E non riesci ad esprimerlo con le parole
E la luce del giorno si divide la piazza
Tra un villaggio che ride e te, lo scemo che passa
E neppure la notte ti lascia da solo
Gli altri sognan sé stessi e tu sogni di loro

Un matto (dietro ogni scemo c’è un villaggio) Fabrizio De André

La crescita esponenziale delle disuguaglianze fra ricchi e poveri produce un aumento delle differenze fra inclusi ed esclusi, fra chi ce la fa e chi no.

Le strade, le stazioni ed i parchi delle città sono abitati anche da uomini e donne “marginali” per innumerevoli motivi, persone spesso invisibili per chi ci passa a fianco, nella migliore delle ipotesi un elemento a fatica tollerato, nella peggiore un elemento che rompe l’immagine della città, una presenza non funzionale al decoro che le amministrazioni e “cittadini perbene” vogliono mantenere e contro cui vengono elaborati progetti di architettura ostile ed emesse ordinanze antiaccattonaggio, daspo urbani, sgomberi, sequestri, ecc. 

Alcuni giorni fa, la redazione altoatesina di RTTR ha fatto un servizio su un senzatetto – di nome Giorgio – che da diversi anni passa parte del suo tempo alla fermata dell’autobus di via Tre Santi, sempre carico di giornali, di pezzi di carta che strappa e su cui scrive. Egli si reca di tanto in tanto presso un negozio di pianoforti di via Alessandria per chiedere di suonare il piano, provocando lo stupore del negoziante per la sua bravura. Un talento difficile da immaginare in una persona che vive per strada, del cui passato poco o nulla si sa. E così, la condivisione del video sui social network con i ricordi sparsi di chi commenta permette di mettere insieme alcune tessere di un puzzle che vanno a ricomporre il passato di un uomo che siamo abituati a vedere solo come un barbone o detto in modo più elegante, un clochard. Emerge così un tempo dove egli aveva studiato il pianoforte al Conservatorio (pare avesse suonato anche in alcuni locali di Milano ma anche con musicisti locali a Bolzano) e in cui aveva lavorato come impiegato in una banca locale. Dopo una vita “nei ranghi” ebbe un tracollo che lo portò a mollare tutto e trasferirsi ad Amburgo facendo poi il tassista per qualche tempo. Rimasto solo in città, si appoggiò per qualche tempo alla scuola guida ex Garda-Latemar dove aveva preso la patente e dove gli istruttori lo aiutavano economicamente per prendere il treno e andare a Milano a visitare la sorella. Rientrato dopo un certo periodo a Bolzano iniziò a parlare solo in tedesco e continuò ad appoggiarsi alla Scuola guida, passando ore nell’ufficio fino a quando non fu “troppo” e, dopo aver trascorso un periodo al dormitorio di Viale Trento, si spostò nella zona di via Tre Santi dove fa riferimento alla parrocchia. Spesso chi prende l’ultimo treno regionale verso Trento lo vedeva scendere a Laives dove probabilmente trascorreva la notte.

Una storia che per i suoi risvolti inaspettati fa ricordare altri senzatetto rimasti impressi non solo nella memoria di chi scrive, ma certamente di buona parte della popolazione di Bolzano. Come dimenticare Giovanni Valentin, alias Hans Cassonetto, morto a 66 anni la notte di Natale del 2011 in seguito alle gravi ustioni riportate per via di un fuoco che aveva acceso per riscaldarsi in piazza del Grano. Pochi mesi prima di morire un articolo dell’Alto Adige raccontava il suo rientro in grande stile nel centro storico di Bolzano dopo un incidente occorsogli a Rencio:

Dimesso dall’ospedale, è ricomparso tra i bidoni dell’immondizia. E il “rientro” è stato spettacolare. Un vero grande. Ieri mattina alle dieci, nudo e per niente imbarazzato, è apparso in piazza Dogana. Rapida “doccia” nella fontana. Poi si è vestito davanti alle vetrine (alle commesse e alle clienti) della profumeria Thaler. Incurante – come sempre – di tutto e tutti. Finita la toeletta, si è messo al lavoro dentro i bidoni dell’immondizia. La faccia da lupo di mare. Rugosa e abbronzata. Segnata dal vento, dal sole, e dalla vita di strada. I capelli arruffati, i pantaloni sudici, una giacca rossa squartata. Il solito sguardo assente. Concentrato su un mondo che noi non possiamo vedere. “Hans cassonetto” ha cominciato con precisione certosina l'”analisi” di tutta l’immondizia. Lui vive dei nostri scarti. Ricicla vestiti, recupera cibo, fuma i mozziconi che lasciamo sui marciapiedi. E corregge i nostri errori. Chi lo osserva da tempo, sa che “Hans cassonetto” tira fuori dai bidoni la carta, la plastica e il vetro che noi, per pigrizia e cinismo, buttiamo dentro alla rinfusa, senza “differenziare”. E’ pazzesco, ma è così. Ci pensa lui: tira fuori tutto quello che va separato e lo porta – ordinatamente – alle isole ecologiche, dove infila (carta, vetro, plastica) nelle campane blu, gialle e verdi. Tra i vicoli del centro si sprecano le leggende su Hans.  C’è chi dice che sia nato ricchissimo e abbia preferito le stelle del cielo ad una vita nel lusso. Sembra abbia rifiutato un’eredità milionaria. Quando ancora parlava (e nei bar accettava un caffè o una sigaretta), raccontava la sua storia. «Io voglio stare a contatto con la terra – diceva – non sopporto le case, i muri, le stanze. Voglio solo il cielo e la terra». E così vive. Come un marinaio in mezzo all’oceano. Libero.”

Hans al lavoro. Foto presa dal Corriere dell’Alto Adige

Pochi giorni dopo la sua morte la leggenda intorno alla possibile eredità milionaria fu confermata. Dodici anni prima egli aveva infatti rifiutato un’eredità milionaria che gli aveva lasciato la madre. Oltre ad almeno 250 mila euro Hans aveva rifiutato una villa, terreni, boschi ed alcuni appartamenti, lasciando sbigottita l’amica di famiglia che gli aveva comunicato le decisioni della madre. Voleva rimanere libero e tutte quelle proprietà lo avrebbero legato a incombenze e impegni che non lo interessavano. Una storia che impressionò moltissime persone e che ispirò il collettivo Fx di Reggio Emilio a dipingere un murales in suo ricordo lungo via Fiume. Sul luogo della tragedia i giorni successivi vennero inoltre poste centinaia di candele mentre una sua foto è appesa sul muro del bar Nadamas di piazza Erbe

Il 5 luglio 2013 moriva a 97 anni Arturo Nicolodi. Prima di morire nella casa di riposo di Cavedine dove aveva trascorso gli ultimi anni della propria vita, aveva trascorso decenni per strada, dormendo sui treni espressi che la notte attraversavano l’Italia oppure sulla tratta Bolzano-Bologna. Passava i pomeriggi a leggere e studiare nei corridoi dell’Università di Bolzano, scriveva volantini a mano che poi consegnava alle redazioni dei giornali locali. Capitava di incontrarlo, curvo sotto il peso degli anni, alla stazione dei treni di Bolzano, nelle biblioteche cittadine oppure in alcuni bar del centro.

Proveniente da una importante famiglia della borghesia trentina, durante la II guerra mondiale fu arruolato dall’Esercito italiano e assegnato alle operazioni militari in Grecia. Dopo l’8 settembre rifiutò l’arruolamento nella Repubblica Sociale Italiana e venne perciò internato dai nazisti in Germania. Nel dopoguerra fondò un piccolo movimento europeista chiamato “Nuova Europa/Neues Europa” che si poneva l’obiettivo di superare i nazionalismi e gli antagonismi etnici che in Alto Adige come nel resto d’Europa avevano portato ai disastri di cui la memoria era ancora fresca. Nel ricordarlo diversi giornali raccontano che ebbe l’occasione di cenare con Alcide Degasperi e Winston Churchill. Come riportato dal giornale Il Trentino, fu più volte arrestato; una volta per aver strappato per protesta la sua carta d’identità, l’altra volta per aver offeso il presidente della Repubblica Einaudi, definendolo in un telegramma «incompetente». Nel 1953 il settimanale tedesco «Der Spiegel» dedicò un lungo articolo al suo sciopero della fame in carcere, durante il quale Nicolodi dovette essere alimentato artificialmente.

Dopo la sua esperienza politica in un movimento che si potrebbe definire “radicalmente europeista” forse deluso dall’esperienza, scelse di vivere per strada e passando le notti sui treni notturni, sugli espressi a tariffa proletaria che fino a pochi anni fa attraversavano l’Italia. Nel 2007, a 90 anni suonati, Nicolodi fu tra i protagonisti del film il Passaggio della Linea, presentato poi al Festival del cinema di Venezia. Negli spezzoni in cui appare racconta degli arresti subiti, dei processi subiti per offese ai questori di Trento e Bolzano, dei rischi a cui ci espone nel momento in cui si espongono pubblicamente le proprie idee, al possibile prezzo da pagare.

Un prezzo altissimo per la propria militanza politica e per la propria capacità di rompere il tabù intorno a un tema delicato e pubblicamente ignorato come l’omosessualità fu quello pagato da Maria Silvia Spolato, morta il 31 ottobre 2018 nella casa di riposo Villa Armonia, in viale Trento. Per chi vive a Bolzano ed aveva occasione di incontrarla lei era solo una barbona che girava per il centro, “con i borsoni carichi di riviste, appunti e quaderni. O con Settimana enigmistica e matita sulle passeggiate del Talvera. O in biblioteca, con la testa riversa sulla scrivania, a dormire profondamente. Sempre intabarrata nella sua giacca a vento rossa e blu, con il cappello di lana calato sulla testa” come la descrive il giornalista dell’Alto Adige in un articolo a lei dedicato. Solo dopo la sua morte emerse la sua importante militanza politica passata. Classe 1935, padovana di nascita, dopo la laurea in matematica si trasferisce a Roma dove partecipò alla fondazione del Fronte di Liberazione Omosessuale (FLO), movimento poi confluito nel Fronte unitario omosessuale rivoluzionario (F.U.O.R.I.). Insieme ad Angelo Pezzana nel 1971 fondò la rivista Fuori! Nel 1972 fu la prima donna in Italia a dichiarare pubblicamente la propria omosessualità. Lo stesso anno pubblicò I movimenti omosessuali di liberazione edito dalla Nuova Sinistra, con prefazione di Dacia Maraini.

Maria Silvia Spolato alla manifestazione del 1 maggio a Roma

A causa della foto pubblicata da Panorama e la visibilità nazionale che essa ebbe, Maria Silvia Spolato ebbe numerosi problemi che la portarono poi ad essere allontanata dal posto di lavoro. Come ricorda Edda Billi, militante del collettivo femminista di cui faceva parte Maria Silvia: « L’avevano cacciata da scuola, e io sono andata con Mariasilvia al Provveditorato in cui abbiamo avuto accesso alla cartella in cui c’era la foto pubblicata su Panorama. Non ricordo con quale scusa Mariasilvia ebbe accesso al suo fascicolo personale, ma ricordo di averla accompagnata. »

Il suo attivismo LGBT e la pubblicazione di libri sullo stesso tema portarono il Ministero dell’Istruzione a licenziarla con la motivazione di essere «indegna» all’insegnamento. Per via del suo orientamento sessuale venne allontanata dalla sua famiglia e senza fissa dimora vagò per varie città italiane. L’allontanamento dalla scuola e la rottura con la famiglia, unito forse alle difficoltà vissute all’interno del movimento, la portarono a scivolare sempre più ai margini giungendo infine a Bolzano, dove trascorse gli ultimi decenni della sua vita da clochard mantenendo però il proprio amore per la lettura e la scrittura, come testimoniato dalle operatrici della casa di riposo in cui visse gli ultimi anni.

L’ultima foto disponibile di Maria Silvia Spolato

Chia passeggia intorno ai prati del Talvera si è certamente imbattuto in Günther Schmalzl, che passa parte delle proprie giornate seduto su una panchina del ponte, a distribuire briciole ai passerotti e scrivere pensieri e poesie su pezzi di carta che poi regala ai passanti che gli lasciano una moneta nel piattino. Curioso il cartellino che mette accanto al piattino per la colletta: Clochard italiano; nella provincia della proporzionale e della rigida divisione in gruppi etnici, evidentemente anche fra chi sta per strada non si sfugge al bisogno di distinguere fra foresti e indigeni. Anche la sua storia alcuni anni fa venne raccolta dal giornale locale Alto Adige:

“Fino a qualche anno fa anch’io avevo un lavoro: mi sono diplomato al liceo scientifico di lingua tedesca, poi sono stato in banca e ho fatto una serie di lavoretti. Fino a quando non ho avuto problemi ad una gamba, andavo anche a raccogliere mele”

Raccontava poi come è finito gradualmente per strada, attraverso un processo in cui sembra aver tolto tutto ciò che per lui era superfluo, non essenziale:

«Mio padre non l’ho mai conosciuto, sono stato cresciuto da mia madre e soprattutto da mia nonna Maria, in Val Gardena. Poi il trasferimento a Bolzano e una vita normale fatta di casa e lavoro. Fino a quando ho cominciato a capire che si può vivere di poco e anzi si vive meglio: un giorno mi si è rotta la lavatrice e non l’ho fatta riparare, stessa sorte è capitata alla lavastoviglie. Ad un certo punto ho lasciato anche l’appartamento: non ce la facevo più a pagare l’affitto. E ho cominciato a girovagare tra l’Alto Adige e il Trentino; sono stato anche in Francia. Un paio di anni fa ho trovato questo posto che è diventato la mia casa: ho tutto quello che mi serve per sentirmi bene, perché sono di nuovo immerso nella natura come quando ero bambino e giravo per i boschi con mia nonna. C’è l’acqua corrente; c’è la panca e sopra un piccolo tetto per ripararmi se piove. Il mio fisico ormai si è abituato al freddo e neppure lo sento».

Gunther Schmalzl osserva Bolzano dalle passeggiate del Guncina. Foto presa dal giornale Alto Adige.

Forse proprio per via della sua scelta consapevole, egli ha mantenuto una certa lucidità proprio euilibrio mentale e nonostante la vita in strada egli trova il tempo e la forza di curare il proprio aspetto, organizzandosi le giornate e rifiutando – come tanti altri senzatetto – le soluzioni istituzionali come l’emergenza freddo: “Io in quei centri allestiti per metterci clochard e migranti non ci vado, perché mi ammalo”. Come sopravvive lo racconta lui stesso nell’intervista raccolta dal giornale:

«Ho un piccolo aiuto dai Servizi sociali e poi quando sono sulla panchina, metto un biglietto e chiedo un’offerta per mangiare e lavare i vestiti. Qualcuno passa e mi lascia qualche spicciolo. Io ricambio con un pensiero scritto a mano su un foglietto. Mi basta per permettermi un pasto al giorno: vado dai cinesi e mangio un piatto di riso. Non c’è bisogno di mangiare più di una volta al giorno. Quassù torno la sera, quando ormai è buio».

Le storie di Giorgio, Hans, Arturo, Maria Silvia e Günther sono la punta dell’ iceberg di un’umanità che vive ai margini del centro storico, della città vetrina che il miliardario austriaco Benko sta costruendo, dopo aver cacciato gli indesiderabili. Un’umanità la cui ricchezza – come dimostrano alcune delle storie appena raccontate – aspetta solo di essere scoperta e difesa, conosciuta e non ridotta all’emergenza di turno. Sono molti altri gli uomini e le donne che per un motivo o per l’altro sono finiti per le strade della nostra città.

Le loro vicissitudini parlano a noi e della società in cui viviamo, dove per le persone fragili e vulnerabili diventa sempre più difficile sopravvivere, stringere legami affettivi, costruire relazioni, trovare solidarietà e comprensione. Chi non riesce ad essere competitivo e produttivo secondo gli standard richiesti viene espulso.

Putroppo le cronache raccontano spesso , anche recentemente, di senzatetto trovati morti per strada, come il clochard trovato esanime sulla panchina di piazza Domenicani, o in giacigli di fortuna. Chi ricorda Elisabeth Fischnaller? Spesso seduta per lunghe giornate alla fermata del bus di piazza Domenicani, dove passava le giornate a bere birrette Forst e a scroccare sigarette. Disfatta fisicamente da una difficile esistenza e da chissà quali traumi, una delle poche donne che viveva per strada, scelse Ponte Tavera come domicilio, dove nel 2014 venne ritrovata morta a soli 46 anni.

Elisabeth Fischnaller, Foto presa dal giornale Alto Adige

Fra coloro che abitano le strade del centro si potrebbero ricordare Riccardo alle prese con la psoriasi, spesso seduto su una panchina in via Bottai. Patrick, grande musicista dalla chioma nera fluente che vaga per le vie del centro. Felix, artista incompreso. Oppure i polacchi e rumeni inebriati dall’alcool che per mesi hanno bivaccato in piazza Vittoria prima e piazza Mazzini poi, suscitando le ire di fascisti di tutte le risme. Chi sapeva che il senzatetto magrebino che lo scorso anno ha fatto ammattire vigili e amministrazione comunale per alcune settimane nel suo zaino, accanto al cartone di tavernello, teneva libri di filosofia? Per non ricordare la valanga di storie che potrebbero raccontare le persone provenienti dall’Africa o da altre parti del mondo che abitano il parco della stazione, se ci fosse qualcuno curioso di sapere, disposto ad ascoltare. Molte altre, quelle di coloro che sono morti lungo la rotta del Brennero nel tentativo di passare la frontiera non potranno più essere raccontate.

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