[Bolzano] Volantinaggio solidale con Yaya Yafa e lavoratori SDA

Nella notte fra il 20 e 21 ottobre 2021, in un magazzino di Bentivoglio in provincia di Bologna, è morto Yaya Yafa, 22enne originario della Guinea Bissau. Aveva firmato da appena 3 giorni il proprio contratto di lavoro interinale presso la SDA-Poste italiane dell’interporto di Bologna. Una morte non casuale, risultato della sistematica precarizzazione del lavoro con uomini e donne che vengono assunti, anche solo per pochi giorni, senza alcuna formazione e senza alcun rispetto delle norme di sicurezza.

Yaya Yafa, 22 anni, ucciso dal lavoro precario in un magazzino di Bologna

Striscione dei lavoratori del sindacato di base SICOBAS presso l’Interporto di Bologna

Anche a Bolzano alcuni compagni e compagne si sono uniti all’onda di rabbia e solidarietà che si è alzata in molti magazzini della logistica ma non solo, e sono andati di fronte alla sede della SDA di Bolzano per distribuire volantini e affiggere manifesti solidali con Yaya e con i lavoratori costretti in condizioni sempre più precarie, con il beneplacito dei sindacati confederali, inerti e complici di tale sistema.

Manifesti affissi in zona industriale a Bolzano

Di seguito il testo del volantino distribuito:

VOSTRI I PROFITTI,NOSTRI I MORTI

Un’altra, ennesima, morte sul lavoro.

Yafa Yaya ci lascia a soli 22 anni, originario della Guinea Bissau, costretto ad emigrare in cerca di un futuro migliore, giunto in Italia aveva iniziato a lavorare in SDA solamente due giorni fa e il terzo giorno è risultato fatidico per la sua vita.

«Stava controllando la ribalta e il camion non era frenato e improvvisamente si è mosso, schiacciandogli la testa tra la ribalta e il muro. Una morte bruttissima».

Molto probabilmente qualcuno parlerà di fatalità, ma noi sappiamo bene che la morte del lavoratore di SDA è la conseguenza delle condizioni di lavoro troppo spesso precarie, della mancanza di sicurezza sui luoghi di lavoro, che troppe volte sono il frutto della ricerca continua del profitto da parte dei padroni.

Se da un lato si cerca di dividere i lavoratori con la questione del Green Pass, dall’altre parte, le condizioni di lavoro nei magazzini o nei reparti peggiorano costantemente.

Al terzo giorno di lavoro è normale che un ragazzo, per di più così giovane, non abbia la capacità di tutelarsi dal punto di vista dei movimenti e quindi della sicurezza (FIGURIAMOCI SE LO FANNO LORO..), ma non è normale che nei posti di lavoro si dia vita a questo riciclo di lavoratori che, una volta spremuti per bene, vengono mandati a casa e sostituiti con altri attraverso queste maledette agenzie interinali che offrono continua manodopera a ribasso. Come lavoratori, senza distinzioni di sigle e di settori, dobbiamo impegnarci affinché questo abominio della forza lavoro somministrata termini, e lo possiamo fare solo attraverso il conflitto generalizzato ed organizzato nei luoghi di lavoro.

Non esistono lavoratori di serie A e lavoratori di serie B!

Padroni e governo, che in questi giorni si ergono a paladini della salute e della prevenzione del rischio pandemico, sono gli stessi che da anni smantellano ogni tutela sulla sicurezza nei luoghi di lavoro; sono gli stessi che incentivano l’utilizzo abnorme di manodopera precaria e interinale, più ricattata e più sfruttata, quindi più esposta al rischio di incidenti.

I posti di lavoro sono ogni giorno più un vero e proprio teatro di guerra!

È ORA DI DIRE BASTA A QUESTA MATTANZA!

È ORA DI METTERE FINE ALLA PROLIFERAZIONE SENZA LIMITE DI CONTRATTI INTERINALI E A TERMINE!

È ORA DI DAR VITA A UNA MOBILITAZIONE NAZIONALE CONTRO LE MORTI SUL LAVORO E PER LA DIFESA DELLA SICUREZZA E DELLA VITA DEGLI OPERAI!

Hai subito un’ingiustizia sul lavoro? Il tuo padrone è una merda? Scrivici all’indirizzo santabarbarabz@canaglie.net

organizziamoci assieme contro lo sfruttamento!

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[Egna] Pistole ai Vigili. L’ebbrezza della sicurezza

La propaganda politica e le falsificazioni della realtà di partiti come la Lega portano molto spesso a risultati grotteschi, condivisi e sdoganati anche dalla cosiddetta “sinistra” di governo.

Sebbene da diversi anni i reati di ogni tipo siano in calo, una pletora di consiglieri comunali, provinciali e regionali sono in costante affanno alla ricerca di casi con cui allarmare la popolazione, esagerandone la portata, con l’obiettivo di indurre nella popolazione una sensazione di insicurezza con cui poi tali avvoltoi speculano politicamente richiedendo leggi e dispositivi giuridici sempre più punitivi, in particolare con i poveri. A Bolzano la propaganda costruita intorno al parco della Stazione è un caso esemplare.

Da molti anni ormai partiti razzisti e fascistoidi come Lega e Fratelli d’Italia tentano di legare la questione della sicurezza all’immigrazione di lavoratori stranieri, con l’obiettivo di costruire una società sempre più densa di paure e paranoie, in cui lo straniero -con o senza documenti- viene utilizzato da tali cialtroni per scaricare le tensioni sociali prodotte da essi stessi.

É però interessante notare, come nel bucolico paese di Egna/Neumarkt, nella Bassa Atesina, una consigliera comunale della Lega, tale Rosa Valenti, sia riuscita a convincere la giunta comunale di uno dei borghi più belli d’Italia a trovare i fondi per l’acquisto di 4 pistole, destinate al corpo locale della polizia municipale. La consigliera leghista dell’ondata salviniana, ha motivato tale posizione dicendo: «credo fortemente nella sicurezza dei cittadini ma anche del personale che opera sul territorio con i rischi che ne conseguono».

Cosa è successo a Egna negli ultimi anni di tanto grave da rendere necessaria la circolazione di altri uomini armati oltre ai Carabinieri che proprio nel paese hanno una stazione? Nulla, nel paese della Bassa Atesina non ci sono guerre fra narcos oppure cellule di Al-Qaeda eppure secondo la consigliera leghista era necessario armare nuove persone per garantire la sicurezza degli abitanti di un paese in cui non risultano esserci problemi di gravità tale che possano anche solo lontanamente giustificare un provedimento del genere. La pistola ai vigili è la bandierina che ora la leghista può sventolare e rivendicare come vittoria.

Avere più persone armate significa avere più sicurezza? Evidentemente no, la situazione esistente negli Stati Uniti, il paese con il più alto numero di armi in circolazione, dice l’esatto contrario. Portare una pistola oppure un’arma mortale come il Taser, può portare ovviamente al suo utilizzo e alla tentazione per gli uomini in divisa di trasformarsi in sceriffi. Recentemente, con il caso dell’assassinio di Matteo Tenni ad Ala, abbiamo visto cosa significhi dare armi in mano a persone incapaci di gestire la tensione. Sempre nel Trentino, nella fattispecie a Trento, un vigile alcuni anni fa sparò a dei ragazzini in fuga dopo un furto. I casi cronaca nazionale riportano numerosissimi casi di omicidi tentati o compiuti da vigili urbani nell’ambito della propria attività. Ricordiamo a Como nel 2006 un ragazzo di 19 anni ucciso perchè faceva dei graffiti, oppure il cileno di 28 anni ucciso da un vigile di Crescenzago, vicino a Milano, nel 2012.

La Lega è il principale partito che sostiene la liberalizzazione nella vendita di armi, ed è sempre in prima linea nel difendere gioiellieri o altri esercenti che uccidono autori di furti nelle proprie propretà. Nel marzo 2019, ai tempi del governo gialloverde che tanto si adoperò per inasprire le pene per chi lottava a difesa dei propri diritti o per salvare vite umane nel Mediterraneo, la Lega presentò una proposta di legge per facilitare l’acquisto di “un’arma destinata alla difesa personale”. Tale provvedimento era composto da tre articoli in tutto che puntavano ad “aumentare da 7,5 a 15 joule il discrimine tra le armi comuni da sparo e quelle per le quali non è necessario il porto d’armi”.

La misura proposta dalla leghista Valenti, ma appoggiata da tutto il resto del Consiglio comunale, SVP e PD in testa, contiene in sé la sintesi di tutta la propaganda leghista-salviniana che evidentemente ha fatto breccia, inventando emergenze là dove non ce ne sono.

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[Internazionalismo-Bolzano] Né con i Talebani né con l’occupazione. Volantinaggio e striscioni solidali con le donne afghane

Durante la sbornia mediatica durata settimane in cui i principali media e politici – dopo avere per anni sostenuto e finanziato la guerra di occupazione – hanno versato ipocrite lacrime di coccodrillo per commentare la rovinosa sconfitta delle forze occidentali nella guerra di invasione in Afghanistan non è stato detto praticamente nulla riguardo i crimini commessi dalle forze occidentali e dal loro governo fantoccio di collaborazionisti afghani nel corso di 20 anni di occupazione da parte della NATO. Un gruppo di compagne e compagni bolzanine/i con buona memoria e consapevoli dell’evidente strumentalizzazione e mistificazione mediatica della condizione delle donne afghnane operata dai principali media col fine di giustificare vecchie e nuove guerre neocolonialiste, ha distribuito per le strade del centro di Bolzano volantini e affisso striscioni in occasione di una giornata di mobilitazione internazionale chiamata dall’associazione rivoluzionaria delle donne afghane (Revolutionary association of the women of Afghanistan – RAWA) per costruire la solidarietà dal basso nei confronti delle donne afghane. Per combattere la narrazione guerrafondaia e colonialista occidentale così come contro il regime oscurantista talebano da poco insediatosi Kabul.

Foto presa dalla pagina Fb Bolzano antifascista

Di seguito il volantino che è stato distribuito per le vie della città:

Né con i Talebani, né con l’occupazione: femminismo e rivoluzione!

L’emancipazione delle donne afghane non potrà essere mai raggiunta finché l’occupazione non avrà termine e i talebani e i criminali del “fronte nazionale” non saranno eliminati!”

Associazione Rivoluzionaria delle Donne d’Afghanistan (RAWA)

Oggi lasciamo a casa paternalismo e sguardi coloniali: lasciamo parlare Rawa e le “sue” donne rivoluzionarie afghane contro i

governi e il femminismo bianco borghese, prendendo posizione contro l’imperialismo, le occupazioni e il militarismo.

Con Rawa e con tutti i popoli oppressi per denunciare le politiche neocoloniali, il commercio di armi e il sistema industriale

militare che trae vantaggio dalle guerre in atto in Afghanistan e in altre parti del mondo.

Questo scriveva RAWA il 9 marzo del 2010 riguardo alla condizione delle donne e in generale della popolazione afgana sotto l’occupazione NATO:

Febbraio 2010: i signori della guerra locali nella provincia di Ghor in Afghanistan occidentale frustato pubblicamente due donne afgane. Sebbene non ci si possa aspettare nulla di diverso dal regime fantoccio più corrotto e sporco del mondo, il dolore delle donne afghane viene condannato a diventare

cronico nel momento in cui il mondo crede che gli USA e la NATO hanno portato libertà, democrazia e diritti delle donne in Afghanistan.

Otto anni dopo l’aggressione degli USA e dei loro alleati, compiuta sotto la bandiera della “guerra al terrore” che ha messo al potere i più brutali terroristi della Alleanza del Nord e i vecchi

burattini dei servizi segreti filosovietici Khalq e Parcham, facendo affidamento sulla loro collaborazione, gli USA hanno imposto al popolo afghano un governo fantoccio. E invece di sradicare le loro proprie creature – i talebani e Al-Qaeda – gli USA e la NATO continuano a uccidere poveri e innocenti civili, perlopiù donne e bambini, nei loro micidiali attacchi aerei.

Oggi, a distanza di 20 anni dall’inizio della famigerata operazione “Enduring freedom”, salutata da tutti i governi occidentali e dalla stampa prezzolata come guerra umanitaria contro il terrorismo e per la democrazia, siamo qui a fare i conti umani ed economici che le popolazioni afgana e occidentali hanno pagato. Per quanto riguarda le conseguenze dirette di 20 di guerra in Afganistan, le organizzazioni internazionali governative e non riportano i seguenti dati: 240.000 morti tra civili (la stragrande maggioranza) e guerriglieri; 66.000 fra vedove e orfani, Oltre un milione di disabili permanenti e feriti; 5,5 milioni di sfollati interni e

profughi nei paesi confinanti; Il raddoppiamento della percentuale di abitanti in condizioni di povertà estrema (6 su 10); 3,8 milioni di bambini necessitano di aiuto umanitario, 3,7milioni non accedono all’istruzione scolastica; 600 mila soffrono di grave malnutrizione. L’1,6% delle partorienti muore di parto; Il 9% della popolazione adulta è tossicodipendente.

Di seguito i costi economici dell’occupazione militare imposti dai governi della coalizione internazionale alle rispettive popolazioni:

2261 miliardi di dollari spesi dal governo USA (330 milioni al giorno); 8,5 milioni di euro spesi dall’inizio dell’invasione dai governi italiani di ogni colore politico (Berlusconi, Prodi, D’Alema, Monti , Letta, Renzi, Gentiloni, Conte 1, Conte 2, Draghi)

Nonostante l’evidente disastro umanitario e politico prodotto dall’intervento imperialista, i media asserviti ai governi coinvolti

continuano ancora oggi a insistere sulla legittimità di questa guerra coprendo i reali interessi economici e geopolitici che

l’hanno originata, con una pretestuosa motivazione umanitaria in difesa delle donne e dei diritti civili. Nonostante 20 anni di

guerra contro il “terrorismo” e di occupazione militare dell’Occidente, l’Afghanistan è rimasto il “posto peggiore per nascere come donna”

Da un’ intervista a RAWA, agosto 2021:

Qual è stato il ruolo delle ONG occidentali nel Paese, positivo o negativo?

Le ONG nel nostro Paese facevano parte dell’occupazione militare dell’Occidente. Sono state tutte create come funghi dopo l’11 settembre. A parte alcuni piccoli ed efficaci

progetti, hanno principalmente giocato un ruolo negativo. L’USAID (I’agenzia governativa americana) ha attuato principalmente le politiche degli Stati Uniti e così molte altre

ONG internazionali. La ragione principale dietro parte della corruzione e delle tangenti erano queste ONG. Hanno fatto progetti buoni solo sulla carta sotto la supervisione degli

stranieri e che non hanno portato a un effettivo cambiamento di vita sulla nostra gente. I Paesi occidentali hanno lasciato l’Afghanistan uno dopo l’altro.

Il ritiro americano è stato un errore? E se no, perché?

Sì, quasi tutti i Paesi se ne sono andati. Non è assolutamente un errore per noi, piuttosto è qualcosa di positivo. Eravamo totalmente contro questa occupazione e la presenza

di queste truppe. Ma purtroppo il ritiro è frutto di un accordo diplomatico tra gli Stati Uniti ei talebani. Ancora una volta, come per gli anni precedenti, sono i civili afgani che

ne stanno pagando l’enorme costo. I combattimenti in corso uccidono civili, bruciano le loro case e le loro fattorie e li costringono a lasciare i villaggi. Rawa crede fermamente

che nessuna nazione possa ricevere la pace e il progresso come se fosse un regalo. Le nazioni devono lottare, per costruire la pace con le proprie mani, per avere un solido

legame con essa.

Oggi abbiamo accolto la richiesta di amplificare la voce di chi da anni si batte per la propria libertà e quella del suo popolo ricordandoci che: “La resistenza fa parte della natura umana e la storia ne è testimone. Abbiamo gli esempi gloriosi della lotta dei

movimenti “Occupy Wall Street” e “Black Lives Matter”. Abbiamo visto che nessuna oppressione, nessuna tirannia, nessuna

violenza per quanto intense possono fermare la resistenza. Le donne non saranno più ostacolate!”

Sempre a fianco di chi lotta, sempre a fianco di chi combatte occupazioni militari e patriarcato. Guerra alla guerra!

Nemiche e nemici del patriarcato

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[Fridays for future-Bolzano] La loro normalità è il problema. Un contributo alla lotta

Venerdì 24  settembre in piazza Tribunale a Bolzano vi è stato il ritorno in piazza del movimento internazionale Fridays for Future, nato in seguito allo sciopero scolastico individuale della giovanissima attivista svedese Greta Thunberg e che ha avuto il merito – al di là degli evidenti limiti di tale mobilitazione – di porre il tema della devastazione ambientale e dello sfruttamento indiscriminato delle risorse naturali del pianeta alle nuove generazioni. Qui potete ascoltare alcune interviste fatte da Radio Tandem ad alcuni giovani manifestanti

Per l’occasione alcuni compagni e compagne di Bolzano hanno scritto e diffuso un testo (pubblicato anche sulla pagina Facebook Bolzano Antifascista) il cui obiettivo è sollecitare lo sviluppo di una critica più precisa e radicale delle cause alla base del cambiamento climatico, dell’inquinamento, dello sfruttamento delle risorse naturali e delle guerre ad esse collegate.

La distruzione del pianeta non è un fenomeno naturale ma è il risultato di criminali politiche economiche capitaliste il cui unico obiettivo è massimizzare i profitti di pochi ultramiliardari e di multinazionali senza scrupoli a discapito del resto dell’umanità. E’ evidente il motivo per cui aspettarsi un cambiamento di tali politiche dagli stessi uomini che sono fino ad oggi i difensori degli interessi che stanno distruggendo ciò che rimane degli ecosistemi naturali è illusorio. 

Continuare la mobilitazione ed affilare le armi della critica è necessario per colpire e far retrocedere i responsabili del disastro verso cui siamo avviati, in maniera forse irreversibile.

Non c’è ambientalismo senza anticapitalismo. Manifestazione Fridays for future a Bolzano. Piazza Tribunale 24 settembre 2021

Di seguito riportiamo il testo del volantino stampato e diffuso per le strade della città:

LA LORO NORMALITÀ É IL PROBLEMA

L’ambientalismo senza la lotta di classe è giardinaggio

Chico Mendes

Da diversi mesi il governo italiano come quelli dei principali paesi occidentali stanno organizzando la campagna vaccinale con la convinzione di poter così tornare alla normalità. Al di là della possibilità di bere una birra al bar o di mangiare una pizza al ristorante bisognerebbe capire cosa intendono lorsignori come normalità: continuare con le guerre, i bombardamenti, il commercio di armi, il landgrabbing, la distruzione ambientale dei paesi poveri per aumentare i profitti?

Se agli inizi del primo lockdown – nel marzo 2020 – giravano discorsi apparentemente critici verso l’insostenibilità sociale e ambientale del sistema economico capitalistico in cui viviamo, ora ad un anno e mezzo di distanza tali riflessioni e argomenti sono pressoché spariti. L’unico discorso ammesso sui principali media è la promozione della campagna di immunizzazione per poter tornare finalmente a lavorare, a produrre, a far riprendere a correre l’economia continuando ad arricchire i soliti noti, proprio come prima.

Allo stesso tempo sono sempre più numerosi i segnali di allarme che provengono dal pianeta. Lo scioglimento dei ghiacci ai poli e l’alterazione della corrente oceanica del Golfo del Messico sono due fra i più gravi. Dalla Siberia all’Amazzonia, dalla Grecia alla Turchia passando per Italia, Spagna e Algeria, negli ultimi anni sono milioni gli ettari di foresta andati in fumo nel corso di incendi dolosi appiccati per impiantare allevamenti intensivi di bovini o per arricchire speculatori e mafie più o meno legali.

Il capitalismo dei paesi occidentali, la sua continua necessità di cercare sempre nuovi mercati e di reperire materie prime a costi sempre minori, innesca guerre per favorire le proprie politiche predatorie ai danni dei paesi più poveri. Così è accaduto negli ultimi 20 anni in Afghanistan, Iraq, Libia, Siria, Yemen e così accade oggi nei paesi dell’Africa subsahariana come Mali, Niger o Congo, dove contingenti militari europei e milizie addestrate o armate dall’Occidente vengono schierate per difendere gli interessi economici europei o nordamericani ovvero materie prime come minerali che abbondano nel sottosuolo africano.

La distruzione sistematica dell’ambiente da parte dell’uomo è alla base dell’alterazione del clima che sta provocando fenomeni atmosferici sempre più violenti e devastanti. La stessa pandemia legata al virus Sars-Covid 19 è legata alla distruzione degli ecosistemi in cui vivono gli animali selvatici.

Di fronte a questi cambiamenti epocali il vaccino rappresenta un piccolo cerotto del tutto insufficiente per fermare un’emorragia che, se non viene fermata in tempo, porterà in tempi brevi ad un collasso irreversibile il pianeta su cui viviamo.

Va da sé che non ci si può aspettare nulla dai padroni di industrie, della finanza, del commercio internazionale o dalla stessa classe politica che è direttamente responsabile e complice del disastro in cui stiamo vivendo e che al massimo tenta – attraverso politiche di greenwashing – di recuperare un certo dissenso istituendo il fantomatico Ministero della Transizione ecologica presieduto da Cingolani che – fra le altre cose – ha recentemente approvato nuove trivellazioni nel mare Adriatico alla ricerca di petrolio dicendosi inoltre disponibile a riavviare il programma nucleare, nonostante in passato due referendum nazionali si siano espressi contro.

La distruzione dell’ambiente è quindi il risultato di politiche economiche criminali che anche attraverso il landgrabbing e monocolture intensive stanno impoverendo e desertificando le terre di molti paesi africani costringendo sempre più persone all’emigrazione.

I responsabili – fra gli altri – sono istituti di credito come Unicredit, fra le principali banche compromesse con l’industria bellica e in progetti inquinanti ma anche aziende come la multinazionale italiana ENI, corresponsabile del disastro ambientale nel Delta del Niger o della guerra in Libia per citare due casi emblematici. Ricordiamo come anche nel nostro piccolo, a Bolzano, gli interessi di bottega legati al miliardario austriaco Benko arrivino, nel caso della costruzione del centro commerciale Waltherpark, a danneggiare la falda acquifera della città oppure a spingere per l’ampliamento dell’aeroporto di San Giacomo, indifferenti alla contrarietà di gran parte della popolazione.

Chi detiene il potere economico e politico rinuncerà ai propri interessi ciechi ed egoistici solo se costretto da una continua e ampia mobilitazione dal basso capace di individuare responsabilità e di colpire gli interessi che ci stanno avvelenando. Lo sciopero di oggi è un importante segnale, non fermiamoci.

CONTRO DEVASTATORI E SACCHEGGIATORI DELL’AMBIENTE: AGIRE ORA!

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[Bolzano] Oltre l’arresto di Max Leitner. Alcune note e riflessioni

Il contesto in cui è avvenuto il recente arresto di Max Leitner, noto ai più per le sue rapine a banche, furgoni portavalori e le numerose evasioni che lo avevano fatto diventare il Vallanzasca sudtirolese, ha fatto rimergere, al di là della sua biografia, un dato cui non è stato dato il necessario risalto: l’ennesima violenza nei confronti di una donna che avrebbe potuto trasformarsi nell’ennesimo femminicidio.

Certamente per i cronisti nostrani il dato eclatante del fatto che ha portato a ritenere utile scriverne un po’ più del solito era il nome di Leitner, non certo l’episodio in sé, riconducibile alle dinamiche che attraversano i cosiddetti bassifondi della città, vissuti da uomini e donne marginali come prostitute, vagabondi, immigrati irregolari, senzatetto la cui sorte solitamente non interessa alla Bolzano perbene.

La città di Bolzano negli ultimi anni ha visto lo sviluppo di un’isterica campagna securitaria costruita su episodi legati al cosiddetto decoro urbano ovvero piccoli atti di vandalismo, piccolo spaccio che ha preparato il terreno all’approvazione del progetto Waltherpark del miliardario austriaco Benko, venduto come progetto di riqualificazione urbana che avrebbe nei fatti portato all’espulsione del sottoproletariato immigrato che vive il parco della stazione. Oltre a ciò si sono avute continue ordinanze antidegrado e centinaia di telecamere a 360 gradi disseminate per la città trasformando di fatto il capoluogo sudtirolese in un set del Grande fratello.

Politicanti locali, legati in particolare alla Lega di Matteo Salvini e fascistoidi ma non solo, supportati da giornali, giornaletti e canali televisivi locali hanno cavalcato ogni piccolo episodio di cronaca in cui il protagonista era straniero per costruire e alimentare una diffusa percezione di insicurezza che ha portato sempre più persone a vedere nel senzatetto, nel marginale o nell’immigrato la causa della propria paura. Ciò è valido in particolare per la zona dei Piani di Bolzano, dove il tema della presenza di prostitute e di un centro di accoglienza per immigrati è stato negli anni sfruttato per alimentare la paura, costruire  consenso e raccattare voti.

Se leggiamo fra le righe ma senza sforzarcisi nemmeno troppo, l’episodio dell’arresto di Max Leitner dimostra per l’ennesima volta come a vivere ogni giorno nel vero terrore siano molto spesso le donne, in questo caso le prostitute che lavorano per le strade di Bolzano. Un tema che si presta molto meno alla propaganda spicciola e che – benchè abbia provocato in città e provincia una lunga scia di sangue e barbarie – non desta lo stesso allarme sociale riservato per esempio al parco della stazione per anni.

Vale la pena ricordare, per i troppi smemorati come nel corso degli anni in città siano accadute infamie di ogni tipo nei confronti delle prostitute, a contatto con le miserie e le frustrazioni di uomini che con il denaro, oltre alla prestazione sessuale, spesso ambiscono a comprare ed esercitare le proprie ambizioni di potere e dominio su una donna tout court.

Non occorre essere degli investigatori per immaginare la quantità di violenze fisiche e psicologiche, minacce e intimidazioni che le prostitute che spesso vediamo nelle vie della città vivono e subiscono quotidianamente. La paura che accompagna ogni nottata, dal momento della contrattazione del prezzo, alla salita in auto fino al momento della prestazione ed al ritorno a casa.

Fra le decine di donne uccise da mariti o fidanzati negli anni in Alto Adige di cui colpevolmente dimentichiamo senz’altro alcune (5 nel 2018: Monika Gruber, Nicoleta Caciula, Rita Pissarotti, Alexandra Riffeser, Maria Magdalena Oberhollenzer. Nel 2019 Fatima Zeeshan, incinta all’ ottavo mese, nel 2020 Barbara Rauch, nel 2021 Maria Waschler) ricordiamo come una parte particolarmente colpita dalla violenza maschile sono proprio le prostitute.

Non si possono dimenticare le vittime dell’assassino seriale bolzanino Marco Bergamo, il quale fra la fine degli anni Ottanta e l’inizio degli anni Novanta oltre alla giovanissima Marcella Casagrande, uccise a decine di coltellate la escort Annamaria Cipolletti e successivamente le prostitute Renate Rauch, Renate Troger e Marika Zorzi.

Nel settembre 2012 ai Piani di Bolzano, la giovane prostituta bulgara Svetla Fileva venne accoltellata 36 volte dal sudtirolese Kevin Montolli.

Nel 2015 il boscaiolo sudtirolese Klaus Rabanser venne condannato a 3 anni e 8 mesi per lo stupro di tre prostitute nigeriane. Oltre ai brutali pestaggi, in almeno un caso egli intimò alla donna di avere un rapporto orale sotto minaccia di un trapano acceso.

Nel giugno 2021 due giovani uomini rumeni sono stati condannati per sfruttamento della prostituzione avendo schiavizzato e sfruttato tre donne connazionali, costrette a vivere in condizioni disastrose in una tenda lungo il Talvera.

Basta fare una rapida ricerca su un motore di ricerca e la quantità di violenze commesse da uomini contro le prostitute in tutta Italia è agghiacciante: dalle rapine agli stupri di gruppo, dalle aggressioni, pestaggi, minacce fino alla tratta e al sistematico ricatto e sfruttamento. Data la condizione in cui si svolge tale attività oltre che la situazione irrregolare di molte donne straniere è facile immaginare come la stragrande maggioranza delle violenze da loro subite non venga neppure denunciata e di conseguenza non sia pubblica. Come abbiamo visto troppo spesso se è difficile denunciare per una donna garantita sotto ogni punto di vista (la paura di subire una vittimizzazione secondaria) figuriamoci per chi non ha soldi o documenti.

Se il contesto in cui è avvenuto l’arresto di Max Leitner conferma – a maggior ragione per chi ci ha avuto a che fare – come dell’aura a tratti mitica che circondava il suo nome alla prova dei fatti non rimane che il nulla, l’episodio di cronaca permette di evidenziare come l’unica vera emergenza sicurezza è legata alla condizione di molte, troppe donne; in particolare le prostitute che lavorano sulle strade, alla mercè dei peggiori istinti dell’uomo frustrato medio e delle miserie che lo caratterizzano. Un fatto su cui ragionare e riflettere, per capire come non lasciarle sole, per non farle sentire abbandonate.

Come ci hanno insegnato l’associazione GEA e le manifestanti che hanno portato solidarietà a MC sotto il Tribunale di Bolzano nei mesi scorsi, la solidarietà alle donne va data quando sono ancora vive; le panchine rosse, i discorsi retorici così come le mimose nelle feste comandate una volta all’anno non servono a nulla se non si è in grado di stare a fianco delle donne ogni giorno mentre sono ancora in piedi, riconoscendo il pericolo prima che diventino l’ennesimo femminicidio annunciato.

Combattere giorno per giorno la cultura dello stupro e il patriarcato che le prostitute subiscono ogni giorno senza voltarci dall’altra parte è il minimo che possiamo fare.

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[Waltherpark-Bolzano] Danni alla Falda. Da tre mesi cantiere allagato

In un articolo pubblicato sul sito Salto.bz il 22 giugno 2021 l’attivista bolzanino Claudio Campedelli – da anni impegnato a fondo nella lotta contro  devastazioni come il tunnel del Brennero e progetti nocivi  che danneggiano ambiente e salute – aveva avuto modo di denunciare come all’interno del cantiere del Walther park a Bolzano i lavori di scavo delle fondamenta del centro commerciale Waltherpark avessero intercettato la falda acquifera provocando l’allagamento del cantiere e di conseguenza il rallentamento dei lavori.

Foto del giugno 2021 presa da salto.bz

Circa tre mesi dopo il cantiere è ancora allagato ed è evidente come la fonte idrica da cui attinge l’acquedotto cittadino rischi così di riportare delle gravi conseguenze sulla qualità dell’acqua.

Un sogno per ricchi e per chi specula e come sempre perdite e danni vengono socializzati

foto scattata alla fine di agosto 2021

Foto scattata a fine agosto 2021

Foto scattata a fine agosto 2021

Sul giornale Alto Adige Heinz Hager, consulente della società Signa nonché braccio destro del miliardario Renè Benko, attribuisce l’incidente al “cambiamento climatico” e ribadisce per l’ennesima volta come i paletti legali ed una serie di atteggiamenti “poco collaboranti” da parte di alcuni uffici provinciali, a suo avviso metterebbero a rischio lo “sviluppo” della città ovvero la costruzione di nuove grandi opere che inevitabilmente andrebbero a toccare la falda che rifornisce di acqua potabile gli abitanti della città di Bolzano.

Detto in modo più schietto e banale Hager vorrebbe avere per i cantieri della sua società mani libere e se viene bucata la falda tanto peggio per la falda…che vengano azionate le pompe. 

Dal giornale locale “Alto Adige 12 settembre 2021

E’ bene ricordare a chi ha la memoria corta che per fare approvare il progetto del Kaufhaus è stata fatta finire anzitempo una legislatura del consiglio comunale, sono state invalidate votazioni dello stesso ed è stato necessario ricorrere ad un referendum farsa spalmato su 5 giorni in cui le forze in campo erano impari. Chi deteneva un capitale finanziario immenso come Signa, supportata dai principali media locali come Alto Adige e Dolomiten, ebbe gioco facile nel costruire una narrazione che – supportata pressochè da tutti i partiti, dal PD-SVP ai neofascisti di CasaPound – vedeva nell’espulsione di poveri e marginali dal parco della stazione e nella trasformazione della zona in un luogo “pulito e decoroso” la panacea di tutti i mali della città. 

Come al solito chi protestava contro chi ha messo “le mani sulla città” vedeva giusto.

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[Afghanistan] Le loro guerre, i nostri morti. Un testo distribuito a Bolzano

Riportiamo di seguito un testo distribuito a Bolzano per tentare di smontare la retorica dell’occupante buono che negli ultimi giorni sta venendo costruita sui principali media. La precipitosa fuga dei soldati occidentali da Kabul chiude – almeno provvisoriamente – un capitolo della guerra infinita iniziata dopo l’11 settembre che ha portato al radicale impoverimento ed alla destabilizzazione di un’intera area geografica e politica e ad una marea montante di islamofobia nel mondo occidentale cavalcata in particolare da partiti razzisti e fascistoidi come Lega e Fratelli d’Italia per fomentare paura e costruire consenso agitando lo spettro del musulmano cattivo terrorista (ricordiamo che negli anni in Italia le uniche stragi o tentate stragi di matrice politica sono di stampo fascista e razzista vedi il militante di CasaPound Gianluca Casseri a Firenze nel 2011 ed il fascioleghista Luca Traini a Macerata). Guerra in cui lo Stato italiano e il suo esercito – apprendisti stregoni sulla pelle dei proletari afghani – sono stati partecipi fin dall’inizio e delle cui nefaste conseguenze devono assumersi la responsabilità morale.

Per un approfondimento consigliamo la lettura del seguente articolo:

Afghanistan: Una disfatta storica per gli Stati Uniti e l’Italia. E ora?

Le montagne afghane si rivelano ancora una volta la tomba dell’Impero

LE LORO GUERRE, I NOSTRI MORTI

Un contributo al dibattito

“Ora avviene che quando un colonizzato sente un discorso sulla cultura occidentale, tira fuori la roncola o per lo meno si accerta che gli è a portata di mano. La violenza con la quale si è affermata la supremazia dei valori bianchi, l’aggressività che ha impregnato il vittorioso confronto di quei valori coi modi di vivere o di pensare dei colonizzati fan sì che, per un giusto capovolgimento, il colonizzato sogghigna quando si evocano davanti a lui quei valori. Nel contesto coloniale, il colono non si ferma nel suo lavoro di stroncamento del colonizzato se non quando quest’ultimo ha riconosciuto a voce alta e chiara la supremazia dei valori bianchi. Nel periodo di decolonizzazione, la massa colonizzata se ne infischia di quegli stessi valori, li insulta, li vomita a gola spiegata”

Frantz Fanon, I dannati della Terra

Nelle ultime settimane, in seguito alla disfatta politica e militare della coalizione occidentale in Afghanistan, all’aeroporto di Kabul è in corso una caotica ritirata in cui gli Stati Uniti in particolare stanno cercando di rimpatriare i propri soldati, i collaborazionisti afghani compromessi con l’occupazione occidentale nonché le migliaia di contractors statunitensi, ossia mercenari privati pagati per compiere operazioni militari segrete per conto degli eserciti occupanti. Nessuno creda che le operazioni di fuga siano dettate da un pur minimo slancio umanitario: chi si imbarca è selezionato in una cerchia determinata di persone, si tratta di salvare il poco che rimane della propria faccia, almeno di fronte alle migliaia di afghani che, per denaro, ingenuità o costrizione, in questi anni si sono compromessi con gli occupanti e le sue istituzioni costruite sulla sabbia, crollate infatti con un soffio di vento.

Un caos determinato dagli invasori ma intorno a cui negli ultimi giorni i principali media nazionali stanno costruendo una stucchevole narrazione mistificatoria (Il marine che aiuta i bambini, il console che salva i bambini, ecc.) che ha l’obiettivo di nascondere e far dimenticare la bruciante sconfitta subita ad opera dei talebani, barbari che non hanno saputo cogliere la lezione di civiltà democratica dispensata a suon di bombardamenti con jet e droni, massacri di civili e torture inflitte a volte per gioco, come emerso nel caso dei soldati australiani, responsabili di sadiche azioni contro inermi civili afghani. Una narrazione tossica funzionale alla giustificazione di un fallimento durato 20 anni in cui i lavoratori italiani ma non solo, mentre veniva tagliata la sanità e la scuola, hanno dovuto mantenere con oltre 8 miliardi di euro una struttura militare parassitaria che si è resa corresponsabile della costruzione di uno Stato fantoccio corrotto ad ogni livello e percepito come tale da gran parte della società afghana.

Venti anni di occupazione di uno dei paesi più poveri al mondo che ha prodotto 240.000 civili uccisi fra civili (grande maggioranza) e guerriglieri, almeno un milione di persone che vivranno il resto della vita con disabilità permanente oltre a 5,5 milioni di sfollati interni e profughi in Pakistan, Iran e decine di altri paesi (una minima parte in Occidente). Inoltre, al di là della propaganda mediatica, la condizione delle donne non è affatto migliorata, anzi le piccole (e ristrette a piccole cerchie privilegiate della società afghana) concessioni degli occupanti verranno con ogni probabilità fatte pagare a chi rimane dai nuovi padroni del Paese. E così, come in un sadico gioco dell’oca organizzato dalle potenze occidentali, la lotta per l’emancipazione delle donne e degli uomini afghani – che avverrà solo per opera loro e con la solidarietà internazionalista dal basso, non certo attraverso i bombardamenti della NATO – torna indietro, rendendo il loro percorso futuro più arduo e difficile.

L’invasione e l’occupazione dell’Afghanistan, avvenuta nell’ottobre 2001 rappresentò l’iniziò della cosiddetta guerra al terrorismo iniziata dopo l’attacco alle torri gemelle di New York. Come ricordò lo stesso Gino Strada – fra i pochi, pochissimi, che negli anni ha mantenuto un’integrità antimilitarista denunciando spesso nel silenzio la tragedia della guerra afghana – mentre destra e sinistra in Parlamento riferivano le menzogne su cui giustificare il continuo finanziamento della guerra permanente, chi allora scendeva in piazza contro un’annunciata criminale operazione militare veniva accusato di essere filotalebano. Lo stesso schema propagandistico mediatico venne utilizzato da politica e media ufficiali per giustificare due anni più tardi, l’invasione dell’Iraq costruita su spudorate falsità che portò alla distruzione di un paese ricco di risorse ed alla generale destabilizzazione di un’area – il Medio Oriente – tutt’oggi in uno stato di guerra permanente. Nel 2011 le attenzioni occidentali, e la sete di profitto delle multinazionali petrolifere, si rivolsero alla vicina Libia che, sotto l’egida delle nazioni unite, venne bombardata dall’aviazione occidentale con la complicità italiana e trasformata in un lager a cielo aperto, governato da milizie che negli anni hanno trovato nei lager per immigrati un business di grande profitto. La Siria da oltre 10 anni è oggetto di una guerra mondiale per procura in cui decine di Stati sono intervenuti finanziando milizie oppure bombardando per fini di consenso interno. Lo Yemen è un paese devastato dalle bombe prodotte in occidente (fra cui la RWM in Sardegna) e sganciate dall’Arabia Saudita, alleato dell’Occidente e in cui evidentemente alla destra razzista e alla sinistra guerrafondaia – Renzi in testa – la condizione della donna non suscita grande sdegno.

La retorica della guerra al terrorismo – sviluppatasi in particolare dopo l’11 settembre – ha costituito l’ipocrita sovrastruttura ideologica dietro a cui Stati, Comandi militari e multinazionali occidentali hanno nascosto la propria politica predatoria che in 20 anni ha prodotto un radicale impoverimento della popolazione dei paesi coinvolti oltre che un terreno fertile per la rapida diffusione del fondamentalismo islamico, il singhiozzo di una creatura oppressa, a cui migliaia di giovani – in mancanza di valide alternative – si sono aggrappati per tentare di resistere a delle aggressioni militari di stampo neocoloniale.

La cosiddetta guerra al terrorismo in 20 anni ha prodotto centinaia di migliaia di morti nei paesi coinvolti, in gran parte civili, decine di milioni di profughi intorno a cui la destra neofascista e xenofoba ha costruito il proprio consenso anche se, come abbiamo visto con Minniti ministro dell’Interno, la sinistra istituzionale del PD non è stata molto diversa nel momento in cui non si è fatta alcun problema nello stringere accordi con milizie di tagliagole libici e aguzzini gestori di lager in cui si praticavano sistematicamente torture e stupri.

Non accettiamo una retorica ufficiale che oggi cerca di coprire le gravissime responsabilità delle democrazie occidentali e dei comandi militari strumentalizzando a proprio uso e consumo la condizione delle donne afghane, di cui a Bush come a tutti i presidenti via via succedutesi in Occidente non importa nulla se non come argomenti per la propria propaganda bellica.

Nemici del capitalismo e delle sue guerre

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[G8 di Genova] Da Bolzano a Genova. Un ricordo del 21 Luglio 2001

Ripercorrere i mesi precedenti al G8 di Genova e tirare fuori dalla polvere di un cassetto le foto che scattai allora con la mia macchina fotografica usa e getta, significa ricostruire i passi che mi hanno avvicinato agli ideali di libertà, giustizia sociale e uguaglianza.

Nell’estate 2001 erano mesi che aspettavo di andare a Genova alle manifestazioni contro il G8, da un pò di tempo avevo iniziato ad appassionarmi di politica; avevo letto Stato e anarchia di Bakunin, alcuni testi base di Errico Malatesta e Il manifesto del partito comunista di Karl Marx. Che Guevara rappresentava per me più di una maglietta o un marchio spesso ridotto a pubblicità, esso era un esempio da seguire e mi ero divorato tutti i suoi scritti; da Latinoamericana al Diario del Che in Bolivia oppure la biografia che Paco Taibo Ignacio II aveva scritto su di lui Senza perdere la tenerezza. In particolare una sua frase nel tempo ho fatto mia: “Siate sempre capaci di sentire nel più profondo qualsiasi ingiustizia commessa contro chiunque in qualunque parte del mondo. È la qualità più bella di un rivoluzionario”. In una città sterile e arida come Bolzano non esisteva nessuna realtà antagonista o spazio autogestito per cui io come gli altri amici della compagnia ci avvicinammo agli ideali anarchici e/o comunisti da autodidatti, in particolare grazie alla musica, al Punk, che fu fondamentale nel prendere familiarità con temi fondamentali come l’antimilitarismo, l’antirazzismo, l’ambientalismo e la critica del capitalismo. Circa un anno prima di Genova a Parco Europa a Bolzano avevano suonato i 99 Posse le cui canzoni come Rigurgito Antifascista, Curre Curre Guagliò oppure Odio costituivano -insieme a Rage against the Machine, Punkreas o Manu Chao – la colonna sonora di moltissimi giovani e giovanissimi compagni che si erano avvicinati al cosiddetto movimento dei movimenti. Si andava a Bologna ai concerti Punk ed a festival come l’Independence day. Negli istituti superiori cittadini così come nel resto d’Italia si contestava la Riforma Moratti e da tempo si facevano manifestazioni e si tentavano occupazioni; con il nostro gruppetto ci si dava da fare, ovviamente lontani da partiti e da tutto ciò che poteva essere istituzionale, della necessità di mantenere un’autonomia di pensiero e movimento eravamo già sicuri. Alcuni garage di viale Europa erano stati trasformati in luoghi di ritrovo autogestiti in cui iniziavano a formarsi gruppi Punk e Rock. I giorni di Genova gli aspettavamo con una certa ansia, Internet era ancora cosa per pochi e ci si aggiornava leggendo Il Manifesto, il sito di controinformazione Indymedia e se si capitava a Bologna si recuperavano giornaletti e testi di movimento altrimenti irreperibili in Alto Adige. C’era la sensazione che ci fosse un movimento di lotta al capitalismo di un certo spessore e nella mia ingenuità di allora non comprendevo le profonde fratture politiche fra realtà politiche e e militanti fra loro inconciliabili. Ad ogni modo, a maggior ragione dopo la repressione di Praga, Goteborg e infine Napoli, bisognava esserci. Non ricordo in che modo presi contatto con un certo Bachmann, della Cgil di Bolzano, che tempestai di telefonate per settimane per ricordargli che nel suo pullmino saremmo venuti anche noi, tre ragazzini di manco 17 anni.

La sera del 20 luglio assistemmo impietriti ai Tg che riportavano le immagini dell’assassinio di Carlo Giuliani in piazza Alimonda, la cui ovvia conseguenza furono le pressioni famigliari per non farci partire. Ma a tal punto niente poteva fermarci e forse sentivamo ancora più forte l’esigenza di esserci, di non lasciarci intimorire, anche se ciò che stava accadendo era evidentemente più grande di noi. Partimmo di notte, penso intorno alle 4-5, da via Gutenberg ed arrivammo in una Genova blindata, in assetto da guerra. Celerini dappertutto ma noi con il nostro Westfalia passammo lisci senza problemi. Camminammo un pò per le strade di Genova, passammo allo stadio Carlini, stadio in cui stavano le cosiddette Tute bianche, ricordo che cercai di comprare una copia del Manifesto ma non si trovava da nessuna parte poiché era esaurito dappertutto, ricordo la bella sensazione di vedere altre centinaia/migliaia di persone con magliette del Che o il Subcomandante Marcos.

Stadio Carlini. Luogo di riferimento delle cosiddette Tute bianche poi Disobbedienti.

Per chi come me veniva da Bolzano ed era già abituato a sentire addosso gli sguardi – e non solo – minacciosi dei nazi alla vista del Che sulla T-shirt, era davvero una sensazione potente sentirsi una goccia di un mare solidale così grande. Arrivammo al concentramento del corteo internazionale, l’aria era tesissima e il rumore degli elicotteri della polizia ci avrebbe accompagnato per tutta la giornata, scritte sui muri promettevano vendetta per Carlo, ricordo la scritta “Noi con le mani voi con le pistole”.

I Muri di Genova il 21 luglio 2021

Partenza del Corteo. 21 Luglio 2001

Partenza del Corteo. 21 Luglio 2001.

Ricordo espropri di supermercati. Non avevamo nessuna esperienza di cortei del genere per cui ci muovemmo in modo molto istintivo finendo ovviamente nelle parti più calde della manifestazione. Arrivati sul Lungomare iniziarono a piovere lacrimogeni, lanciati anche agli elicotteri, e tentavamo di tamponare il loro effetto con dei limoni che ci eravamo portati da casa e che io spremevo sulla mia Kefiah sperando che filtrasse il velenoso gas tossico CS. Ricordo che nella mia ingenuità chiesi a un compagno con il viso stravolto dai gas come stava andando la lotta “in prima linea” e mi rispose: “Si resiste”. A un certo punto una pioggia di decine di candelotti lacrimogeni rese l’aria del tutto irrespirabile, non si vedeva nulla e la folla in fuga rischiava di schiacciarci.

Polizia dappertutto. In ogni strada laterale. Genova 21 Luglio 2001

Celere sulla cima della collina. Genova 21 luglio 2001

Ci bloccammo al lato della strada, impossibilitati a muoverci e dalla nube bianca sbucarono i celerini che iniziarono a bastonare a sangue tutti coloro che capitavano a tiro: ragazzi, anziani, donne con le mani alzate. Visto l’andazzo che ci avrebbe inevitabilmente raggiunto non so come riuscimmo a saltare oltre una cancellata altissima che stava dietro di noi ed arrivammo sugli scogli dove aspettammo che la situazione si calmasse. Ritornati sul lungomare la situazione appariva allucinante: feriti svenuti in laghi di sangue, poliziotti che grugnivano minacce.

Riuscimmo ad allontanarci e poco dopo nei vicoli di Genova iniziò una caccia all’uomo con le camionette della polizia che rastrellavano i manifestanti nei vicoli. Chi cercava di entrare nei portoni delle case, alcuni aprivano, altri no. Io, che nel frattempo ero rimasto solo, mi nascosi con un altro gruppo di manifestanti in un androne sperando che ci andasse bene. Le camionette arrivarono, noi uscimmo con le mani alzate e al di là di alcune manganellate uscimmo tutto sommato con pochi lividi e cioè indenni rispetto a ciò che avrebbe potuto accaderci. Piano piano, passando per le strade più remote tornammo non so come verso il furgone e durante il viaggio di ritorno sentivamo alla radio le notizie dell’irruzione della polizia alla Diaz. Il viaggio fu contraddistinto da un continuo scambiarsi di opinioni ed esperienze, consapevoli che eravamo usciti da una situazione difficile di cui ancora i risvolti più allucinanti come le torture operate dalla polizia alla caserma di Bolzaneto ci erano ancora sconosciute. I giorni seguenti furono contraddistinti dalla miseria delle polemiche politiche e Carlo Giuliani, in un primo momento rinnegato e calunniato da tutti, Vittorio Agnoletto e Luca Casarini delle tute bianche in primis, al momento opportuno venne recuperato politicamente come martire del movimento. Ricordo in piazza Mazzini un presidio dopo Genova, credo organizzato dall’embrione di un possibile “Bolzano social forum” in cui i partecipanti intervenivano con le proprie valutazioni della giornata. Un partecipante – tornato da Genova – disse che la prossima volta si sarebbe recato alla manifestazione con casco e protezioni: venne sommerso di fischi da alcuni cosiddetti pacifisti che leggevano nella sua volontà di proteggersi dalle manganellate della polizia un intento bellicoso. Marco, amico e compagno con cui ho condiviso tale giornata, insieme al gruppo Punk Dafne, scrisse la canzone 16 anni, dedicata alle giornate di lotta genovesi viste con i suoi occhi di 16enne.

Pochi mesi dopo i fatti del G8 di Genova ci fu l’11 settembre ed il seguente lavaggio del cervello di massa sul terrorismo islamico che portò alla politica della guerra permanente con l’Italia in prima linea; due anni dopo l’invasione dell’Irak, operazione costruita su una propaganda di menzogne spudorate, costituì l’apice delle criminali politiche occidentali in Medio Oriente. Dopo aver bastonato a sangue e intimidito chi lottava contro neoliberismo e capitalismo, con l’emergenza “fondamentalismo islamico” l’odio sociale e le paranoie collettive vennero indirizzate dal potere verso musulmani e in generale, immigrati. Un’operazione di propaganda sanguinosa che ha saputo deviare le tensioni sociali verso una strisciante guerra fra poveri in cui il nemico viene individuato in chi sta peggio e non in chi sfrutta, arricchisce sulla pelle dei poveri.

Molti raccontano come dopo Genova non siano più andati in piazza; per me è stato l’esatto contrario. E’ stata una giornata che ha fatto capire molte cose e ancora oggi non finisce di insegnarne. Possono essere le manganellate o le torture in caserma o nelle carceri così come le inchieste giudiziarie contro operai, sindacalisti o militanti antagonisti, ma non ci si può più stupire che lo Stato mostri il suo volto più feroce di fronte a chi combatte, senza sceneggiate o rappresentazioni teatrali, i responsabili di un sistema che affama, devasta e saccheggia. E’ poco consolatorio dire che avevamo ragione su tutti i fronti se ancora oggi c’è chi – come Vincenzo Vecchi, Luca Finotti e Jimmy Puglisi – paga con la libertà la propria partecipazione a quei giorni di lotta. Genova è stata un punto di svolta anche dal punto di visto repressivo; per la prima volta dopo decenni la magistratura rispolverò il reato di devastazione e saccheggio” che permise all’accusa di infliggere pene spropositate ad alcuni partecipanti al corteo come uelli appena citati, che pagarono per tutti. Da allora tale reato è stato usato dagli agenti della repressione in modo sempre più disinvolto e spregiudicato come nel caso della manifestazione contro le frontiere al Brennero del maggio 2016 in cui, per una manifestazione, i titolari dell’accusa della Procura bolzanina chiesero oltre 340 anni di carcere per 63 compagni/e a fronte di nemmeno 8000 euro di danni.

I giornalisti democratici oppure esponenti della società civile parlano dei giorni di Genova come il “più grave caso di sospensione dei diritti in Europa nel dopoguerra” ma l’operato della polizia e dei Carabinieri alla Diaz e Bolzaneto attinge invece perfettamente ad una cassetta degli attrezzi che – da Piazza Fontana alla Strage di Bologna – le istituzioni italiane hanno usato per reprimere ogni forma di lotta sociale e conflittualità di classe. Ed infatti i responsabili di tali crimini sono stati sistematicamente promossi e hanno fatto carriera giungendo ai vertici delle forze dell’ordine italiane o all’interno di aziende statali come Finmeccanica (vedi il capo della polizia De Gennaro). Gli unici a pagare con lunghe pene detentive per danneggiamenti ca va sans dire sono stati i compagni e le compagne. 

Enzo

Per approfondimenti si consigliano i seguenti siti:

Per sostenere Vincenzo Vecchi ecco il sito a cui fare riferimento

Il sito Indymedia, nuovamente online in occasione dei 20 anni dal G8 di Genova

Il ricordo del G8 di Genova di Luca Finotti, uno dei compagni condannati per le manifestazioni e ancora in carcere a Cremona.

Radio Tandem 20 anni dai fatti di Genova. Ricordi e testimonianze di manifestanti bolzanini presenti a Genova

Radio Onda Rossa Intervista ad Elena Giuliani

Radio Onda Rossa Genova 2001-2021

Genova 2001: un momento in cui non si poteva non esserci (video)

Genova 2001. Spunti per la riflessione

Qualcuno/a in Parlamento, qualcuno/a in galera – Lettera di Marina da Zapruder #54

Supporto legale 

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[TAV-BBT] Chi sarebbero i devastatori e i saccheggiatori?

In una lettera pubblicata sul giornale Alto Adige del 17 giugno 2006 a pagina 8, l’allora amministratore delegato della società BBT-SE affermava come il tunnel ferroviario del Brennero, altresì noto come Eurotunnel/BrennerBasisTunnel, sarebbe stato pronto nel 2016.

Erano anni in cui la lotta contro il Treno ad alta Velocità in Val Susa si stava affermando in modo sempre più deciso ed una generale consapevolezza circa l’inutilità delle cosiddette “grandi opere” andava diffondendosi. Manifestazioni oceaniche sfociarono in dure battaglie con i reparti celere di polizia e Carabinieri ed andarono a costituire le basi “mitologiche” del movimento come la celebre battaglia del Seghino avvenuta il 31 ottobre 2005.

Nello stesso periodo anche in Trentino-Alto Adige iniziò a svilupparsi l’opposizione ad un progetto altrettanto devastante: il Tunnel di Base del Brennero e opere correlate. Il 10 marzo 2007, nonostante il tentativo di criminalizzazione preventiva operato dai mass media locali (rischio infiltrazioni terroristiche, rischio disordini, ecc. ecc.) furono oltre mille i partecipanti alla manifestazione contro il Tunnel di Base del Brennero che partì da Piazza Mazzini per arrivare in centro storico dove nella sala di Rappresentanza del Comune in vicolo Gumer si tenne un’affollatissima assemblea in cui le varie realtà nazionali attive contro nocività, guerre e progetti di devastazione ambientale. Aspetto memorabile della manifestazione fu la partecipazione dei valsusini, la cui solidarietà e calore venne ben rappresentata dall’arrivo di 4 pullman pieni. Ciò che appariva evidente fin da subito fu, oltre l’inutilità del lavoro, che non avrebbe risolto il problema del traffico stradale, l’aspetto di devastazione ambientale e i costi insostenibili da un punto di vista economico.

10 marzo 2007. Foto dal corteo No-tavKein BBT a Bolzano

10 marzo 2007. Foto dal corteo No-tavKein BBT a Bolzano

10 marzo 2007. Foto dal corteo No-tavKein BBT a Bolzano

10 marzo 2007. Foto dal corteo No-tavKein BBT a Bolzano

10 marzo 2007. Foto dal corteo No-tavKein BBT a Bolzano

10 marzo 2007. “Brennero-Valsusa-Vicenza uniti nella lotta” Dopo la manifestazione assemblea cittadina alla sala di rappresentanza del Comune in vicolo Gumer

Da allora di strada ne è stata fatta molta e se in Trentino la lotta contro il Tav-BBT è più viva che mai, in Alto Adige, il dissenso è stato ben presto abilmente aggirato con le solite manovre politiche a base di contributi economici e generosi versamenti.

Ariviamo al 2021, ben 15 anni dopo la lettera dell’amministratore De Carlo, e vediamo non solo che che la sua previsione che vedeva nel 2016 l’inaugurazione del BBT si è rivelata clamorosamente sbagliata; va aggiunto che da poco la società BBT-SE ha da poco annunciato come i lavori non finiranno prima del 2032, cioè 16 anni dopo la data che era stata usata da politica e media per giustificare tale mastodontica opera.

Ciò che era stato ampiamente previsto dal movimento NO-TAV-Kein BBT del Trentino-Alto Adige si è avverato. Oltre all’aumento smisurato dei costi su cui ancora politici e società BBT-SE non si pronunciano (ma ovviamente siamo ben oltre le centinaia di milioni di euro per non dire di più). Nel frattempo le modalità con cui sono stati condotti i lavori hanno assunto contorni inquietanti, come riporta la stessa Società BBT-SE nel suo sito, al momento di annunciare l’abbattimento del diaframma della prima galleria di linea sotto il fiume Isarco:

Lo scavo al di sotto del fiume è stato possibile solo dopo aver congelato il terreno con azoto liquido ed al successivo mantenimento a basse temperature mediante la circolazione della salamoia”.

Nello specifico la modalità i lavoro è stata la seguente:

Partendo da uno dei quattro pozzi realizzati nel cantiere del Sottoattraversamento dell’Isarco sono stati congelati la falda ed il materiale alluvionale al di sotto dell’alveo del fiume. Si è proceduto ad iniettare azoto liquido all’interno di un circuito chiuso, costituito da “tubazioni di congelamento”, sotto il fiume. L’azoto con una temperatura di -196°C scorrendo all’interno di queste tubazioni ha sottratto il calore dal suolo circostante. Di conseguenza, l’acqua all’interno del suolo sotto al fiume si è congelata e la temperatura del suolo è scesa a -35°C. Per mantenere queste temperature del suolo durante lo scavo, all’interno di un circuito di raffreddamento viene fatta circolare della salamoia (refrigerante)”.

Poche settimane dopo, il 10 giugno 2021, sul giornale Corriere dell’Alto Adige a pagina 7, l’attuale ammnistratore delegato di BBT-SE Gilberto Cardiola di fatto conferma come lo scavo sia avvenuto senza una conoscenza completa di ciò che avrebbero trovato: “Vediamo anche che cosa ci riserverà la montagna” dice Cardiola. Nello stesso articolo viene riportato come attualmente i lavori siano giunti a un punto critico, che dovrà superare la faglia di Hochstegen, dove un’enorme falda acquifera preme su alcuni km di roccia definita instabile. In tal punto durante i lavori si è formata una voragine chiamata “Iris” che è stata tappata suon di iniezioni di cemento per permettere il prosieguo dei lavori. Tale rischio, come molti altri, erano ampiamente previsti dai promotori del movimento No Tav del Trentino-Alto Adige a cui il lento procedere dell’Opera sta dando ragione sotto ogni punto di vista.

Si consiglia di scaricare e leggere attentamente il seguente opuscolo, risultato di un lungo lavoro possibile solo grazie ad una preziosa intelligenza collettiva che ha saputo unire studio e azione:

DOSSIER NO TAV a cura del Coordinamento No Tav trentino

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[Lotte operaie] Da Bolzano solidarietà con gli operai Fedex-TNT aggrediti da squadristi padronali

Giovedì 17 giugno a Bolzano, nel tardo pomeriggio, un gruppo di compagni e compagne si è recato di fronte ai cancelli del magazzino della multinazionale americana FEDEX-TNT in zona industriale, per portare la propria solidarietà ai lavoratori del magazzino di Piacenza la cui lotta è recentemente salita alla ribalta dei media nazionali per via dell’aggressione armata che un gruppo di guardie private/bodyguard ha compiuto contro un nutrito gruppo di operai che presidiavano il magazzino di Tavazzano in provincia di Lodi.

Un’aggressione compiuta per conto del padrone della locale filiale, Zampieri, e che segna il superamento di una linea rossa da parte della multinazionale americana. I numerosi video girati dagli operai documentano come l’aggressione sia avvenuta di fronte ai reparti celere di carabinieri e polizia che sono rimasti a guardare mentre delle guardie private bastonavano un presidio di lavoratori. Un fatto certamente non nuovo ma la cui gravità stavolta non ha potuto essere ignorata nemmeno dai media nazionali mainstream. Qui i video dell’aggressione:

Video1 Video2 

Al seguente link è possibile inoltre ascoltare la testimonianza di Aitman, un lavoratore del SICOBAS presente al momento dell’aggressione e testimone diretto dei fatti.

Nel corso del pomeriggio sono stati poi distribuiti volantini e attaccati manifesti anche negli altri magazzini della logistica presenti in zona, come Bartolini e SDA.

Una piccola azione ma importante per alimentare la solidarietà e diffondere nei territori la consapevolezza che soltanto attraverso una reazione compatta sarà possibile respingere al mittente provocazioni e aggressioni rilanciando le lotte ed evitare così il ricatto padronale per cui il Governo Draghi agisce su commissione. Massimo supporto ai lavoratori che venerdì 18 giugno dimostreranno concretamente la propria solidarietà partecipado allo sciopero nazionale della logistica indetto da SICOBAS ma a cui aderiscono anche altre sigle sindacali come USB e ADL Cobas. In una fase storica in cui il Governo Draghi si appresta a varare misure antipopolari come sta accadendo in Grecia, costruire reti di soidarietà fra lavoratori, sfruttati e solidali è fondamentale per reagire e rompere l’isolamento, la solitudine e la paura in cui ci vorrebbero relegare.

Di seguito il testo del volantino distribuito oggi in Zona industriale:

“SOLIDARIETA AGLI OPERAI FEDEX-TNT DI PIACENZA

CONTRO LICENZIAMENTI E SQUADRISMO PADRONALE

Il 10 marzo 2021 un’inchiesta politica della Procura di Piacenza portò all’arresto di Carlo e Arafat, due sindacalisti del SiCobas da anni in prima linea nella lotta per la difesa dei diritti dei lavoratori. Oltre a ciò furono disposte 25 perquisizioni domiciliari e numerose misure cautelari contro gli operai che in particolare avevano partecipato agli scioperi e alle lotte contro la chiusura dell’Hub piacentino di FEDEX-TNT. Un’operazione poliziesca che aveva l’evidente intento di intimidire, spaventare e infine fermare le lotte dei facchini della logistica.

Pochi giorni dopo questa ondata repressiva antioperaia senza precedenti la multinazionale americana FEDEX-TNT annunciò la chiusura del proprio magazzino di Piacenza, lasciando per strada quasi 300 lavoratori e in gravi difficoltà le rispettive famiglie. Appare evidente come fra padroni della multinazionale, Procura e Questura, vi fossero interessi convergenti in un’operazione del genere.

Da tale situazione si è sviluppata nelle ultime settimane una mobilitazione dei lavoratori del magazzino di Piacenza, ma non solo, che ha portato a innumerevoli mobilitazioni e scioperi di solidarietà in tutta Italia. Un movimento che ha saputo colpire i padroni nel punto in cui sono più vulnerabili: il profitto.

Per fermare le lotte operaie, oltre alle botte e alle manganellate dei reparti celere di Carabinieri e Polizia, da diverso tempo i padroni stanno facendo ricorso all’assunzione di guardie private, spesso legate a movimenti neofascisti, che in più occasioni hanno aggredito i lavoratori in sciopero, causando gravi ferite, come accaduto a San Giuliano Milanese il 24 maggio.

L’ultimo gravissimo episodio che ha avuto anche una certa eco a livello nazionale è quello avvenuto pochi giorni fa al magazzino di Tavazzano in provincia di Lodi, alle ore 1 di notte dell’11 giugno, quando il presidio dei lavoratori Fedex di Piacenza è stato aggredito a colpi di bastoni, frammenti di bancali, sassi e bottiglie da una cinquantina di bodyguard assoldati dai padroni. La squadraccia, guidata dai capiclan di Zampieri, il padrone della locale filiale di Fedex, ha attaccato il presidio composto da circa 40 lavoratori del SI Cobas e per circa 10 minuti sono stati lasciati agire indisturbati dalla polizia che era a pochi passi e non ha mosso un dito. In particolare un operaio, Abdelhamid Elazab, è rimasto gravemente ferito, perdendo conoscenza e perciò ricoverato in ospedale.

L’agguato fuori ai Magazzini Zampieri di Lodi richiede una risposta immediata e compatta! Contro la repressione dei lavoratori che lottano e l’imminente massacro sociale previsto dal Governo Draghi organizziamo la solidarietà. A fianco di chi non abbassa la testa di fronte al ricatto della disoccupazione e della povertà, con cui si vorrebbero imporre condizioni sempre peggiori di sfruttamento. Toccano uno toccano tutti!”

L’iniziativa solidale di oggi in zona industriale vuole infine ribadire che ogni azione repressiva per mano di Procure o organi di polizia, così come di mazzieri prezzolati protetti dalla celere, è un’azione contro tutta la classe lavoratrice e ci riguarda tutti per cui sarà fondamentale che ognuno faccia la propria parte per sostenere e rilanciare la lotta. Rompiamo l’indifferenza.  Toccano uno Toccano tutti.

Ricordiamo inoltre l’importantissima manifestazione di sabato 19 giugno che si terrà a Roma. Una manifestazione che inserisce le ultime violenze antioperaie in un contesto generale che vede l’offensiva padronale farsi sempre più feroce.

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