[Trento] Manifestazione 6 novembre. Vietato manifestare. Denunce e fogli di via contro compagni e compagne

Da tempo era stata pubblicizzata, sul web e sui muri della città, una manifestazione a Trento che aveva l’obiettivo di contestare la gestione della crisi economica e sociale legata alla pandemia, che ha il principale obiettivo di difendere gli interessi di Confindustria e delle aziende più influenti sulla politica nazionale.

La locandina della Manifestazione

Una pandemia che sta mettendo in evidenza contraddizioni sempre più evidenti fra i ricchi e la maggior parte della popolazione, costretta a lavorare in condizioni sempre peggiori, sotto il costante ricatto della perdita del lavoro oppure, se pretendi il rispetto dei tuoi diritti, del licenziamento.

Abbiamo visto come, da tempo, lo stato d’eccezione in cui viviamo è stato colto al volo da più settori economici e di potere, per proporre riforme o leggi più repressive, che in una situazione “normale” non sarebbe nemmeno immaginabile proporre. Ricordiamo l’iniziativa del magistrato Davigo che ha proposto di far diventare la norma (già ben avviata) i processi in videoconferenza. Oppure gli interventi del presidente di Confindustria Bonomi il quale, consapevole di trovarsi di fronte a una situazione favorevole per imporre sacrifici e condizioni peggiori ai lavoratori, oltre che per portare a casa la maggior quantità di soldi possibile dal Recovery Found, chiede la libertà di licenziare e di fare contratti totalmente sbilanciati in favore dei padroni.

Va ricordato come l’industria bellica italiana riveste il ruolo del leone nel tentativo di fare incetta dei fondi europei come dimostrato dalle richieste del Governo: infatti i Ministeri della Difesa e dello Sviluppo Economico hanno presentato un elenco di progetti di carattere militare per l’ammontare di circa 30 miliardi di euro (Analisi Difesa, Fondi anche per la Difesa dal Recovery Fund, 25-09-2020). I progetti del Ministero della Difesa prevedono di spendere 5 miliardi di euro del Recovery Fund per applicazioni militari nei settori della cibernetica, delle comunicazioni, dello spazio e dell’intelligenza artificiale. Rilevanti i progetti relativi all’uso militare del 5G, in particolare nello spazio con una costellazione di 36 satelliti ed altre. I progetti del Ministero dello Sviluppo Economico, relativi soprattutto al settore militare aerospaziale, prevedono una spesa di 25 miliardi di euro del Recovery Fund. (Manlio Dinucci, Il Manifesto 13.10.2020)

Insomma mai come oggi ci sono motivi per lottare e mettere in discussione le radici strutturali del sistema economico e politico in cui viviamo, che da una parte chiede sacrifici e la rinuncia a diritti elementari mentre dall’altra promette enormi somme di denaro ai soliti industriali che negli anni hanno prosperato su guerre e sui porgetti imperialisti in Medio Oriente ma non solo. Tutto ciò, mentre negli anni la Sanità pubblica è stata sistematicamente tagliata con risorse destinate alla Sanità privata. Un’operazione ideologica che, dalla sanità alla scuola, conferma la prospettiva in cui governi di tutti colori si muovono: tutelare una minoranza di privilegiati a fronte dell’aumento di una massa sempre maggiore di esclusi, poveri, dannati.

Il 6 novembre a Trento i compagni e le compagne volevano portare in strada la necessità di riprendere in mano il proprio destino senza delegarlo a chi detiene il potere, per riaffermare che la gestione dell’emergenza non è neutra o fatta in nome di presunto “bene comune” ma nasconde lotte di potere ed economiche che si palesano nelle esternazioni dei personaggi sopraccitati oltre che nei provvedimenti concreti di governo.

Un’altra grave conseguenza che deriva dallo stato di emergenza in cui viviamo e dai decreti sicurezza approvati da Salvini/grillini e appoggiati anche dal PD, è il senso di onnipotenza e totale arbitrarietà che provano i funzionari della Questura e della polizia politica di tutta Italia, che non perdono occasione di sfoderare i manganelli e aizzare i reparti Celere contro operai e manifestanti che stanno denunciando pubblicamente, ad esempio, le condizioni di sfruttamento sempre più pesanti nei magazzini della logistica e fra i lavoratori precari come i Rider.

Anche a Trento, il 6 novembre scorso abbiamo assistito alla modalità con cui la polizia ed i carabinieri intendono gestire il dissenso ed il pensiero critico: fermi, intimidazioni e fogli di via.

Le transenne poste in via Verdi prima della manifestazione foto presa da: TrentoToday

La manifestazione, bloccata dalla polizia, (che nel pomeriggio aveva fatto transennare parti di città) non è partita. Oltre a ciò la Questura trentina non si è risparmiata nell’impiego di agenti, che hanno bloccato diverse automobili di compagni/e diretti/e alla manifestazione, i quali, senza dare nessuna spiegazione sono stati fermati, caricati sulle auto della polizia e portati in Questura dove, nell’evidente intento di intimidire e umiliare i compagni e le compagne fermati/e, sono stati/e fatti/e spogliare nudi/e e costretti/e a fare piegamenti in presenza di altri questurini.

I compagni fermati e circondati dalla celere in via Prepositura (Trento)

Trattenuti fino a mezzanotte circa, sono stati fotosegnalati e dopo aver visto sequestrato telefono e vari oggetti di uso comune presenti in auto (materiale recuperato in macchina: una cazzuola, un marker, dei guanti, un legno bruciato, una bomboletta spray, un pezzo de ferro e dei guanti da boxe!) è stato dato loro un foglio di via dal Comune di Trento. Come ha scritto uno dei compagni fermati in alcune sue riflessioni:

Ma non è finita, fra le varie carte che ci vengono appioppate (tentando di farci firmare un verbale pieno di menzogne) salta fuori pure per tuttx un maledetto foglio di via dal comune di Trento. Fermatx dalla “precrimine” e accusatx del fatto che noi ci stavamo sicuramente dirigendo alla manifestazione (vero!) e che il materiale che avevamo era atto ad offendere. Io credo che in ogni macchina si possano trovare oggetti simili, per esempio un cric dei guanti o una bomboletta spray .. articoli di libera vendita acquistabili anche da minorenni. Quindi di cosa stiamo parlando? dell’intenzione di commettere un crimine? si può processare? o peggio condannare? non è un lavoro da giudici e avvocati? No! Basti pensare agli arresti dell’operazione “ritrovo” di questa primavera a Bologna. Arresti che la questura definiva di natura preventiva, volti ad impedire tensioni sociali in tempi di crisi. Il meccanismo della repressione è semplice: il governo fa le leggi, la polizia arresta, la magistratura giudica e condanna. Questo però implica un limite che la repressione italiana non è più disposta a tollerare: il fatto che chi non accetta l’attuale stato di cose e si batte per cambiarlo, finchè non commette precisi reati, non può essere “tolto di mezzo”. Ed è qui che entrano in gioco le questure con i loro fogli di via, obblighi di firma e dimora e sorveglianza speciale. Si tratta di una serie di forti restrizioni alla libertà personale atte a punire una persona e rendere le sue azioni molto più controllabili. Il fine è il mantenimento dell’ordine pubblico e della pubblica moralità, due concetti estremamente soggettivi e aleatori: qualora il questore ritenga che qualcuno costituisca un problema politico o sociale, è autorizzato ad appioppargli la sorveglianza speciale. Detto questo è pur vero che le pinzillacchere scritte sulla loro carta straccia siano ancora impugnabili da avvocati ma la polizia questo lo sa bene, i fogli di via potrebbero essere annullati, oppure una sorveglianza speciale valutata illegittima e tutto il materiale sequestrato può essere dissequestrato. La polizia punta a spaventare, dividere e isolare, non importa se fra qualche mese o un anno tutto questo decadrà, intanto tu ti becchi una porzione fastidiosa di repressione che affossa parecchio il morale e richiede il tempo e la lucidità di escogitare difese e strategie rubando parecchio tempo e spazio ad altre lotte. Quale difesa da queste continue spine nel culo? Ognuno ha il suo metodo per sopravvivere e superare la pesantezza della repressione, ma credo fortemente che la presenza di un gruppo coeso di amici, amiche, complici e compagnx con cui condividere questo sentiero oscuro sia l’unica ricetta vincente per non sprofondare nel più totale senso di impotenza e depressione. Grazie di cuore a tuttx quellx che erano fuori dalla questura a spingersi con gli sbirri e urlare per ore. Grazie a chi si è preoccupatx e sbattutx anche da lontano. Se il morale è alto il merito è unicamente vostro. Chi ha compagnx non è mai solx!”

Ci vogliono soli e isolati. Rafforziamo la solidarietà. Rilanciamo le lotte. Che la crisi la paghino i ricchi.

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Processo politico del Brennero – aggiornamenti

All’interno di un Tribunale militarizzato, il 30 ottobre 2020 a Bolzano è proseguito, con le arringhe degli avvocati difensori, il processo del Brennero relativo ai 63 compagni e compagne con accuse “più lievi”.

Ricordiamo che in seguito alla manifestazione contro la costruzione del muro antimigranti al Brennero il 7 maggio 2016 la Procura di Bolzano, oltre ad aver condannato per direttissima i compagni e le compagne arrestati nel corso della manifestazione, ha istituito due processi distinti per la diversità delle accuse e di conseguenza per la diversa entità delle pene richieste.

Per un troncone, relativo ai compagni/e accusati di “devastazione e saccheggio” i pubblici ministeri della Procura di Bolzano Igor Secco e Andrea Sacchetti hanno richiesto per 63 manifestanti un totale di 338 anni di carcere.

Di questo troncone a circa metà degli imputati si contestano i reati di devastazione e saccheggio, concorso in resistenza, radunata sediziosa, interruzione di pubblico servizio, travisamento, porto di materiale atto ad offendere e (a una decina di imputati) concorso in lesioni gravi. Le pene chieste variano dai 7 ai 10 anni (già scontate di un terzo per via del rito abbreviato). All’altra metà di imputati si contestano – più o meno assemblati – gli stessi reati, tranne quello di devastazione e saccheggio. In questo caso le pene richieste variano dai 2 ai 5 anni.

Nel secondo troncone, altri 63 compagni e compagne sono accusati di reati che vanno dalla radunata sediziosa, travisamento e interruzione di pubblico servizio relativo al blocco del traffico ferroviario e autostradale. Le richieste di pena vanno da 1 anno e 2 mesi fino a 1 anno e 10 mesi a persona, per un totale di altri 85 anni di carcere richiesti dai solerti accusatori.

Bolzano 30.10.2020 Il dispiegamento di polizia e Carabinieri per il processo del Brennero

Soltanto il Ministero dell’Interno si è costituito parte civile chiedendo il risarcimento di 8000 euro per il danneggiamento di un auto della polizia. Sostanzialmente la devastazione di cui parla l’accusa si riduce a questo.

Si è già scritto, anche su questo blog, della valenza politica che il processo del Brennero haI pubblici ministeri Sacchetti e Secco con tali richieste di condanna folli, sproporzionate e con l’evidente intento di intimidazione e repressione ideologica del dissenso, si rendono interpreti della volontà politica di settori dello Stato di seppellire sotto oltre 400 anni di carcere alcune decine di compagni e compagne generosi che di fronte alle criminali condotte dello Stato italiano, si sono assunti la responsabilità di agire, di non rimanere indifferenti mentre le autorità dello Stato austriaco, in accordo cone le forze più reazionarie di Italia e Austria, iniziavano la costruzione di un muro al Brennero che avrebbe dovuto impedire ai profughi delle guerre del captale di giungere nell’Europa del Nord.

Proprio mentre di fronte al Tribunale di Bolzano una frase di Hannah Arendt Nessuno ha il diritto di obbedire ammonisce sui rischi a cui conduce storicamente la cieca obbedienza alle leggi e all’autorità, dentro alle aule dei Tribunali i rappresentanti dell’accusa riaffermano, con estrema violenza, che nessuna lotta e nessuna ribellione reale alle ingiustizie e alle infamie prodotte dal capitalismo – guerre, razzismo, muri antimigranti, lager per immigrati, disastri ecologici – sarà tollerata. 

Gli accusatori Sacchetti e Secco, chiedendo un totale di oltre 400 anni di carcere, si illudono di seppellire le istanze di lotta e di giustizia, lo spirito di ribellione che ha animato –  e continua ad animare – chi non si rassegna ad un mondo in cui pochi ricchi prosperano, con l’ausilio delle stutture dello Stato, sulla pelle di masse sempre più grandi di dannati costretti a scappare da guerre, povertà, miserie, disastri ecologici causati dalle politiche di sfruttamento indiscriminato del capitale. Dannati che a loro volta vengono selezionati e schiacciati (attraverso fame, torture, omicidi, stupri) dal sistema dell’accoglienza che inizia nei Lager libici, finanziati e sostenuti anche dallo Stato italiano con i decreti Minniti prima e con i decreti Salvini poi. 

Nello scorso settembre alcuni compagni e compagne imputati/e nel processo per “Devastazione e saccheggio” hanno letto una dichiarazione in cui si sono rivendicati lo spirito e le motivazioni alla base della giornata di lotta del Brennero, di cui si riporta uno stralcio:

Per quanto ci riguarda, il senso e lo spirito di quel 7 maggio ce li rivendichiamo a testa alta. Come segno di rabbia contro le mille forme del razzismo di Stato. Come espressione di solidarietà nei confronti di un’umanità braccata. E come gesto di appoggio. Verso i braccianti in lotta nel Sud Italia, verso le donne immigrate che si ribellano alla tratta, verso gli internati in rivolta nei lager della democrazia. Verso chi, ovunque nel mondo, non si scansa né transige, perché ama la libertà di tutte e di tutti al punto di giocarsi la propria.”

Mai come oggi è necessario rilanciare la solidarietà nei confronti di chi lotta. Il modo migliore per farlo è non rimanere indifferenti di fronte alle continue ingiustizie cui assistiamo per le strade o attraverso uno schermo, guardando le immagini di chi affonda nel Mediterraneo, di chi muore sotto le bombe democratiche in Palestina, Siria o Kurdistan e di chi muore cercando di passare frontiere sempre più militarizzate e che dividono l’umanità determinando la vita e la morte di sempre più dannati della terra. Chi è sceso per strada al Brennero nel maggio 2016 non voleva più di assistere passivamente a tali ingiustizie ma voleva assumersi la responsabilità di agire per impedire la costruzione dell’ennesimo muro, dopo quelli fra Israele e Territori occupati palestinesi, Siria e Turchia, Marocco ed enclaves spagnole di Ceuta e Melilla, i fili spinati fra Serbia, Ungheria e Macedonia. Muri che sappiamo producono un solo risultato: odio, razzismo, sfruttamento e consacrazione del privilegio sulla pelle degli oppressi. 

Non lasciamo passare il folle teorema accusatorio della Procura di Bolzano. Non rimaniamo indifferenti, ci riguarda a tutti e tutte. 

Dalla lotta dei pastori sardi sotto processo con i decreti sicurezza del servo  dei padroni Salvini agli oltre 400 operai della logistica sotto processo a Modena, dagli operai della Whirlpool a chi lotta nelle carceri, fino alle lotte contro le devastazioni ambientali come il TAV o il TAP, uniamo le lotte, rilanciamo la solidarietà. Non facciamo passare la repressione. 

Se toccano uno toccano tutti.

Siamo tutti sotto processo.

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Processo Brennero. Dichiarazione degli imputati davanti al Tribunale di Bolzano.

L’11 settembre 2020 a Bolzano si è tenuta, ancora una volta in un Tribunale completamente militarizzato, un’ulteriore udienza del processo che vede imputati 63 compagni/e per aver partecipato alla manifestazione contro la costruzione del muro antimigranti al Brennero il 7 maggio 2016. Dopo la lettura da parte dei compagni/e della dichiarazione sotto riportata, sono iniziate le arringhe della difesa che continueranno nelle prossime udienze del 2 e 9 ottobre. Ricordiamo che il 7 febbraio 2020 il Pubblico ministero Andrea Sacchetti ha richiesto un totale di 338 anni di carcere per gli imputati, per accuse che vanno dalla “devastazione e saccheggio” ad altri reati per una manifestazione in cui sono stati contestati circa 8000 euro di danni. A Bolzano intanto, è stato diffuso un volantino di solidarietà con gli imputati/e, che potete leggere qui.

Militarizzazione del Tribunale di Bolzano in occasione delle udienze del processo del Brennero

Per ulteriori aggiornamenti si può ascoltare l’intervento di un compagno imputato nel corso di una trasmissione su Radio Onda Rossa.

Dichiarazione davanti al tribunale di Bolzano

Ogni giorno il sistema delle frontiere stritola migliaia di persone. Quello che sta succedendo fra Siria e Turchia, fra Turchia e Grecia, nell’arcipelago dell’Egeo, al confine fra Bosnia e Croazia, nei campi di detenzione in Libia, nel Mediterraneo conferma che i muri e la caccia al povero sono il volto del nostro presente. Mentre le merci viaggiano liberamente da una parte all’altra del pianeta, gli esseri umani sono spietatamente suddivisi tra chi può passare i confini e chi no: tra i sommersi e i salvati, per riprendere le parole di Primo Levi. Prima un ordine economico – devastante nella sua logica di guerra e sempre più saccheggiatore di materie prime, ecosistemi e autosufficienza alimentare – apparecchia le condizioni per cui milioni di donne e di uomini sono costretti ad abbandonare le terre in cui sono nati e cresciuti; poi un gigantesco apparato di filo spinato, sorveglianza elettronica e campi di concentramento spinge questa «umanità di scarto» a una terribile corsa ad ostacoli; chi sopravvive alla selezione deve essere allora così stremato e impaurito da accettare qualsiasi condizione di vita e di lavoro nei Paesi in cui approda. E proprio per questo, infine, può venir additato dal razzismo istituzionale e sociale come capro espiatorio a cui addossare ogni colpa.

Quando, a fine 2015, lo Stato austriaco dichiarò la sua intenzione di costruire una barriera anti-immigrati al Brennero, le rimostranze delle istituzioni italiane riguardarono solo ed esclusivamente le ripercussioni negative che quel muro avrebbe avuto sul transito delle merci. Come emblema di un passato che non passa, la conferenza stampa sul progetto della barriera fu tenuta direttamente dalla polizia austriaca e il tutto venne presentato come una mera «soluzione tecnica» di gestione del confine. L’espressione di per sé − «soluzione tecnica» − avrebbe dovuto far ribollire il sangue.

Mentre andava in scena il balletto delle dichiarazioni incrociate tra governo austriaco e governo italiano, i controlli delle polizie sui treni OBB avvenivano già in territorio italiano e la «soluzione tecnica» era spostata più a sud. Per mesi chiunque avesse la faccia non-bianca non riusciva nemmeno a salire su quei treni, a Bolzano come a Verona. Il sistema-frontiera, d’altronde, è un dispositivo mobile, tutt’uno con le retate della polizia e con i centri della detenzione amministrativa. (E dovrebbe ben far riflettere il fatto che la stessa «soluzione tecnica» sia stata adottata mesi fa per controllare e respingere i positivi al Covid-19 tra gli autisti e i passeggeri diretti in Austria: i potenziali “infetti”, questa volta, eravamo noi).

Per tutte queste ragioni qualcuno ha bloccato più volte i treni OBB; per questo nei mesi precedenti la manifestazione del 7 maggio 2016 si è insistito da più parti sul concetto «se non passano le persone, non passano le merci»; per questo i discorsi su come far fallire la gestione di quell’abominio chiamato «soluzione tecnica».

Quello che i PM hanno presentato come una sorta di disegno ordito da qualche “capo” ed eseguito da tanti “gregari”, era semplicemente il sentimento che a quell’ingiustizia bisognasse reagire. Gli “onesti cittadini” che oggi non vogliono distinguere ciò che è legale da che è giusto – che si addormentano, cioè, in quell’obbedienza contro cui mettono in guardia le parole di Hannah Arendt («Nessuno ha il diritto di obbedire») che con grande ipocrisia le istituzioni hanno fatto collocare davanti a questo tribunale – ricordano da vicino coloro che si giravano dall’altra parte quando in questo Paese si deportavano gli ebrei e si fucilavano i partigiani.

E ora entriamo nel merito del processo. Il reato di “devastazione e saccheggio” – in quanto tale e ancor più per come è stato interpretato dai PM – deriva direttamente dal codice fascista del 1930. Aveva già fatto la sua comparsa nel 1859 con l’articolo 157 del codice del Regno di Sardegna e nel 1889 con l’articolo 252 del codice Zanardelli. Non solo, in quei casi, si faceva esplicito riferimento alla guerra civile e alla strage, ma le pene previste andavano dai 3 anni ai 15. Con il codice fascista, invece, scompare quella cosetta chiamata guerra civile, mentre la pena base prevista dall’articolo 419 parte da 8 anni. Poi è arrivata la “democrazia nata dalla Resistenza”, si dirà. Infatti. L’articolo è ancora il 419 e le pene previste sono le stesse. Ora, siccome in tal modo si raggiunge l’assurdo giuridico per cui, al suo confronto, si rischia decisamente meno con l’accusa di partecipazione a una “insurrezione armata contro i poteri dello Stato”, quello definito dall’articolo 419 è rimasto a lungo un cosiddetto reato dormiente. Uno dei pochi casi in cui è stato applicato dal 1945 alla fine degli anni Novanta sono stati i moti insurrezionali scoppiati nel 1948 in seguito all’attentato a Togliatti, moti nel corso dei quali in alcune città i partigiani sono scesi in piazza con le mitragliatrici… Oggi la soglia del dissenso accettato si sta talmente abbassando per cui si cerca di applicare – e in alcuni casi ci si è pure riusciti – il reato di “devastazione e saccheggio” a manifestazioni per le quali è addirittura grottesco parlare di “distruzioni di vasta portata”. E così arriviamo alla richiesta, formulata in questa aula qualche mese fa come se fosse una normale lista della spesa, di 338 anni di galera. Il tutto a fronte di un risarcimento danni chiesto dal ministero degli Interni di 8mila euro… Lasciamo poi agli avvocati la questione – in realtà ben più politica che “tecnica” – del modo assai disinvolto con cui si contesta a decine di persone il reato di concorso materiale e morale in resistenza e lesioni in virtù della semplice presenza a quel corteo.

Come emerge dai volantini e dagli altri materiali citati, e persino dai filmati che sono stati ossessivamente mostrati nelle scorse udienze, l’intento di quella manifestazione era bloccare le linee di comunicazione – infatti il corteo è stato caricato da polizia e carabinieri proprio mentre stava deviando verso i binari. “Se alcuni non possono passare il confine, allora non passa niente e nessuno”: certi concetti etici hanno bisogno a volte di una generosa dimostrazione pratica.

Le frontiere uccidono. Per annegamento, per congelamento, per incidenti sui sentieri di montagna o lungo le linee ferroviarie. Oppure direttamente, con il piombo della polizia, come è successo in Grecia grazie alla legittimazione di fatto da parte dell’Unione Europea. Di tutto questo non vogliamo essere complici.

A ciascuno il suo. Per quanto ci riguarda, il senso e lo spirito di quel 7 maggio ce li rivendichiamo a testa alta. Come segno di rabbia contro le mille forme del razzismo di Stato. Come espressione di solidarietà nei confronti di un’umanità braccata. E come gesto di appoggio. Verso i braccianti in lotta nel Sud Italia, verso le donne immigrate che si ribellano alla tratta, verso gli internati in rivolta nei lager della democrazia. Verso chi, ovunque nel mondo, non si scansa né transige, perché ama la libertà di tutte e di tutti al punto di giocarsi la propria.

Non ci atteggiamo a vittime della repressione. Siamo consapevoli di ciò che comporta la nostra posizione a fianco dei dannati di questa terra e contro i piani del potere.

Che il tempo della sottomissione si fermi.

Bolzano, 11 settembre 2020

Agnese Trentin, Roberto Bottamedi, Massimo Passamani, Luca Dolce, Giulio Berdusco, Carlo Casucci, Giulia Perlotto, Christos Tasioulas, Francesco Cianci, Andrea Parolari, Mattia Magagna, Sirio Manfrini, Luca Rassu, Roberto Bonadeo, Marco Desogus, Gianluca Franceschetto, Gregoire Paupin, Claudio Risitano, Guido Paoletti, Daniele Quaranta

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Proseguono i lavori di ampliamento dell’aeroporto di San Giacomo

Sono molti anni che intorno all’aeroporto di San Giacomo si consumano polemiche e si rincorrono tentativi artificiosi di tenerlo in vita, contro ogni logica, anche dal punto di vista del profitto economico visto che per anni le pesanti perdite del piccolo aeroporto sono state socializzate e fatte pagare alla collettività (mentre ovviamente gli eventuali utili se li spartirebbero i soliti noti), e già un dato del genere dovrebbe dire molto, almeno sulla memoria a breve termine di buona parte delle persone che abitano la nostra provincia. Come scriveva Alessandra Zendron nel dicembre 2015:

“L’aeroporto di San Giacomo, situato nell’area più densamente abitata del Sudtirolo, voluto da Durnwalder nel 1999, è costato finora 120 milioni ai contribuenti; ha un enorme buco di bilancio e non è mai stato sottoposto a uno studio su costi e benefici né ad una valutazione di impatto ambientale.”

Il 12 giugno 2016 si tenne in Alto Adige un referendum popolare consultivo sul disegno di legge “Norme sull’aeroporto di Bolzano” che vide la vittoria del No con il 70% e di conseguenza coloro che si opponevano alla partecipazione pubblica in un progetto come l’ampliamento dell’aeroporto di Bolzano, già ora destinato principalmente ad una ristrettissima minoranza di persone a reddito altissimo, poterono, almeno in linea teorica, dire di aver vinto.  Una vittoria che sembrava avesse messo definitivamente la parola fine su un progetto fallimentare in partenza, a maggior ragione in un momento storico come quello attuale, in cui la distruzione dell’ambiente, già pesantemente compromesso, è all’origine delle cicliche crisi, economiche e sociali, che stiamo vivendo.

L’esito del referendum determinò, da parte della Provincia, la cessione della società di gestione dell’aeroporto ABD Airport Spa alla società ABD Holding Srl dell’amministratore Josef Gostner, di cui fanno parte anche l’imprenditore austriaco Hans Peter Haselsteiner, proprietario della Strabag, gigante delle costruzioni a livello europeo e azionista di maggioranza della società privata di trasporto su rotaia Westbahn, ma anche la ben nota, a Bolzano, società SIGNA holding, gestita da Peter Hager e dal milionario austriaco Renè Benko, questi ultimi già coinvolti nel progetto Waltherpark, venduto ai cittadini, fra mille forzature, come opera di riqualificazione del centro storico, contro il “degrado”. Ricordiamo inoltre come in Germania la società SIGNA sia coinvolta in operazioni commerciali che stanno portando al licenziamento di migliaia di lavoratori.

Insomma a Benko e alla borghesia locale serviva, e serve, uno scalo più ampio per le proprie operazioni commerciali e i propri progetti imprenditoriali. Un’operazione supportata anche personaggi pubblici come Reinhold Messner, il quale, dopo aver a suo tempo supportato l’opera di devastazione ambientale del Tunnel di base del Brennero, non smentì il proprio opportunismo affermando come l’aeroporto, in una provincia che solo nel 2018 ha ospitato circa 33 milioni di turisti, fosse fondamentale per un ulteriore sviluppo del turismo.

Oltre allo spreco di risorse economiche, il tema che destava, e che desta, maggiori preoccupazioni fra la popolazione era la questione dell’inquinamento atmosferico ed acustico che un aeroporto di maggiori dimensioni avrebbe inevitabilmente comportato.

Così scriveva nel 2016 Argante Brancaglion, membro del comitato No Aeroporto, dopo aver ricordato le costanti pesanti perdite economiche dello scalo bolzanino, in un articolo su Salto ricordava:

Il Comitato NO_AIRPORT.BZ Komitee e i suoi componenti sono veramente molto preoccupati per le emissioni che ricadono sulle zone sorvolate dagli aeroplani. Gli inquinanti cadranno sulle case abitate anche da bambini, sulle campagne e la loro produzione. Siamo soprattutto preoccupati per lo spray di kerosene che gli aerei rilasciano dietro di se e che gli abitanti di S. Giacomo sono costretti a respirare e mangiare ogni giorno. Siamo anche preoccupati per l’ambiente in generale, la terra è malata, il clima sta cambiando, c’è urgente bisogno di una inversione di tendenza sui consumi, ritmi di vita e sull’uso che si fa delle risorse.”

L’aeroporto va ad inserirsi, ricordiamo, in un contesto già provato da un forte traffico stradale e autostradale, dall’inceneritore e dalla discarica, oltre che dalla coltivazione intensiva di mele che, come ben dimostra la lotta contro i pesticidi degli abitanti di Malles, non sono proprio il simbolo di una natura incontaminata.

Nel 2020, seguendo un copione già visto dopo la bocciatura del progetto Benko da parte del consiglio comunale di Bolzano nel 2015, dopo la vittoria del “fronte del No” al referendum e manifestazioni partecipate da centinaia di persone, arriva la notizia che i lavori per l’ampliamento della pista di atterraggio dell’aeroporto proseguono e le ruspe si mettono subito al lavoro per ampliare la pista di atterraggio e costruire nuove recinzioni, come si vede dalle foto. 

9.9. 2020 Foto del dei lavori di ampliamento della pista di atterraggio dell’aeroporto di San Giacomo di Laives (Bz)

Il piano della ABD holding della triade Gostner-Haselsteiner-Benko prevede l’allungamento di 130 metri della pista, per consentire l’atterraggio e il decollo di velivoli capaci di trasportare un maggior numero di passeggeri. Un progetto fallito in partenza, risultato di un modello devastante e distruttivo di sviluppo, basato sull’ipersfruttamento di risorse e ambiente, come ben sa chi ha un minimo di memoria e chi ricorda la fine che hanno fatto le varie compagnie che hanno gestito voli nello scalo bolzanino. A maggior ragione in una città che vede a pochi chilometri scali importanti come Verona, Milano, Innsbruck e Monaco.

Una decisione che conferma come a nessuna volontà popolare, espressa attraverso forme di democrazia diretta come il referendum oppure attraverso dure lotte popolari come in Val Susa, è permesso opporsi agli interessi del grande capitale, di coloro cioè che detengono potere economico e che sanno muovere con sistematica lungimiranza le proprie pedine nella rappresentanza politica e nella società.

Un’operazione che si svolge in una situazione al momento paradossale dove i lavori di ampliamento proseguono anche senza un via libera definitivo da parte del Consiglio di Stato e che stanno di creando un dato di fatto di fronte a cui l’esito della decisione del Consiglio appare scontato. Una situazione che conferma come il profitto di pochi conti più della salute di molti e di come, ancora una volta, l’opposizione dei rappresentanti politici a progetti del genere sia soltanto una formalità espressa per salvare la faccia di fronte ai propri elettori e recitare poi la parte della vittima di fronte ai “superiori”. Una situazione che conferma come sia necessario lottare per difendere la propria salute, il bene più prezioso che non si può delegare a nessun rappresentante ma che occorre difendere in prima persona contro sciacalli politici ed economici che mettono il profitto economico prima di ogni altra cosa.

Infine non ci possiamo certo stupire se chi mette il profitto al di sopra di ogni altra cosa calpesta ogni giorno ogni barlume di mobilitazione popolare in un paese, in una provincia, in cui da oltre un decennio sono in corso i lavori per una delle più grandi truffe che il grande capitale abbia mai rifilato alla popolazione: il TAV e il BBT, che stanno assorbendo decine di miliardi di euro a fronte di una prospettiva di sviluppo capitalistico sempre più distruttivo e devastante. La pandemia attualmente in corso è soltanto un sintomo di una malattia ben più vasta che se non ci affrettiamo a voler curare in modo drastico finirà col distruggerci.

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Processo per i fatti del Brennero. Un processo politico. Alcune considerazioni.

“Che cos’è un uomo in rivolta? Un uomo che dice no. Ma se rifiuta, non rinuncia tuttavia: è anche un uomo che dice di sì, fin dal suo primo muoversi. Uno schiavo che in tutta la sua vita ha ricevuto ordini, giudica ad un tratto inaccettabile un nuovo comando. Qual’è il contenuto di questo no? Significa, per esempio “le cose hanno durato troppo”, “fin qui sì, al di là no”, “vai troppo in là” e  anche “c’è un limite oltre il quale non andrai”. Insomma questo no afferma l’esistenza di una frontiera.”

“Nell’esperienza, assurda, la sofferenza è individuale. A principiare dal moto di rivolta, essa ha coscienza di essere collettiva, è avventura di tutti. Il primo progresso di uno spirito intimamente straniato sta dunqe nel riconoscere che questo suo sentirsi straniero, lo condivide con tutti gli uomini, e che la realtà umana, nella sua totalità, soffre di questa distanza rispetto a se stessa e al mondo. Il male che un solo uomo provava diviene peste collettiva. In quella che è la nostra prova quotidiana, la rivolta svolge la stessa funzione del “cogito” nell’ordine del pensiero: è la prima evidenza. Ma questa evidenza trae l’individuo dalla sua solitudine. E’ un luogo comune che fonda su tutti gli uomini il primo valore. Mi rivolto, dunque siamo.”

Albert Camus “L’uomo in rivolta”

Molte volte, a scuola, al lavoro e nelle piazze, ci siamo chiesti come è stato possibile che in passato siano accaduti orrori come l’olocausto, le persecuzioni razziali, i genocidi, le torture di massa, le pulizie etniche ecc. Come è stato possibile che determinati crimini venissero perpetrati sotto gli occhi di tutti e che, nell’annichilimento generale, nessuno facesse niente?

Come è stato possibile arrivare alle leggi razziali, alla costruzione, nel caso del nazifascismo, di un sistema industriale per cancellare dalla terra interi popoli? Come è stato possibile, ieri come oggi, permettere ai governi di trascinare milioni di persone in immensi conflitti e convincere le masse che venivano fatti nel loro interesse? Come è stato possibile che nessuno, o solamente pochi, abbiano trovato il coraggio di opporsi, spesso pagando il prezzo più alto, mentre la maggioranza stava a guardare? Quali sono stati i passaggi storici che hanno preparato il terreno, prima nelle coscienze e poi nella realtà, attraverso dispositivi giuridici, al compimento di tali orrori? Siamo sicuri che oggi, in un momento in cui parole d’ordine e pratiche razziste vengono sistematicamente sdoganate, sapremmo opporci alle stesse ingiustizie? In che modo? 

Non troveremo le risposte a queste domande fra le righe di un codice penale, lo stesso attraverso cui, la Procura di Bolzano intende, attraverso l’articolo 419 del codice fascista Rocco, seppellire sotto oltre 300 anni di carcere 63 compagni e compagne che sono scesi in strada al Brennero nel maggio 2016. 

“Abbattere le frontiere-Grenzen Niederschlagen” Brennero 7 maggio 2016

Coloro che sono scesi in strada al Brennero oltre 4 anni fa erano mossi dalla consapevolezza che il principale alleato di chi costruisce progetti grondanti di sangue è l’apatia e la paura dei proletari. Vi era la consapevolezza che soltanto con un po’ di generosità, slancio e decisione sarebbe stato possibile inceppare la tragica normalità con cui gran parte delle persone diviene spettatrice di aberrazioni di ogni tipo e dimostrare come la martellante propaganda xenofoba non aveva anestetizzato tutte le coscienze. E per fare ciò non poteva certo bastare una lettera al giornale, un post sui social network oppure un flash mob sotto i flash dei giornalisti.

Non può essere normale costruire un muro antimigranti

Non può essere normale deliberare invasioni militari, guerre, bombardamenti e pulizie etniche

Non può essere normale assistere passivamente alle stragi nel Mediterraneo o alle morti su passi alpini.

Il banner che pubblicizzava il corteo del 7 maggio 2016 al Brennero

Sebbene materia per avvocati ci sarebbe molto da dire sull’entità di tali richieste da parte degli zelanti PM bolzanini, contro manifestanti accusati di devastazione e saccheggio per un corteo dove il Ministero dell’Interno ha chiesto (esagerando) poche migliaia di euro di risarcimento e dove i manifestanti sono stati inizialmente caricati dalla celere mentre si stavano portando sui binari.

Quale obiettivo si sono posti i procuratori bolzanini titolari dell’accusa?

E’ proprio questo il punto in cui il processo assume una valenza politica che si desume dall’incredibile discrepanza fra la realtà dei fatti accaduti in quella giornata e l’assurdo disegno accusatorio creato dalla Procura bolzanina che, supportata dalla grancassa mediatica, ha lavorato di fantasia costruendo una narrazione tesa a trasformare, agli occhi del Tribunale e in generale della società, una giornata di lotta contro il muro e le politiche razziste in una giornata dove un gruppo organizzato di vandali si è trovata al Brennero per distruggere il ridente paesino sul valico, perchè non avevano altro da fare.

L’obiettivo che essi si pongono è intimidire, punire e isolare, attraverso una pena volutamente sproporzionata, chi ha ancora la forza, il coraggio, la determinazione di lottare contro un sistema sociale ed economico che vive di guerra, razzismo, sfruttamento degli uomini e dell’ambiente.

Il solito vecchio giochino della peggiore repressione di ogni epoca: ignorare il contesto sociale e politico in cui un fatto è maturato riconducendo ad una devianza atavica il comportamento di chi è sceso in piazza o di chi ha violato, per qualche motivo, la legge. Seguendo tale schema retorico se i detenuti di un carcere o di un lager per immigrati si ribellano non è per colpa della sofferenza, del sovraffollamento, della mancanza di cure o di cibo decente ma è colpa di fantomatici istigatori o di presunti capi che fomentano. Con lo stesso schema i tribunali fascisti condannavano gli oppositori politici che si opponevano alla dittatura ed alle sue guerre e leggi razziali, i tribunali americani condannavano i militanti neri che si ribellavano alla segregazione razziale ed i tribunali turchi condannano oggi curdi e turchi che si oppongono ai progetti guerrafondai di Erdogan. La legge, ieri come oggi, serve a mantenere uno status quo ed esprime dei rapporti di forza fra classi sociali. Al riguardo le richieste di condanna dei procuratori bolzanini ne sono la dimostrazione più eclatante. Perchè ribellarsi dato che viviamo nel migliore dei mondi possibili?

Richiedere 338 anni di carcere per una manifestazione collettiva in cui sono stati contestati 8000 euro di danni è già di per sé, allucinante, ma ciò che deve far riflettere è la disinvoltura con cui alcuni uomini togati possano farlo, come essi, presi da una sorta di delirio di onnipotenza, si sentano in diritto di farlo. Un tentativo pericoloso di criminalizzazione del dissenso e che intende abbassare sempre più la tolleranza del potere nei confronti di ogni manifestazione di rabbia degli oppressi o di chi ne prende le parti. Negli ultimi anni infatti sono innumerevoli i processi istituiti in tutta Italia contro compagni e compagne, in particolare anarchici, per manifestazioni di piazza o per reati associativi. Oltre a ciò la repressione, forte anche degli strumenti forniti da Salvini e dal movimento 5 stelle con i decreti sicurezza I e II, si accanisce contro i lavoratori più combattivi, come gli operai del SiCobas, protagonisti di lotte durissime e vincenti oltre che oggetto privilegiato della repressione di polizia e magistratura come dimostra il maxiprocesso contro 400 operai colpevoli di aver scioperato, che a breve si terrà a Modena.

In un volantino pubblicato sulla pagina Facebook Bolzano Antifascista è stato scritto:

Centinaia di compagni e compagne sono scesi in strada al Brennero, 4 anni fa, per rompere l’indifferenza e l’inerzia con cui ormai troppe persone, accettano tutto, anche le peggior ingiustizie, consapevoli che non sarebbe stata sufficiente la marcia simbolica. Centinaia di compagni e compagne si sono assunti una responsabilità, ed hanno voluto interrompere la tragica normalità con cui certe decisioni vengono prese, come le guerre, i bombardamenti o la possibile costruzione di un muro a dividere due popolazioni, muri che non appartengono al passato, come vorrebbero farci credere coloro che celebrano solo la caduta del muro di Berlino, ma costituiscono un tragico presente: dal muro fra Israele e territori occupati palestinesi al muro fra Messico e Stati Uniti, dal muro fra Turchia e Siria alle barriere fra Serbia e Ungheria. Muri e fili spinati producono morte, paura, odio e razzismo. Centinaia di compagni hanno voluto rompere la mediocre apatia con la quale la maggioranza della popolazione vive ed apprende le più inaccettabili decisioni dei governi, attraverso uno schermo televisivo oppure limitandosi a commentare un inutile post su Facebook.”

É importante, oggi più che mai, ricordare e riaffermare, oltre ogni strumentalizzazione e mistificazione, lo spirito che portò centinaia di compagni e compagne a manifestare al Brennero in quella giornata.

Le prossime udienze del processo per i fatti del Brennero saranno l’11 settembre, quando sarà possibile fare delle dichiarazioni spontanee individuali e collettive, il 2 e il 9 ottobre, sempre alle ore 10.

Non lasciamo soli i compagni e le compagne sotto processo. 

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Storie di carcere. Il libro “Rinchiusa-Unrecht” di Agnes Schwienbacher

Quando sui giornali leggiamo di “brillanti operazioni” antidroga o presunte associazioni a delinquere a fine di spaccio siamo poco abituati a chiederci chi siano le persone sbattute in prima pagina e messe alla gogna, spesso considerati, in quanto tossicodipendenti, alla stregua di rifiuti sociali. Al di là di alcuni casi in cui vi è la presenza reale di criminalità organizzata, molto spesso a finire nella rete che viene costruita, a volte inventata di sana pianta, dal magistrato di turno, sono piccoli consumatori, persone la cui vendita e consumo di sostanze avviene all’interno di reti amicali o di conoscenti. Persone a cui vengono rifilate con una facilità disarmante numerosi anni di carcere in disegni accusatori costruiti su intercettazioni, allusioni e interpretazioni, spesso degne di film fantasy.

Una di queste roboanti operazioni, supportate dalla grancassa mediatica, fu l’operazione antidroga Sinergy, condotta congiuntamente da polizia e carabinieri nel novembre 2007 e che portò all’arresto, fra Trentino-Alto Adige e altre regioni, di 48 persone, gran parte delle quali poi trasferite nelle patrie galere.

Dopo le notizie di cronaca solitamente non sappiamo più nulla, che fine fanno le persone accusate, come la loro vita venga sconvolta, come una debolezza venga trasformata in una pena draconiana da scontare.

Una delle persone coinvolte nell’operazione, Agnes Schwienbacher, si è decisa, dietro sollecitazione, fra gli altri, di Peter Oberdorfer, a raccontare, nel libro Rinchiusa-Unrecht pubblicato dalle edizioni Raetia, così come nel corso della trasmissione Malaerba su Radio Tandem, come la propria vita venne sconvolta dall’arresto, dal carcere, dai processi, in cui scoprì cosa cosa significa trovarsi improvvisamente in balia degli eventi, pedina di un disegno scritto da altri in cui le forze impari in campo non permettono un’adeguata difesa. Un libro prezioso che permette di leggere e conoscere il punto di vista di chi in tali operazioni rischia di finirci stritolato, a maggior ragione se rimane isolato.

Copertina del libro di Agnes Schwienbacher “Unrecht”

Un libro che ci racconta l’importanza di mantenere vive e salde le relazioni di solidarietà, oltre alla necessità di sapere leggere criticamente ciò che avviene fra le righe di un fatto di cronaca, con le sue inevitabili implicazioni di classe.

Dopo l’arresto, avvenuto in una notte del novembre 2007 nella sua casa della Val d’Ultimo, Agnes apprende ciò che è successo nel suo complesso da una articolo che le viene mostrato da una compagna di cella nel carcere La Dozza di Bologna che le permette di inquadrare la situazione:

Erna mi mostra un articolo di giornale del 14 novembre 2007: operazione Sinergy: carabinieri e polizia portano alla luce presunto giro di droga in Trentino […] Oltre al testo ci sono foto in quantità degli imputati, a me sconosciuti. Vedo anche una mia foto, ci sono anche il mio nome, la mia età, il luogo di residenza. […] Mi sento alla mercè della giustizia. Studio il mio atto di accusa. Deve esserci una ragione, una qualche logica, se muovono un’accusa nei miei confronti. […] Pezzo per pezzo ricostruisco le mie telefonate e gli scambi via SMS delle ultime settimane e mesi. Nel mio atto di accusa ci sono anche le vicende degli altri imputati. Non conosco nessuno di loro. E mi si rizzano i capelli in testa per tutto ciò di cui mi si accusa. Sono tantissime le traduzioni e interpretazioni che non corrispondono al vero. Ogni cosa di cui ho parlato per loro è droga. Tutti gli interlocutori sono miei clienti che non hanno nulla a che fare con la questione.”

Un’esperienza tragica in cui Agnes racconta come riuscì a salvarsi dal tritacarne dei Tribunali e delle galere, e dal disinteresse degli avvocati d’ufficio:

Il 14 febbraio 2008 in Tribunale a Trento. […] Giudice, Pubblico Ministero e cancelliere sono già in piedi davanti a me. Come avevo già scritto al mio avvocato, metto in chiaro i fraintendimenti e le traduzioni errate riportate nel mio atto d’accusa. Sono accusata di essere stata in possesso di mezzo chilo di eroina. L’imputazione, stando all’atto di accusa, nasce dal fatto che il giorno X il signor X sarebbe stato beccato con quasi un quarto di chilo di eroina e al telefono avrebbe detto a qualcuno: Lei non mi ha dato enanche la metà della cosa. Si è concluso che s’intendeva fossi io ad avergli dato quel quarto di chilo e che avessi dovuto avere un ulteriore quarto. Invece si trattava di soldi. […] Il 6 maggio 2008 […] a causa del traffico di stupefacenti mi vengono inflitte una pena detentiva di 4 anni e 2 mesi e una pena pecuniaria di 24.000 euro”.

Parte centrale del libro è l’esperienza del carcere, la privazione della libertà, l’inattività forzata, la lontananza dai propri affetti, la vita sul letto a causa della mancanza di spazi, la mancanza di uno spazio per sé, riservato. Il Natale trascorso lontano da casa, lontano dai propri figli. Il funzionamento del carcere, la burocrazia, il consumo di psicofarmaci, le domandine per fare ogni cosa, il sovraffollamento, la mancanza di attenzione per la cura della salute.

Ma uno spazio importante è riservato anche alla triste esperienza nella comunità terapeutica Il sorriso in cui non le era permesso scrivere le lettere nella propria madrelingua, costretta dalla direzione della comunità a leggere davanti a loro il contenuto della propria corrispondenza e a parlare al telefono solo in italiano e solo in presenza dgli operatori. Un periodo in cui fra le altre cose apprende l’ulteriore inasprimento della propria condanna:

21 marzo 2009 […] Il maresciallo mi porta la sentenza del Tribunale. Prevede non quattro anni di reclusione, ma sei anni e tre mesi. Quindi non sarò libera prima del 24 gennaio 2014. Oh Dio, che altro è successo ora? Apprendo che a Verona mi avevano dato due anni di reclusione con la condizionale per i fatti dell’epoca [detenzione 5 grammi eroina]. Ora devo scontare anche quelli.”

La situazione in cui si trova Agnes è resa ancora più difficile dal fatto che i processi avvengono solo in italiano, così come le carte dei tribunali. Oltre a ciò la sua inesperienza e tendenza a fidarsi di avvocati poco impegnati la porta in una situazione ancora più difficile:

Apprendo che inconsapevolmente e in buona fede ho sottoscritto alla mia avvocatessa che riconosco la mia accusa ovvero ammetto la mia colpa. Mi sono fidata di lei e la mia conoscenza dell’italiano era inadeguata. Venne così avviato il patteggiamento vale a dire: rinuncia alla difesa. Le imputazioni errate non sono mai state evidenziate non lo saranno mai. La sentenza è definitiva. Non si può tornare indietro. Sono finita in un vicolo cieco.”

Nel libro è poi raccontato il ritorno a casa, il confronto con i paesani sull’ingiustizia subita, il periodo trascorso ai domiciliari, l’incontro, purtroppo tardivo, con un avvocato che si prese a cuore la sua situazione, Bonifacio Giudiceandrea di Trento.

Nel corso della sua dura esperienza, Agnes non manca di sottolineare il ruolo deleterio che le carceri hanno e le terribili conseguenze a cui la detenzione porta:

Guarda un po’, sono solo pochi giorni che siamo in cella solo in due, che già ci stipano dentro una terza detenuta. Oh no! Di nuovo pressate come sardine! Ben presto mi ritorna la claustrofobia. Non mi va più! Il mondo sarebbe così grande e loro ci chiudono in gabbie così strette. Orrore! Chi lo stabilisce? La gente è fuori di sè! Non dovrebbe essere una rieducazione? Dov’è la dignità umana? Sono sempre più sicura: il carcere provoca le persone, porta al crimine!”

La rabbia per le condizioni di vita sia accompagna anche alla presa di coscienza della necessità di lottare per cambiarle, come Agnes scrive nell’occasione di una visita di Marco Pannella nel carcere La Dozza:

Le detenute protestano insieme a Marco Pannella con una battitura annunciata. Tre volte al giorno in tutte le celle si picchia per una mezz’ora e si fa baccano. La battitura si può udire anche dal carcere maschile. Alcune detenute trovano la battitura inutile. Il signor Pannella non si arrende, indice anche uno sciopero della sete. […] Tutti i detenuti di tutta Italia dovrebbero avere il coraggio come quello di Pannella. Non ce l’ho neanche io. Se tutti facessero uno sciopero della fame, magari per un mese, se tutti i carcerati si ribellassero, allora sicuramente crollerebbero tutti i muri. A quel punto lo stato di polizia non avrebbe più potere. Quindi si potrebbero ristrutturare tutte le prigioni, ad esempio come centri culturali. La mia fantasia non conosce confini. La realtà è diversa. Fintanto che non tutti faranno causa comune, nulla cambierà.”

Un bel recente ritratto di Agnes Schwienbacher

Un libro da leggere, per conoscere la realtà delle carceri italiane ed il tritacarne dei tribunali, implacabile con la povera gente, con chi tira a campare, con chi si trova già in situazioni di difficoltà economiche o con chi mette in discussione lo stato di cose presenti. In tal senso la storia di Agnes è esemplare, la sua condizione di donna di madrelingua tedesca, con problemi di dipendenza nonché economici, è rappresentativa anche della popolazione carceraria costituita in gran parte da persone povere che non si possono permettere un avvocato che sappia affrontare una difesa in modo adeguato. Ma è anche rappresentativa di chi fa parte di una minoranza linguistica, fattore che porta con sè l’inevitabile aumento dell’asimmetria, già di per sè evidente, fra chi accusa e chi viene accusato.

Ringraziamo Agnes di avere scritto questo bellissimo libro sapendo affrontare pubblicamente anche i pregiudizi sociali che spesso l’esperienza del consumo di droga porta con sé. Un libro che permette di guardare con occhi nuovi ai fatti di cronaca che riempiono le pagine dei giornali e che contribuisce a vedere la persona, con i suoi problemi e le sue difficoltà, dietro alla foto segnaletica o ai titoli roboanti dei giornali che spesso accompagnano le campagne “antidegrado” imbastite e fomentate anche da politici in cerca di facile consenso sulla pelle dei più poveri e dei più vulnerabili.

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Quel trenta luglio 1970 alla Ignis di Trento. 50 anni fa.

Dei fatti avvenuti in Trentino negli anni Sessanta/Settanta, oltre alle lotte nate all’interno della facoltà di Sociologia di Trento ed il percorso politico successivo di alcuni suoi studenti, un episodio che colpì l’immaginario di compagni e compagne di tutta Italia fu la cosiddetta gogna che il 30 luglio 1970 venne fatta fare per le strade di Trento ai neofascisti Andrea Mitolo e Gastone del Piccolo.

Non avrebbe senso raccontare quell’episodio se non preceduto da una breve contestualizzazione in grado di far comprendere a chi legge il clima che si era venuto a creare a Trento nel periodo precedente. Solo pochi mesi prima, il 12 dicembre 1969, una bomba esplose in piazza Fontana a Milano e il movimento operaio e studentesco annusò subito l’aria che tirava attribuendo la responsabilità morale e politica di tale strage allo Stato. Dopo quella bomba nulla è come prima e sempre più compagni e compagne capiscono che ci sono settori più o meno oscuri del potere che pur di frenare e respingere l’avanzata delle rivendicazioni proletarie sono disposti a tutto, anche a compiere stragi per sfruttare il terrore, la paura della popolazione ed il conseguente bisogno di “sicurezza” che arriverebbe a far accettare possibili svolte autoritarie dello Stato.

In questo periodo, fra il 1970 ed il 1971, la città di Trento fu teatro di attentati dinamitardi e fatti mai del tutto chiariti ma che si possono ricollegare direttamente ad una volontà di creare, anche per mezzo della manovalanza neofascista, un clima di terrore per costringere a indietreggiare il movimento di classe e gli studenti della facoltà di Sociologia.

Ecco una breve cronologia di alcuni fatti significativi avvenuti in Trentino prima del 30 luglio 1970, dove la situazione degenerò in particolare dopo l’apertura della sede di Avanguardia Nazionale per opera di Cristiano De Eccher, uomo legato al nazista Franco Freda e alle sue edizioni AR. Negli anni successivi politico missino e poi deputato di Alleanza Nazionale, ricordato per il suo tentativo, nel 2011, di proporre una riforma costituzionale per abolire la XII norma della Costituzione italiana, che vieta “la riorganizzazione, sotto qualsiasi forma, del disciolto partito fascista”.

-Nel gennaio 1970 l’Associazione degli Industriali tenta, senza riuscirci grazie all’opposizione ei sindacati, di accreditare il sindacato neofascista della Cisnal al tavolo degli incontri nella vertenza sindacali delle operaie tessili della Brinkmann.

-Il 26 gennaio 1970 la sede del Partito Socialista Italiano (PSI) di Trento è oggetto di un attentato incendiario rivendicato da scritte neofasciste.

-Il 12 febbraio, per la quarta volta, anonimi fascisti tentano di dare fuoco alla sede del Comitato di Quartiere di San Pietro.

-Il 23 marzo militanti del gruppo neofascista Avanguardia Nazionale [AN] si presentano armati di bastoni davanti al liceo Prati, a scopo intimidatorio contro compagni del movimento studentesco.

-Il 1° aprile quinto attentato incendiario contro la sede del Comitato di Quartiere di San Pietro. Vengono distrutti manifesti, tabelloni, fotografie che denunciavano la speculazione urbanistica del quartiere.

-Il 2 aprile la Cisnal, tenta di inserirsi nell’assemblea sindacale della fabbrica Michelin, ma è respinta ai cancelli dagli operai.

-Il 4 aprile viene commesso un attentato alla sede di un gruppo politico antifascista a Mezzolombardo.

-Il 5 aprile due croci runiche sono tracciate sulla sede del sindacato UIL di Trento, il giorno seguente anche le sedi del PCI e del PSIUP sono coperte dalle stesse scritte con lo stesso simbolo, adottato da AN.

-Il 7 aprile un altro attentato incendiario viene commesso contro la sede di un altro gruppo della sinistra di Mezzolombardo.

-Il 10 aprile nell’aula 3 della Facoltà di Sociologia è fatta esplodere una bomba che provoca il crollo della porta d’entrata e gravi danni.

-Il giorno seguente viene inaugurata la sede di Trento del Movimento Sociale Italiano [MSI]. Un giorno pieno di tensioni a Trento con i neofascisti di Avanguardia Nazionale guidati da De Eccher che durante un volantinaggio fuori dal liceo classico Prati di Trento, armati di bastoni, aggrediscono alcuni studenti, poi ricoverati in ospedale. Lo stesso giorno nel pomeriggio altri 3 studenti vengono aggrediti nei pressi di via Santa Maddalena, dove si trova la sede di Avanguardia Nazionale. A questo punto una grande manifestazione spontanea di studenti e abitanti del quartiere assediano fino a notte inoltrata la sede di AN.

Nel frattempo il giornale l’Adige legato alla DC di Flaminio Piccoli, dietro al paravento di una campagna “contro la violenza”, orchestra continui attacchi giornalistici contro le varie anime della sinistra e gli studenti di Sociologia.

-Il 30 aprile un attentato neofascista colpisce il monumento a Degasperi mentre il giorno seguente la Questura vieta una manifestazione ed un’assemblea popolare tenuta del Movimento Studentesco. Ciònonostante il corteo viene fatto.

In questo clima, a Gardolo, il 15 maggio apre la fabbrica Ignis, dentro sono impegnati almeno 600 operai su tre turni. Pochi giorni dopo, grazie ad una dura lotta, viene approvato lo Statuto dei lavoratori, all’interno della fabbrica si elegge il Consiglio in cui sono presenti anche operai di Lotta Continua, i cui militanti esterni sono spesso presenti ai cancelli per volantinare agli operai duranto il cambio turno. Nello stesso periodo dure lotte operaie si svilupparono alla Grundig di Rovereto.

Cosa successe il 30 luglio 1970?

Verso le ore 13 doveva aver luogo presso la stabilimento Ignis di Spini di Gardolo una assemblea del sindacato neofascista Cisnal. I lavoratori della fabbrica si organizzarono per impedirne lo svolgimento. A dar manforte agli esponenti del sindacato fascista arrivano picchiatori missini e di Avanguardia Nazionale provenienti da tutta la Provincia, ma anche dal Veneto e da Bolzano. Ecco i fatti nella testimonianza di un operaio pubblicata su un opuscolo/inchiesta di Lotta Continua:

Mi trovavo alle 12.20 sul posto davanti ai cancelli. Appena arrivato ho scorto una trentina di persone, arrivate con macchine targate TN, BZ, VR, con una fascia tricolore la braccio chiaramente riconoscibili come fascisti. Io e alcuni compagni di Lotta Continua che distribuivano un volantino ci siamo messi dal lato opposto dei cancelli con l’intenzione di rifiutare ogni provocazione da parte dei fascisti.[…] In quel momento stava arrivando un compagno operaio dell’Ignis che fu deriso e beffeggiato dai fascisti. […] Improvvisamente i fascisti lo rincorsero all’interno dello stabilimento pestandolo come bestie inferocite. Mentre tutto questo stava accadendo, sul posto si trovava una 850 Fiat con tre poliziotti in borghese a bordo, una macchina della volante e una del pronto intervento, che non hanno mosso un dito per evitare il linciaggio. Appena l’operaio cadde a terra, livido dalle botte, lo raccogliemmo e lo trasportammo dietro la cancellata, dentro lo stabilimento. Intanto sopraggiungevano altri operai che dovevano entrare per il secondo turno. Visti i fatti corsero in fabbrica gridando: “Stanno massacrando il nostro compagno di lavoro!”. In pochi minuti tutti gli operai erano davanti ai cancelli e quando invitarono i fascisti ad andarsene, ebbero per risposta una fitta sassaiola. Gli operai avrebbero voluto rispondere ma i fascisti erano barricati proprio dietro le nostre macchine. Ci fu un attimo di pausa. Ad un tratto furono scagliati contro di noi due ordigni che esplosero. Tutto questo provocò da prima panico tra di noi, ma subito fummo tutti decisi a cacciare via questi rpvocatori fascisti che, ci tengo a specificare, avevano nelle mani bastoni, catene e sassi. Avanzavamo piano piano invitando ancora i fascisti ad andarsene, ma alla distanza di circa dieci metri da loro, la risposta fu un’altra sassaiola. Una donna cadde colpita in piena fronte da un sasso e così successe per altri operai. Questo scatenò la nostra rabbia e si arrivò ad un corpo a corpo : fu allora che i fascisti estrassero i coltelli e colpirono due operai: uno al ventre e l’altro alla schiena mentre era caduto a terra. Poi i fascisti fuggirono per la campagna, ma due riuscimmo a fermarli. Decidemmo di fare un corteo e portarli fino a Trento. La polizia, tanto per precisare da che parte stava, caricò per ben due volte il corteo.”

Gli operai della Ignis accoltellati furono Paolo Tenuta e Adriano Mattivi.

Poco dopo la fine degli scontri, nel momento in cui la rabbia aveva raggiunto le stelle, comparvero di fronte ai cancelli il consigliere regionale del MSI Andrea Mitolo e il dirigente locale missino Ceccon, chiamato da Del Piccolo. Riconosciuti dagli operai, i neofascisti vennero circondati e nella borsa di Del Piccolo venne ritrovata un’ascia. La goccia che fece traboccare il vaso.

Il passaporto di Gastone Del Piccolo e l’accetta trovati nella sua borsa. Archivio dell’Università di Trento (fondo Giorgio Salomon)

Come riportato anche nei verbali del Processo che venne successivamente fatto:

L’Avv. Mitolo e il Del Piccolo venivano costretti a porsi alla testa del corteo con le mani dietro la nuca. Aveva così inizio per essi una specie di via Crucis. Dovettero infatti percorrere, assoggettati a periodici insulti, sputi, percosse […] la lunga strada di accesso alla città e quindi le centrali vie cittadine sino all’ospedale civile, per un totale di quasi 9 km.”.

Archivio dell’Unversità di Trento (fondo Giorgio Salomon)

Archivio dell’Unversità di Trento (fondo Giorgio Salomon)

Il corteo, composto da circa 400 fra operai e studenti, parte, a un certo punto arrivano voci drammatiche che parlano della possibile morte di uno degli operai accoltellati, la rabbia è tanta, due cartelli vengono appesi al collo dei due neofascisti. A Del Piccolo viene fatto portare il cartello con la scritta: “Siamo fascisti. Oggi abbiamo accoltellato 3 operai della Ignis. Questa è la nostra politica operaia. All’avvocato neofascista bolzanino, nonché ex repubblichino, Andrea Mitolo, viene invece fatto portare il cartello recante la scritta: “Siamo fascisti. Oggi abbiamo acoltellato 3 operai Ignis. Questa è la nostra politica pro operai”.

immagine di presentazione articolo

Archivio dell’Università di Trento (fondo Giorgio Salomon)

Archivio dell’Università di Trento (fondo Giorgio Salomon)

Archivio dell’Università di Trento (fondo Giorgio Salomon)

Archivio dell’Università di Trento (fondo Giorgio Salomon)

Racconta il sindacalista, allora operaio alla Ignis, Bruno Bernabé in una testimonianza pubblicata nel libro di Sandro Schmid intitolato 30 Luglio 1970: “Io facevo il secondo turno. Quindi sono arrivato con la mia macchina 15-20 minuti prima delle 14.  La confusione era totale. Grida e urla fra gli operai e i neofascisti. Gli scontri erano già in corso, ho visto i neofascisti armarsi di catene di ferro e bastoni. Poi gli scoppi delle bombe lanciate nel piazzale della Ignis verso gli operai. […] nel parapiglia sono colpiti tre operai che cadono riversi a terra pieni di sangue. Gli operai sono subito portati via dalle ambulanze verso l’ospedale. Pensavamo al peggio. […] Nel frattempo arrivano Prevè Ceccon e Mitolo, assieme a Del Piccolo (che li aveva avvisati). Sono riconosciuti. Nela breve coluttazione a Del Piccolo Sfugge la borsa. Un operaio la apre. Dentro c’era un’accetta e il passaporto. Gli animi si scaldano ancora di più. Prevè Ceccon viene caricato in macchina dalla polizia. Gli altri due pagano per tutti. La rabbia operaia è alle stelle. […] Che fare? Non era facile prendere una decisione. Nonostante la pioggia battente decidiamo tutti: portiamo Mitolo e Del Piccolo fino al Tribunale. Così avremmo potuto testimoniare cosa significa autorizzare l’ingresso in fabbrica, contro la volontà degli operai, del sindacato della Cisnal e il vero volto dell’aggressione neofascista e l’accoltellamenteo dei nostri tre compagni operai. Giusta o sbagliata questa è stata la decisione di tutti. […] Gli episodi e gli insulti più pesanti nei confronti di Mitolo e Del Piccolo, sono stati quando lungo la via Brennero siamo passati davanti alle fabbriche la Ferriera e la Prada. L’eco degli avvenimenti era già arrivato prima del corteo. ‘I fascisti hanno accoltellato tre operai della Ignis’ era il succo della notizia. Gli operai della Ferriera e della Prada al sopraggiungere del corteo sono usciti dalle fabbriche. Diversi avevano subito angherie e persecuzioni durante il fascismo. La loro rabbia era incontenibile, sono volate pesanti frasi ingiuriose, spinte e qualche sputo, impossibile frenarli. Il resto degli accadimenti è noto. All’Ospedale S. Chiara entra una delegazione con Giuseppe Mattei, per avere notizie sui tre operai feriti. Mattei riferisce che i tre sono sicuramente fuori pericolo e con noi tenta di dare uno sbocco alla manifestazione con la parola d’ordine di portare i due ostaggi in Questura. […] Nei pressi della Questura abbiamo così consegnato i due al brigadiere Raja, che li ha presi in consegna.”

Archivio dell’Unversità di Trento (fondo Giorgio Salomon)

Chi era Andrea Mitolo?

Durante la guerra, dopo l’8 settembre 1943 aderì alla Repubblica di Salò, combattendo al fianco della truppe naziste fino all’ultimo giorno. Fondatore della sezione bolzanina del Movimento Sociale Italiano, il neofascista fu rappresentante del MSI nel consiglio della Regione Trentino Alto Adige dal 1948 al 1973. Nel 1972 venne accusato di essere tra i finanziatori di un campo di addestramento paramilitare fascista a Passo Pennes. Nel 1974 venne eletto nel consiglio comunale di Bolzano, mentre nel 1987 fu eletto deputato nel Parlamento, fino alla morte, avvenuta nell’agosto 1991. Nella sua carriera di avvocato penalista difese, fra gli altri, noti picchiatori fascisti come Carlo Trivini, assassino nel 1971 di un cameriere del locale notturno di via Resia a Bolzano e successivamente trafficante di eroina, e militari come il tenente Palestro, incriminato nel 1972 per la morte in Val Venosta di 7 militari di leva, seppelliti da una slavina.

Il 2 agosto 1970, sulle colonne del Giorno il giornalista Giorgio Bocca scrisse “L’avvocato Andrea Mitolo è una mia vecchia conoscenza: lo facemmo prigioniero ufficiale fascista nel ’45 in una valle del Cuneese. Aveva combattuto assieme ai nazisti fino all’ultimo giorno. L’ordine sarebbe stato di fucilarlo visto che aveva le armi in pugno al momento dell’arresto, ma lo facemmo tornare a casa sua a Bolzano, dove a tavolino si mise a stendere una denuncia alla Magistratura contro di noi per omicidio e strage (in Trentino Alto Adige c’era ancora l’Alpenverland). C’è da credere che ora stia denunciando gli operai che non hanno risposto alle coltellate con le coltellate dei suoi sgherri perché è un uomo che crede nell’odio”.

A conferma del personaggio che Andrea Mitolo fu va ricordato come, oltre al suo passato nazifascista, egli non smise mai di abbracciare tali aberranti idee, continuando, con i mezzi messi a sua disposizione dal nuovo corso democratico a mistificare la storia e infangare la Resistenza. Ancora in una lettera da lui inviata e poi pubblicata sul quotidiano Alto Adige il 26 luglio 1975 Mitolo affermò come la condanna a 30 anni del partigiano Johann Pircher e la sua permanenza in carcere fino agli Settanta era ineccepibile dal punto di vista giuridico, negando –ovviamente– le fondamenta ideali e le ragioni storiche del suo agire e della sua scelta resistenziale. Curioso che un reduce nazifascista come Mitolo si appellò a cavilli giuridici e regolarità processuali per giustificare la condanna a vita di un partigiano. Assurdo vedere che chi collaborava e combatteva con chi costruiva Auschwitz puntava il dito invocando il carcere per chi si era ribellato, in condizioni impossibili come quelle presenti in Sudtirolo, agli orrori di cui lo stesso Mitolo era protagonista e servitore. Eppure anche questo è uno dei tanti paradossi e delle profonde ingiustizie che attraversarono questo paese, e questa Provincia.

Cosa successe dopo

Dopo i fatti della Ignis continua la campagna mediatica e politica tesa a delegittimare l’attività politica dei movimenti extraparlamentari e la presenza stessa degli studenti di Sociologia. Anche l’attività neofascista non si ferma: il 10 settembre venne compiuto un attentato alla linea ferroviaria del Brennero aTrento Sud. Rivendica il sedicente gruppo neonazista Mar -Movimento d’Azione Rivoluzionaria- che proclama: “Via Sociologia o Trento brucerà”.

Il 4 ottobre successivo vengono compiuti 3 attentati dinamitardi nei principali cinema di Trento. Lotta Continua attribuisce la responabilità degli attentati ad Avanguardia Nazionale. Nei mesi seguenti lotte operaie attraversano Trento, mentre i fascisti proseguono la loro attività di mazzieri con l’aggressione dell’ottobre 1970 contro alcuni studenti al caffè Italia in piazza Duomo. L’azione è rivendicata sul giornale missino Secolo d’Italia. Nel gennaio 1971 un attentato colpisce la sede del movimento studentesco in via Prati mentre due giorni dopo viene fatta esplodere l’auto del sindacalista trentino Giuseppe Mattei, della Cisl, contemporaneamente viene fatta esplodere una bomba davanti al collegio universitario di Corso Buonarroti.

Il 18 gennaio 1971 al monumento alla Resistenza di fronte al Tribunale di Trento, viene forse sventata una potenziale strage: fu ritrovata infatti, in una sacca sportiva, una potente bomba al plastico. Il giorno successivo nella stessa piazza era prevista una manifestazione studentesca.

Il processo venne però rinviato e così la bomba non serviva più: un intreccio di telefonate anonime aveva fatto così rinvenire la bomba. Un’inchiesta di Lotta Continua rivelò come dietro alla bomba c’era lo zampino di numerosi uomini di Stato che vennero coinvolti poi in un indagine processuale a riguardo. Come scritto anche dalla commissione parlamentare d’inchiesta sul terrorismo in Italia del 1992: “Nell’ambito delle inchieste che riguardarono la strage vennero arrestati il colonnello del SID Pignatelli, il colonnello dei carabinieri Santoro, il vice-questore della polizia Molino e i confidenti dei tre servizi segreti Zani e Widmann. Furono tutti assolti nel prosieguo dei processi, ma nel corso dì quell’istruttoria vennero comunque alla luce le reti operative dei servizi di sicurezza, sperimentate in Alto Adige negli anni ’60 e trasferite di peso nel Trentino degli anni ’70 e anche sul piano nazionale.”

La gogna a Mitolo e Del Piccolo fu conseguente all’esasperante attività squadrista che oltre agli studenti ed ai militanti, colpiva anche gli operai ed i sindacalisti. Il fatto che un consigliere regionale come Andrea Mitolo ed i suoi sgherri si presentasse fuori da una fabbrica in cui erano appena stati accoltellati degli operai dai suoi camerati, con un’accetta nella borsa di Del Piccolo fu la goccia di troppo che portò tutti a dire basta. Un tassello di lotta operaia da conoscere e ricordare, da inserire nel campo più ampio delle lotte del tempo, in cui, dopo piazza Fontana, le regole del gioco cambiarono, ed attraverso l’utilizzo di provocatori legati a gruppuscoli nazifascisti, la borghesia tentava di disarticolare e condizionare obiettivi e modalità di lotta dei proletari e delle loro diverse organizzazioni. 

 

La vasta eco che il fatto suscitò in tutta Italia fu fonte di ispirazione di una canzone tratta dal canzoniere pisano:

Trenta luglio alla Ignis

Questa mattina, davanti ai cancelli
sono arrivati trenta fascisti:

erano armati di bombe e coltelli,
questi di Borghi son gli squadristi.

Han cominciato tirando sassi

contro i compagni di un capannello;
alle proteste han risposto sparando:

tre ne han feriti con il coltello.

Noi operai gli siam corsi dietro
ma quei vigliacchi sono fuggiti,

approfittando della confusione
mentre portiamo in salvo i feriti.

Subito dopo la vile aggressione

ecco arrivare due capi fascisti;
van con la borsa dal porco padrone

a prender la paga pei loro squadristi.

Li abbiamo presto riconosciuti:
uno è Del Piccolo, quell’assassino,

e l’altro è Mitolo, capo fascista,
torturatore repubblichino.

Dentro la borsa, coi passaporti,

hanno una scure ben affilata:
questa è la prova che i due compari

la sanno lunga su come è andata.

Gli abbiamo fatto alzare le mani,
gli abbiamo messo al collo un cartello

con sopra scritto: « Siamo fascisti,
facciam politica con il coltello ».

E dalla Ignis fino in città,

mentre tremavano per la vergogna,
li abbiam portati in testa al corteo

e tutta Trento li ha messi alla gogna.

E in fin dei conti vi è andata bene,
perché alla fine della passeggiata

quella gran forca che meritate
non ce l’avete ancora trovata.

Cari compagni, quella gran forca

dovremo farla ben resistente,
per impiccarci, assieme ai fascisti,

il padron Borghi porco e fetente.

Cari compagni, quella gran forca
dovremo farla ben resistente

per impiccarci, assieme ai fascisti,
ogni padrone, porco e fetente.”

 

 

Riferimenti bibliografici:

Sandro Schmid, Luigi Sardi, 30 luglio 1970, storia della Ignis e del neofascismo trentino

Maurizio Gretter, Le Bombe di Trento, in: “Controinformazione”, anno IV, n. 9/10, novembre 1977.

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Dalle bombe in Alto Adige alla bomba di Piazza Fontana. Il caso di Silvano Russomanno.

Sono passati ormai 50 anni dalla strage di Piazza Fontana e dall’assassinio di Pino Pinelli, eppure ci sono particolari, connessioni che non sono mai state debitamente messe in evidenza. Storie da conoscere, per comprendere meglio il presente.

Alcuni anni prima dell’inizio della cosiddetta “Strategia della tensione” l’Alto Adige fu a tutti gli effetti un laboratorio, una palestra in cui lo Stato mise alla prova tecniche di controguerriglia, spionaggio, infiltrazione, utilizzo di neofascisti nella “guerra non convenzionale” contro i militanti del Befreiungsausschus Südtirol [BAS].

Molti dei protagonisti ed esecutori della cosiddetta “strategia della tensione” si “fecero le ossa” in Alto Adige, negli anni Sessanta. Fra loro ricordiamo Amos Spiazzi, il colonnello Angelo Pignatelli, Silvano Russomanno e il Questore di Bolzano (negli anni Sessanta, poi passato a Milano) Ferruccio Allitto Bonanno.

Esiste un filo rosso inquietante che collega le vicende legate alla lotta contro l’irredentismo sudtirolese degli anni Sessanta alla strage di piazza Fontana ed alle successive vicende che ne scaturirono.

Grazie al libro “Pinelli: la finestra è ancora aperta”scritto da Gabriele Fuga ed Enrico Maltini per le edizioni Colibrì nel 2017,  è stato possibile ricostruire ed evidenziare uno dei fili che collega i fatti avvenuti in Alto Adige con l’inizio della cosiddetta strategia della tensione. Un filo la cui consistenza è qui brevemente e superficialmente raccontata, ma che meriterebbe senz’altro maggiori approfondimenti ed uno studio sistematico che ad oggi purtroppo manca.

Un uomo chiave per comprendere quali personaggi agivano allora nella questura di Milano è senza dubbio Silvano Russomanno, del quale devono essere ricordati alcuni dati biografici: nato a Reggio Calabria nel 1924, nel corso della seconda guerra mondiale venne arruolato nel 51° Reggimento Fanteria con sede a Perugia. In seguito all’8 settembre venne catturato dai tedeschi ed aderì alla Repubblica di Salò venendo assegnato come volontario al 373° Battaglione Flak, quindi a un battaglione nazista. Nel maggio 1944 fu inviato in Cecoslovacchia e impiegato nel 133° Battaglione Misto Flak alla difesa antiaerea; nel luglio dello stesso anno fu trasferito con lo stesso Battaglione a Deep sul Mar Baltico. Nel febbraio 1945, ritornato in Italia, fu destinato col 456° Battaglione Rovereto e alla fine di aprile fece ritorno a Correggio [RE]. Il 20 luglio dello stesso anno venne catturato dagli Alleati e internato a Coltano [PI] mentre nell’ottobre seguente venne rimesso in libertà.

Dopo la guerra, durante la quale mentre prestava servizio nella Wehrmacht, imparò il tedesco, si laureò in Giurisprudenza entrando in polizia nel 1950, in servizio nella sede di Merano. Dal 10.9.1953 al 16.9.1954 dirige il settore della polizia di Frontiera di San Candido. Successivamente, fino al 11.3.1960, dirige il settore Polizia di Frontiera di Tarvisio, data dalla quale, sino al 19.12.1960 assume la dirigenza del Commissariato di P.S. di Bressanone. Nello stesso mese Silvano Russomanno, che ha raggiunto ormail il grado di Commissario Capo, viene trasferito da Bressanone al Ministero dell’Interno ed assegnato all’Ufficio Affari Riservati del Viminale, erede spirituale e materiale dell’OVRA fascista, ove inizialmente svolge compiti di funzionario addetto alla 2° e 4° sezione.

Silvano Russomanno in una foto d’archivio

In questi anni Russomanno matura una conoscenza approfondita della situazione altoatesina, infatti dopo i noti fatti del giugno 1961, conosciuti come “la notte dei fuochi”, proprio lui venne inviato a Bolzano per alcuni mesi, con non meglio precisati incarichi di antiterrorismo anche al di là della frontiera del Brennero.

In seguito alla Notte dei Fuochi l’Alto Adige venne messo in stato d’assedio, migliaia di militari vennero inviati in Provincia, in alcune zone venne imposto il coprifuoco, negli interrogatori dei militanti arrestati venne fatto ampio uso della tortura e due militanti del BAS, Franz Höfler e Anton Gostner, morirono in seguito alle torture che subirono da parte dei Carabinieri. I militi dell’Arma responsabili delle torture vennero denunciati dagli arrestati ma il processo che ne seguì non portò a nessuna condanna, anzi, l’allora generale dei Carabinieri Giovanni De Lorenzo (già a capo fino al 1962 del Servizio Informazioni Forze Armate-SIFAR), in seguito coinvolto in piani golpisti nonché esponente del partito neofascista Movimento Sociale Italiano [MSI], conferì loro onoreficenze per “l’impegno esemplare prestato nel corso del servizio”.

Nel giugno 1964, dopo altri attentati commessi in Alto Adige, Russomanno venne inviato a Colonia allo scopo di iniziare la collaborazione col Servizio Federale del settore antiterroristico. Federico Umberto D’Amato il 10 maggio 1965 venne nominato direttore della 4° Sezione della Divisione Affari Riservati, competente nella materia del separatismo e terrorismo.

La figura di Russomanno e quella dell’allora questore di Bolzano, Ferruccio Allitto Bonanno, vennero considerati i registi dell’operazione di polizia in cui l’infiltrato nei BAS Christian Kerbler, uccise Amplatz e tentò di uccidere Georg Klotz, in un baita sopra Saltusio, in Val Passiria.

Molto ci sarebbe da scrivere e molto c’è ancora da sapere sull’operato dei servizi e delle forze dell’ordine italiane in Alto Adige in quegli anni, ma qui ci interessa evidenziare il filo che collega le vicende altoatesine con l’inizio della strategia della tensione ed ecco ricomparire Russomanno, riconosciuto a livello europeo come “specialista” di temi legati al terrorismo, sui quali tiene corsi di aggiornamento per i servizi di mezza Europa.

In un saggio di Russomanno sul “terrorismo” scritto, a suo dire, prima della bomba di Piazza Fontana, l’agente dell’Ufficio Affari Riservati si dilunga in analisi il cui obiettivo di fondo è sminuire l’attività della destra, additando allo stesso tempo gli anarchici come il maggiore pericolo pubblico per la sicurezza in Italia nel periodo. Siamo nel 1969, ed il 25 aprile dello stesso anno esplosero delle bombe alla Fiera Campionaria (in seguito venne accertato come gli autori fossero i neofascisti di Ordine Nuovo Franco Freda e Giovanni Ventura) per le quali le indagini presero subito la direzione degli anarchici. Il commissario Calabresi, già ridenominato “commissario finestra”, insieme ad altri agenti della polizia politica si rese responsabile di efferate violenze, minacce e torture ai danni di numerosi giovani anarchici arrestati fra cui il bolzanino Paolo Faccioli, il livornese Paolo Braschi e Angelo della Savia, a cui, dopo giorni di violenze, vennero estorte dichiarazioni in cui “confessavano” la paternità degli attentati.

Qui vennero poste le basi e fatte le prove generali per la strategia messa in atto pochi mesi dopo. Il 12 dicembre 1969 a Milano una bomba esplode presso la banca dell’agricoltura, in piazza Fontana: rimangono uccise 17 persone e altre 88 vengono ferite. Le indagini, sebbene non ci siano prove o indizi di nessun tipo, vennero indirizzate, ancora una volta, contro gli anarchici; decine di giovani e meno giovani militanti vennero rastrellati dagli agenti della Questura di Milano e sottoposti, ancora una volta da Calabresi e i suoi colleghi, a violenze, torture e minacce. Il 16 dicembre seguente, nel corso dell’interrogatorio, dal terzo piano della Questura di Milano, l’anarchico Pino Pinelli muore precipitando dalla finestra.

Il giorno dopo, in una conferenza stampa improvvisata, l’allora Questore di Milano Marcello Guida, già direttore del confino fascista di Ventotene, affermò: “Vi giuro, non lo abbiamo ucciso noi…”.

Fino a qui è storia più o meno conosciuta. Solo il ritrovamento dell’archivio della divisione ufficio affari riservati nel 1996 permise di ricostruire per intero la vicenda e colmare le infinite zone d’ombra che oscuravano la vicenda relativa alle bombe di piazza Fontana e alla morte di Pinelli.

Già il 13 dicembre infatti, gli uomini di Federico Umberto D’Amato, capo dell’Ufficio Affari Riservati, piombarono alla Questura di Milano prendendo in mano le indagini e gli interrogatori dei fermati. Fra le (almeno) 14 persone dipendenti direttamente dal Ministero dell’Interno presenti in quei giorni in Questura a Milano, ecco nuovamente Silvano Russomanno, amico del capo dell’Ufficio politico di Milano Antonino Allegra. L’ex repubblichino, insieme agli altri uomini dei servizi in missione riservata, prese in mano la situazione, con gli agenti dell’Ufficio politico di Milano che per motivi gerarchici, obbedirono agli ordini. Russomanno si rese responsabile di gravi depistaggi e non è difficile immaginare che ruolo l’ex repubblichino possa avere avuto nell’interrogatorio che portò alla fine di Pinelli. In un documento datato 18 dicembre 1969 (due giorni dopo la morte del ferroviere anarchico) lo stesso Russomanno, nel tentativo di giustificare il suo “Suicidio”, attribuiva a Pinelli la responsabilità di attentati compiuti l’8 agosto precedente su due treni.

La riservatezza di tale missione è confermata dal fatto che durante i processi la loro presenza non emerse fino al ritrovamento dei documenti conservati nell’archivio della via Appia, nel 1996. Nei processi relativi alla morte di Pinelli, gli agenti della Questura di Milano, fra cui Calabresi, per coprire e negare la presenza degli uomini dei servizi, si contraddissero infatti innumerevoli volte.

La sua attività negli apparati più riservati dello Stato continuò indisturbata negli anni più caldi del conflitto sociale in Italia. La carriera proseguì tanto che nel 1973 venne chiamato a rappresentare la polizia italiana nelle sessione del comitato speciale della NATO per le questioni del terrorismo a Bruxelles. Il 4 gennaio 1978 gli vennero conferite le funzioni di Ispettore Generale. Nel’ambito dell’inchiesta su Piazza Fontana Russomanno, insieme al vice capo dell’Ufficio affari riservati Elvio Catenacci e altri funzionari, viene accusato di aver occultato prove alla magstratura.

La prima volta in cui Russomanno dovette rispondere in un aula di Tribunale della sua attività fu nel 1997 quando nel corso dell’interrogatorio mentì spudoratamente sulla propria attività e sulle proprie responsabilità, nulla di cui stupirsi.

Perchè è importante conoscere questa storia?

É significativo sapere che nel dicembre 1969, nella Questura di Milano diretta dall’ex direttore del confino fascista di Ventotene Marcello Guida, un ex repubblichino conosciuto per le sue simpatie naziste come Silvano Russomanno, fu protagonista degli estenuanti interrogatori a cui fu sottoposto l’anarchico, nonché ex partigiano, Pino Pinelli ed altri arrestati. Una piccola cartina tornasole che restituisce il clima allora esistente all’interno degli apparati repressivi dello Stato e che entra in una “tradizione” nazionale che trova le ultime appendici più conosciute nelle torture ai manifestanti durante il G8 di Genova, ma non solo. La vicenda di Stefano Cucchi o Federico Aldrovandi (solo per citare due fra le decine di casi conosciuti) dimostra inoltre il clima omertoso esistente all’interno degli apparati repressivi, così come emerge dalle recenti vicende intorno alla caserma dei carabinieri di Piacenza o nell’omicidio di Serena Mollicone , per citare i casi saliti recentemente agli onori delle cronache. Vicende che hanno trovato notorietà solo grazie all’ostinato coraggio di donne come Ilaria Cucchi o parenti ed amici indomiti. Ha senso parlare di mele marce? Ha senso parlare di Servizi deviati? O si tratta piuttosto di conseguenze inevitabili di un sistema? Nessuno Stato permette a una propria parte di agire fuori dal proprio controllo così come ogni carabiniere agisce sempre con l’appoggio più o meno esplicito, dei propri superiori. Ciò è storicamente avvenuto ed avviene tutt’oggi grazie alle ampie coperture politiche di cui certi settori dello Stato possono godere e del totale senso d’impunità che li accompagna.

La figura di Russomanno è esemplare in tal senso; dimostra inoltre la continuità del fascismo nelle istituzioni repubblicane e di come esse si mostrarono ampiamente tolleranti nei confronti di fascisti e nazisti più o meno ex, mentre assai più decisa fu la repressione nei confronti dei partigiani insoddisfatti del nuovo corso democratico, che tanto assomigliava a quello precedente.

Uno spaccato delle tensioni e dei personaggi che attraversarono questa provincia di confine, dove le tensioni etniche vennero utilizzate, fomentate e sfruttate per sperimentare nuove tecniche militari in vista di possibili svolte autoritarie, assolutamente non lontane dalla realtà visti i progetti golpisti del 1964 “Piano Solo” e quello del 1970, anche questo, guarda caso, sotto la supervisione di un altro collaborazionista nazista e ufficiale militare della Repubblica di Salò, come il principe Junio Valerio Borghese.

Ancora una volta, come avvenuto durante il Ventennio fascista, per lo Stato le politiche contro le minoranze linguistiche e le loro espressioni politiche, diventarono una palestra in cui sperimentare provvedimenti e tecniche da estendere successivamente sul piano nazionale.

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Benko licenzia migliaia di lavoratori in Germania. A Bolzano vuole anche abbattere platani secolari

Nel settembre 2018 veniva annunciato come il gruppo austriaco Signa, uno dei maggiori investitori immobiliari in Europa con un patrimonio di oltre 13 miliardi di dollari, avesse ottenuto l’acquisizione del 50,1% delle operazioni retail del gruppo canadese Hudson’s Bay Co. in territorio europeo, il cui business è legato principalmente alla catena di centri commerciali Galeria Kaufhof.

Karstadt, già controllata da Signa, e Kaufhof, vennero così unite in un colosso commerciale dal valore di circa 5,4 miliardi di dollari.

Oltre a ciò Signa, gruppo guidato da René Benko, prese possesso, con una transazione separata, del 50% delle proprietà immobiliari di Hudson’s Bay in Germania, valutate 3,25 miliardi di euro.

Già allora secondo la Süddeutsche Zeitung l’integrazione delle due catene avrebbe comportato la perdita di 5.000 posti di lavoro (dei 20.000 totali) per Kaufhof, e di molti altri fra le filiali Karstadt.

Dopo nemmeno due anni ecco arrivare l’annunciato piano di ristrutturazione dell’immobiliarista austriaco: 62 delle 172 filiali di Galeria Karstadt Kaufhof saranno chiuse, circa un terzo delle filiali. Oltre 5000 lavoratori rimarranno disoccupati, mentre Benko, che può contare su un patrimonio personale di circa 4,9 miliardi di euro, come al solito sarà abile nel privatizzare i profitti ma nel socializzare le perdite.

Nelle settimane scorse in Germania è stata lanciata una campagna di lotta contro il piano di licenziamenti voluto dalla società Signa e dal suo proprietario, Benko. #nichtaufunseremrücken.

Numerosi presidi e manifestazioni si sono svolte in tutta la Germania, in solidarietà ai lavoratori di Karstadt-Kaufhof, contro le speculazioni di Benko.

A Berlino

A Stoccarda

A Landau

A Bolzano, nel frattempo, proseguono i lavori di “riqualificazione” voluti, ad ogni costo, dalla borghesia cittadina e dai esponenti politici di ogni colore politico che vivono da anni su campagne allarmistiche intorno al parco della Stazione. La stessa società immobiliare Signa, dopo mesi di martellante propaganda “antidegrado” condotta da giornali locali, pagò a sue spese un inserto patinato dal titolo “Rilanciamo Bolzano” da allegare all’Alto Adige in cui veniva illustrato un futuro luminoso del centro storico privo di degrado (leggi: poveri) e senza episodi di piccolo spaccio e microcriminalità.

Ricordiamo inoltre come si arrivò all’approvazione del progetto Waltherpark di Benko: fu necessario di fatto, dopo la prima votazione contraria, sciogliere il consiglio comunale, rivotare e far passare il progetto per un referendum-farsa della durata di 5 giorni. Lo stesso braccio destro di Benko, Heinz Hager, non esitò a denunciare e intimidire chi tentò di fare controinformazione per smascherare le pesanti contraddizioni dei progetti urbanistici della Signa. Anche chi non voleva lasciare il proprio appartamento fu di fatto costretto a farlo, come ricorda la storia di Bruno Lorenzi e Gabriella Cecchelin.

Mentre il centro viene sventrato ed il parco della stazione devastato, la sete di profitto della Signa non si ferma nemmeno di fronte ad alcuni secolari platani, da decenni fonte di gratuito riparo per i passanti, che vuole abbattere per fare posto ad alcuni parcheggi. 

Striscioni e cartelli di protesta affissi lunedì 13 luglio al Parco della Stazione a Bolzano, contro l’abbattimento dei platani e contro il progetto Waltherpark.

In una città in cui gli affitti sono da anni a livelli inaccettabili, in cui per comprare una casa occorre indebitarsi a vita, il progetto Benko ed il processo decisionale che portò alla sua approvazione è la cartina tornasole che dimostra chi sia in realtà a prendere le decisioni e di chi siano gli interessi maggiormente tutelati: immobiliaristi miliardari che non esitano, in caso di necessità, a scaricare sulla collettività i costi delle proprie operazioni commerciali, mirate esclusivamente al profitto personale. Non è certo un caso se Benko, nel periodo del referendum, portò a proprio sostegno, personaggi come Oscar Farinetti, a sua volta accusato da molti lavoratori della catena “Eataly” di creare per loro condizioni inaccettabili.

Dopo le iniziative di controinformazione fatte a suo tempo contro il progetto Benko ed i presidi in piazza contro il tandem Benko-Farinetti, impedire oggi l’abbattimento dei platani è una possibilità per portare solidarietà ai lavoratori licenziati in Germania e per riaffermare ancora una volta come ci siano cose più importanti di profitto e parcheggi: la loro ombra e il loro ossigeno per esempio.

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