[Repressione] Solidarietà a Massimo. Un comunicato del Coordinamento No Tav trentino

La repressione nei confronti del movimento No Tav non conosce sosta ed in Trentino un altro compagno, Massimo, conosciuto e stimato per la sua generosità e coraggio da tutti coloro che negli ultimi anni hanno partecipato alla mobilitazione contro il progetto Tav-Bbt in Trentino-Alto Adige ma non solo, è stato privato della libertà per la sua partecipazione alla lotta in Valsusa. Riportiamo un comunicato in sua solidarietà scritto dal Coordinamento No Tav trentino. Solidarietà a Massimo ed a tutti i compagni/e colpiti/e dalla repressione. Si parte e si torna insieme.

Solidarietà a Massimo

Arrestiamo i sondaggi del Tav in Trentino!

In questi giorni un nostro amico e compagno, Massimo, ha ricevuto un provvedimento di detenzione domiciliare col massimo delle restrizioni: dovrà restare in isolamento forzato per un anno senza poter comunicare con l’esterno né ricevere visite. Quali le ragioni di una simile oppressiva disposizione? Massimo è stato condannato per aver partecipato, insieme a trecento persone, a un’iniziativa in Val Susa che contestava, con un blocco dei pedaggi autostradali, gli interessi delle società autostradali nell’affare “Alta Velocità” (alla faccia della retorica sulla sostituibilità ferroviaria del trasporto su gomma). In relazione allo stesso episodio altri dieci No Tav hanno ricevuto misure restrittive, tra cui Nicoletta Dosio, condannata anche lei a un anno di reclusione. In alcuni casi i giudici si sono spinti perfino a negare le misure alternative, come nel caso di Dana, punita col carcere. Massimo è molto attivo nei percorsi antiautoritari e nelle lotte territoriali in Italia. Un anarchico particolarmente scomodo perché sempre disposto a contrastare, pagando spesso di persona, i progetti del potere e a non rinunciare a vivere e immaginare percorsi di lotta.

M agistrati e apparati di polizia non potevano certo farsi sfuggire l’occasione di costringerlo lontano da questi percorsi, dalle relazioni, dagli affetti. Ancor più in questo momento in cui in Trentino sta ripartendo la fase preliminare (sondaggi geognostici) dei lavori delle tratte di accesso sud alla galleria di base del Brennero (ossia, della tratta trentina del progetto Alta Velocità). Negli stessi giorni, da un lato il neoeletto sindaco di Trento nomina Ezio Facchin – uomo chiave del progetto Tav, già commissario governativo per l’AV in Trentino – assessore alla “mobilità, transizione ecologica, partecipazione e beni comuni”; dall’altro si rinchiude un compagno attivo fin dall’inizio nel percorso no Tav in Trentino, con l’intento, anche, di indebolire le iniziative contro la ripresa dei lavori. Non è certo, però, con la repressione, per quanto bieca, che le istanze no Tav e antiautoritarie possono essere soffocate. Si può “segregare e punire” ma non eliminare la volontà di chi – Massimo è tra questi – mai rinuncerà a manifestarla con fatti e con parole. Massimo ha tutta la nostra solidarietà. In Val Susa, dove da vent’anni un movimento popolare e determinato ha bloccato e continua a contrastare il progetto Tav, gli arresti di attivisti hanno ridato vigore alla lotta. Anche qui in Trentino, se vogliamo superare la soglia della semplice indignazione e sgomento, ognuno/a di noi ha la possibilità di ribaltare la volontà punitiva e vendicativa dello Stato impegnandosi in prima persona, se possibile, più di prima.

Coordinamento Trentino NoTav

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[Carcere] Strage di marzo nelle carceri. Rompiamo il silenzio. Indirizzi dei prigionieri.

Il carcere, l’istituzione totale per eccellenza, sebbene sia il luogo in cui lo Stato esercita nel modo più evidente un potere assoluto e totale, è allo stesso tempo il luogo in cui vige il più totale arbitrio di guardie e direttori: coperti ovviamente dal Ministero di competenza. Lo dimostrano i numerosi casi di pestaggi e torture effettuate dalle guardie – sempre difese da Salvini e Meloni – nei confronti dei detenuti negli ultimi tempi a Santa Maria Capua Vetere, dove le scene viste hanno evocato il ricordo della Diaz di Genova, oppure Torino. Ricordiamo come Giorgia Meloni, leader di Fratelli d’Italia, ma anche lo stesso ex ministro dell’interno Matteo Salvini si siano battuti contro l’introduzione del reato di tortura perché, secondo loro, impediva agli agenti di svolgere il loro “lavoro”. 

Detenuti sul tetto del carcere di Poggioreale, a Napoli, 8 marzo 2020. (Salvatore Laporta, Kontrolab/LightRocket/Getty Images)

Come è possibile che una strage che nel marzo 2020 sia passata senza grossi clamori in un silenzio pressoché totale da parte di stampa, intellettuali e commentatori sempre pronti ad urlare allo scandalo se durante un corteo viene fatta scritta su un muro? Sarà che pure il valore delle morti sia il risultato di un rapporto di classe? E che se a morire sono sottoproletari, a volte stranieri, a nessuno interessa più di tanto? A che pro scrivere articoli per difendere della teppaglia? A che pro esporsi?

A proposito del silenzio assordante che avvolge le strutture carcerarie anche da noi in Regione basta ricordare l’episodio di alcune settimane fa in cui un detenuto nel carcere di Trento si è dato fuoco per protesta.

Dopo mesi in cui il ministro Bonafede ha parlato di morti per overdose il muro omertoso negli ultimi mesi ha iniziato a crollare grazie alle testimonianze di alcuni detenuti nell’agosto scorso e in particolare grazie alla denuncia pubblica di 5 detenuti testimoni dei fatti che hanno portato alla morte di Salvatore Piscitelli. Possiamo solo immaginare le pressioni e le violenze psicologiche a cui i 5 saranno adesso sottoposti. Sta a noi fare in modo che non si sentano soli, scriviamo loro lettere e cartoline. Rompiamo il muro del silenzio.

Protesta al carcere di San Vittore di Milano – 8 marzo 2020

A fine novembre 5 persone detenute nel carcere di Ascoli hanno scritto un esposto alla Procura di Ancona. In questo atto, con grande coraggio, hanno riportato quanto realmente accaduto a marzo nel carcere di Modena e di Ascoli in seguito alle rivolte, in relazione ai pestaggi, agli spari e a alla morte di Salvatore Piscitelli. Il 10 dicembre sono stati trasferiti nel carcere di Modena. La scelta stessa di questo trasferimento è subito apparsa una forte intimidazione agli occhi di chi, sin da marzo, non aveva creduto alla narrazione delle morti per overdose”, fossero essi/e parenti o solidali, seppur tra loro sconosciuti/e. Le condizioni di detenzione in cui hanno tenuto i 5 ragazzi a Modena sono state altrettanto intimidatorie: in isolamento (sanitario), con divieto di incontro tra loro, in celle lisce con vetri rotti, senza possibilità di fare spesa e di ottenere accredito dei versamenti in tempi utili per poter fare la spesa, senza i loro vestiti e con coperte consegnate bagnate qualora richieste. Immediatamente, all’esterno, si è attivata un’eterogenea rete di solidarietà, costituita da parenti e solidali. La solidarietà messa in campo si è mossa su più fronti: sostegno legale, saluti sotto le mura del carcere, lettere, mail di pressione alla direzione del carcere, sollecitazioni ai garanti regionale e nazionale.
Varie testate giornalistiche, a distanza di 9 mesi dal massacro avvenuto nel carcere modenese, hanno riportato i fatti, o si sono trovate costrette a farlo, data la forza della voce dei 5 detenuti e la determinazione di parenti e solidali in loro sostegno. La verità è scomoda da dire e da sostenere, infatti
non in tutti i casi è stata riportata per quello che è o è stata detta parzialmente. In un caso, invece, un giornalista è stato licenziato per l’articolo scritto. Molti giornali e media ufficiali, a marzo, avevano riportato senza se e senza ma la voce dei carcerieri: i 14 morti durante le rivolte di marzo, 9 dei quali deceduti a Modena o in trasferimento dal carcere di quella città, erano morti per overdose a loro dire. Ma dei pestaggi e degli spari nessuno aveva parlato. A detta del carcere di Modena, gli interrogatori dei 5 uomini che hanno fatto l’esposto sarebbero dovuti avvenire lunedì. La realtà è stata diversa: sin da venerdì 18 il procuratore ha svolto gli interrogatori. A questi sono seguiti trasferimenti in differenti carceri. L’intento, ancora una volta, è la frammentazione e
l’isolamento. Al momento si conoscono le destinazioni di 4 dei 5 detenuti. Tutti loro, dopo l’isolamento effettuato a Modena, verranno sottoposti a nuovo isolamento nelle rispettive destinazioni. Una cosa è chiara: la forza e il coraggio di queste 5 persone vanno sostenuti con forza. La solidarietà, nelle sue molteplici forme, va portata avanti per ridurre l’effetto di questa frammentazione. Lanciamo un forte invito a scrivere a tutti loro! Non lasciamoli soli: una lettera, una cartolina, un telegramma! Spezziamo l’isolamento e rafforziamo la solidarietà. Di seguito gli indirizzi, ad ora conosciuti, delle nuove destinazioni:

Claudio Cipriani
C.C. Parma, Strada Burla 57, 43122 Parma

Ferruccio Bianco
C.C. Reggio Emilia, Via Luigi Settembrini 8, 42123 Reggio Emilia

Francesco D’angelo
C.C. Ferrara, Via Arginone 327, 40122 Ferrara

Mattia Pelloni
C.C. Ancona Montacuto, Via Montecavallo 73, 60100 Ancona


Due familiari dei cinque detenuti che hanno deciso di denunciare – e che ora si trovano isolati in cella liscia nel carcere di Modena – raccontano questa storia, terribilmente personale, terribilmente comune a tante altre, troppo spesso dimenticate

SE LE MURA DELLE CARCERI SONO ALTE,

SE CON LA DISPERSIONE PROVANO A DIVIDERE 

CHI ALZA LA VOCE INSIEME, LA SOLIDARIETA’ LE SUPERA E CI TIENE UNITE/i

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[Storia di classe] 30 anni dalla morte di Michael Nothdurfter. Storia di un guerrigliero sudtirolese.

Ci sono storie che sanno mettere in discussione le categorie con cui siamo abituati a leggere la realtà. In Afghanistan, come in Iraq o Palestina la Resistenza alle aggressioni occidentali è sempre stata squalificata come terrorismo. Un termine assolutamente non neutro ma che viene appiccicato dalla politica, dai media e dai tribunali a seconda degli interessi economici e politici in ballo. Così come l’assassinio a sangue freddo di uno scienziato in Iran operato dal Mossad non ha trovato la condanna della comunità internazionale allo stesso tempo anche la Resistenza palestinese appena sfocia in una forma organizzata e armata viene subito catalogata come terroristica. Riguardo all’Afghanistan è notizia degli ultimi tempi che decine di soldati australiani impegnati nella missione di pace occidentale sono sotto inchiesta per torture, omicidi arbitrari nei confronti della popolazione civile. Ci sono anche foto in cui sventolavano bandiere con svastiche. Come catalogare azioni del genere? Non è forse terrorismo? Così come le torture ad Abu Ghraib o a Guantanamo? E l’occupazione israeliana della Palestina, le torture ai prigionieri, i bombardamenti al fosforo bianco su Gaza non sono forse pratiche terroristiche? 

La definizione del significato delle parole è il risultato di un rapporto di forza fra classi sociali. I media non fanno che confermare tale rapporto, se possibile, amplificandolo.

Sono passati 30 anni dall’assassinio di Michael. Pensiamo che ricordarlo e mantenere viva la sua memoria sia il minimo che possiamo fare. Lui ha pagato con la vita l’urgenza morale di ribellarsi alle ingiustizie che vedeva con i propri occhi. A distanza di 30 anni le ingiustizie che lui vedeva e che lo hanno spinto a lottare non sono scomparse anzi, sono drasticamente peggiorate. Non possiamo abbassare la guardia.

La storia di Michael Nothdurfter è la storia di un terrorista. Almeno così veniva definito dai media e dalla “legittima” classe politica boliviana e internazionale. Perchè stupirsi? Anche i partigiani italiani erano banditi così come i partigiani dell’Affiche Rouge francese, bollati come criminali dai nazisti. E’ una storia che ci insegna come le categorie della giustizia e della legalità camminino spesso su binari diametralmente opposte, spesso incompatibili. Nella storia forzare la legge e violarla è sempre stata una necessità per gli oppressi, per i poveri, per gli sfruttati. Ancora oggi, anche in Italia dove ci troviamo di fronte a dispositivi legislativi sempre più repressivi come il Decreto Sicurezza voluto da Salvini e dai 5 stelle, è così. L’obiettivo è sempre mantenere condizioni di privilegio per i ricchi e di sfruttamento per i “dannati della terra.”

All’alba del 5 dicembre 1990 a La Paz un reparto speciale della polizia irrompe in un appartamento in cui sono presenti sei guerriglieri che da oltre 5 mesi tengono in ostaggio il direttore della Coca-Cola boliviana. Nella sparatoria muoiono tre guerriglieri e viene ucciso anche l’ostaggio. Tra i morti vi è il Comandante Gonzalo: Michael Nothdurfter di Bolzano, ex seminarista dei Gesuiti, il quale attraverso la propria esperienza personale in Bolivia, l’osservazione dell’estrema povertà e delle disuguaglianze presenti nel Paese, giunse, attraverso la teologia della liberazione, ad abbracciare gli ideali rivoluzionari di Marx e Che Guevara.

Un paese in cui nel 1967 morì Ernesto Che Guevara, il rivoluzionario argentino caduto mentre cercava di diffondere il contagio rivoluzionario che solo pochi anni prima aveva permesso la vittoria del socialismo a Cuba.

A Bolzano nel 1980, dopo la maturità classica presso i francescani (foto di Ludwig Thalheimer). Presa dal libro di Cagnan, Il comandante Gonzalo va alla guerra.

Mentre suona la chitarra a Sucre in Bolivia 1984. (foto di O. Nothdurfter presa dal libro di Cagnan)

Dopo aver passato, per motivi di studio, un anno a Londra ed un altro in Olanda, a Rosendaal, Nothdurfter giunse in Bolivia nel corso del 1982, a 22 anni. Qui entrò a studiare in un istituzione dei Gesuiti. La sua sensibilità umana e politica lo portò presto ad avvicinarsi al marxismo, come scrisse in una lettera al fratello del dicembre 1982:

«La mia opzione politica è un opzione per il marxismo. Marx ha dato al mondo dei lavoratori se non una soluzione, perlomeno un compito e una speranza. […] So bene che al giorno d’oggi marxismo di per se stesso non significa nulla: lo spettro dei suoi significati è troppo ampio. Io concordo in parte con questa definizione: il marxismo è la via maestra per risolvere le straordinarie ingiustizie sociali che costituiscono la fonte principale dell’oppressione. E questo non con alcuni cerotti, ma con un cambiamento radicale dell’attuale sistema»

La condizione di privilegio – rispetto al resto del popolo boliviano – da lui vissuta fra i Gesuiti divenne presto insopportabile e dopo circa due anni decise di uscire ed andare a vivere a pieno i propri ideali, cercando una strada che gli permettesse di vivere con coerenza la propria passione politica. Entrò all’Università di La Paz, prendendo parte alle lotte degli studenti.

1983. Michael insieme all’amico bolzanino Ludwig Thalheimer a Tarabuco, Bolivia. (Foto presa dal libro di Cagnan)

1984. Michael mentre aiuta alcuni disabili a Sucre, Bolivia. (Foto presa dal libro di Cagnan)

Il marzo 1985 la rivista cattolica altoatesina Dafür, pubblicò un suo scritto, in cui emerge la sua consapevolezza in relazione a un certo paternalismo occidentale ipocrita nei confronti del cosiddetto “Terzo mondo”, disposto a dare finti aiuti utili solo a mascherare la volontà politica di mantenere i Paesi poveri e succubi:

«Primo mondo. Primo! Non farmi ridere! Ti riempi di armi nucleari e fai morire di fame milioni di persone. Ci strappi le nostre ricchezze con la forza e ci ributti i tuoi rifiuti tramite la Caritas e la Misereor, donazioni di grano o sostegno di regimi militari. Hai distrutto le nostre antiche culture e ci hai imposto un Dio che tu chiami con molta eleganza Gesù Cristo, che però non è altro che oro, denaro, dollaro».

Michael nel 1989 a La Paz (foto di O. Nothdurfter). Presa dal libro di Cagnan

Gli anni seguenti furono segnati da una sua progressiva maturazione politica che lo portò ad abbracciare la necessità di organizzare la guerriglia, unico mezzo per riportare giustizia.

La Paz, 12 maggio 1990

«Credo di trovarmi a un bivio. Dinanzi a me si parano due cammini: uno porta alle soluzioni accomodanti, l’altro rappresenta la strada del guerriero che vive ogni cosa come una sfida. In realtà, a me non resta che accettarla. L’unica questione ancora aperta è sino a dove potrò arrivare, nella strada che Don Juan (personaggio di un opera di Castaneda) chiama la via alla conoscenza, Marx indica come la via al comunismo, il Che considera come la costruzione dell’uomo nuovo e Gesù la ricerca del regno di Dio.»

Michael divorava libri e nel periodo caratterizzato dalla caduta dei regimi comunisti e di ubriacatura liberalcapitalista non potevano mancare i testi di Fukuyama sulla cosiddetta “fine della storia”. Ecco le sue interessanti riflessioni al riguardo:

«Ho letto l’articolo “La fine della storia” di Fukuyama. Li si vede come si può fare virtù della propria stupidità: la semplificazione come metodo, per un mondo da sogna senza più storia che è poi il mondo di oggi, il regno della materialità. La difesa primitiva di una democrazia occidentale che si crede eterna. Ci si dimentica, tra l’altro, che Hitler -prototipo dell’assolutismo- giunse al potere grazie alla sistematica manipolazione delle masse. Si sostiene che l’altro grande nemico delle democrazia è stato il comunismo-stalinismo, e di nuoo ci si dimentica che furono proprio i comunisti a combattere con maggiore forza le truppe nazifasciste, e non i democratici Stati Uniti d’America.»

Arrivò così alla formazione del gruppo guerrigliero CNPZ con cui progettò il sequestro di Jorge Lonsdale, uno dei principali responsabili del gruppo Coca-Cola in Bolivia. Durante i giorni del sequestro tenne un diario in cui annotava i propri stati d’animo, le proprie sensazioni, le proprie riflessioni:

4 giugno 1990

«Domani è il D-day. Se non ci saranno problemi dell’ultim’ora sequestreremo Mamani (Lonsdale, il capo della Coca-cola in Bolivia). Inizia una nuova tappa del nostro cammino; inzia anche un nuovo corso, nel quale i nostri avversari saranno un Impero, una classe oligarchica, un governo di destra, forze repressive che possono contare su migliaia di effettivi, mezzi di comunicazione che perlopiù sono schierati con il sistema ecc. Dalla nostra parte c’è per schierata l’opinione pubblica nazionale, gli aymarà, i quechua, le organizzazioni popolari, i partiti rivoluzionari, e altri ancora. […] Siamo preparati per una simile impresa? Sono preparato io? So di dover confidare nella mia piccola forza, senza cadere nell’ingenuità di una facile vittoria. Lo ripeto per l’ennesima volta: siamo dinnanzi a una sfida senza eguali e l’unica cosa che desidero è dedicarmi al 100% a questa lotta, a questa battaglia che prima di me hanno combattuto i migliori guerrieri. La rivoluzione (socialista), oggi come ieri, è un evento sociale straordinario. E’ come abbracciare il mondo, in un gesto di creazione che rompe con le inezie della nostra esistenza moderna. Sul piano personale sto arrivando al punto in cui il passato (la mia storia personale) si allontana sempre più, tanto che mi è difficile ripensare ai tempi trascorsi».

L’11 giugno 1990 i rivoluzionari della Commission Néstor Paz Zamora (CNPZ), il gruppo di cui faceva parte Michael Nothdurfter, decidono di sequestrare Jorge Lonsdale, uno dei principali manager della multinazionale Coca-Cola in Bolivia.

Il giornale Ultima Hora del 26 novembre 1990 annuncia per la prima volta il gruppo del CNPZ. Fra le foto segnaletiche il primo in alto è Nothdurfter (foto presa dal libro di Cagnan)

Il diario proseguiva annotando riflessioni, paure, considerazioni, reazioni pubbliche all’azione, i conflitti interni al CNPZ, le tensioni fra compagni.

Il 27 agosto Michael scriveva:

«Poco a poco sto imparando a capire cosa rappresenta la vita di un guerriero. Una vita senza riposo, una vita che va da una battaglia all’altra. Una vita senza pace. Una vita piena di sacrifici, di disincanto, di disillusioni. Una vita da cani. E’ tuttavia la vita più attraente, più bella, più preziosa.»

Volantino diffuso dalla polizia boliviana con il nome storpiato “Miguel Northufster” e la falsa identità di “Martin Kesner Lopez” (foto presa dal libro di Cagnan)

Nello stesso periodo scrisse una lettera ai genitori a Bolzano, forse già consapevole che presto sarebbe arrivato allo scontro frontale con le autorità boliviane, ed uno dei destini più probabili era la morte. Una lettera in cui Michael, che da anni era a contatto con la povertà e le peggiori ingiustizie, tentò di spiegare delle scelte così lontane dalla vita dei genitori e dal benessere economico della realtà sudtirolese. L’esperienza all’estero lo aveva trasformato, come scrisse lui «da molto tempo ormai, io non sono più un bolzanino, l’Inghilterra e l’Olanda significano per me solo una parte del mio passato; oggi io sono un boliviano, un latinoamericano o se preferite, un cittadino del mondo». Proseguiva così:

«So che per voi deve essere difficile comprendermi. […] Mamma mi chiede da tempo di scriverle delle mie attività […] Sinora ho sempre ignorato questa richiesta, perché so quanto sarebbe difficile per voi accettare che io abbia scelto volontariamente un’esistenza labile e insicura, inaccettabile per gli standard europei. […] Da sei mesi non frequento più l’Università, soprattutto per motivi id sicurezza. Malgrado ciò posso dire che sto imparando sempre di più. In una discussione con i minatori, magari, o con i contadini […] Nel 1986 sono entrato in un partito rivoluzionario. Per un anno ho frequentato l’Università, scritto volantini, fatto le barricate, conosciuto sulla mia pelle la repressione poliziesca. Nel 1987 sono poi uscito dal partito, per creare assieme ad altri dissidenti una nuova organizzazione politica che si è unita con quella che oltre vent’anni prima aveva fondato Ernesto Che Guevara. […] Dopo la guerra fredda arriva la calda “pax capitalista” […] la pace dei ricchi che hanno sempre di più e dei poveri che hanno sempre di meno. […] La principale questione ora è l’alternativa. Ieri, tutti coloro che premevano per una svolta dicevano chiaro e tondo socialismo. Il cosiddetto socialismo reale è però in crisi profonda, e ora troppi gioicono per la presunta fine del comunismo. In questa logica però, non dovrebbe più esistere un solo cristiano, perlomeno dai tempi dell’Inquisizione. […] So di non essere stato un buon figlio per voi. Posso anche immaginare che il contenuto di questa lettera vi possa far preoccupare, ma dovete sapere che io faccio ciò che devo fare. Non pretendo che voi mi comprendiate, ma dovete capire che io agisco secondo coscienza. […] Avrei preferito tacere, ma credo di esservi debitore della verità. E la verità è che la passione e l’amore per il mondo mi spinge all’azione. Anche con il richio di commettere degli errori».

Come scritto all’inizio, il 5 dicembre 1990 le forze speciali boliviane misero fine alla vita di Michael e degli altri guerriglieri che come lui, misero in gioco la propria vita, nel tentativo di avviare un percorso rivoluzionario in grado di unire giustizia sociale e libertà.

La casa della calle Saavedra utilizzata come nascondiglio per il sequestro Lonsdale (foto di O. Nothdurfter). Foto presa dal libro di Cagnan.

“Sono una porta che parla” Anonimi hanno tracciato sull’ingresso secondario della casa di calle Saavedra, una scritta per ricordare il massacro a sangue freddo dei rivoluzionari avvenuto il 5 dicembre 1990. (foto presa dal liro di Cagnan)

La tomba di Michael Nothdurfter nel cimitero di La Paz . Ricordato ancora oggi dai suoi compagni e compagne. (foto di O. Nothdurfter). Foto presa dal libro di Cagnan.

Ricordarlo è il minimo. A maggior ragione per il fatto che anche i recenti fatti che hanno interessato la Bolivia, con il colpo di Stato nei confronti di Evo Morales ed alle violenze provocate dall’estrema destra razizsta e fascista del Paese, confermano come i tentacoli del capitalismo sono in costante agguato, nel tentativo di depredare risorse dai paesi più poveri e vulnerabili. La Bolivia infatti è il secondo paese al mondo per riserve di litio, il minerale fondamentale per le batterie, su cui multinazionali statunitensi ed europee hanno grande interesse a mettere le mani e assumerne il controllo.

Particolarmente vergognoso il modo con cui i media occidentali, fra cui anche gli italiani Repubblica e Corriere della Sera (per citare i due esempi più eclatanti), hanno trattato il colpo di Stato del novembre 2019 contro Morales, simile al modo con cui hanno tratttato la situazione del Venezuela appoggiando il fantoccio filoamericano Guaidò. Un atteggiamento sfacciatamente filogolpista , rivendicato anche da miliardari come Elon Musk, che ci ricorda come i valori e le idee per cui Nothdurfter è caduto oggi siano più validi che mai. Ma soprattutto come siano ben lontani dall’essere attuati. Un atteggiamento che ci ricorda il ruolo di propaganda mistificatoria svolto dai grandi gruppi editoriali del Paese. Continue reading

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[Carcere Trento] Detenuto si dà fuoco in cella per protesta

Da quando è iniziata la pandemia i detenuti delle carceri italiane hanno pagato un prezzo altissimo. Ricordiamo i 13 detenuti morti durante le rivolte a marzo. Una strage avvenuta nel pressoché totale silenzio e nella totale indifferenza del ministro della Giustizia Bonafede e dei vertici dell’amministrazione penitenziaria, i quali solo a fatica hanno ritenuto di dover rendere conto di ciò che è accaduto sotto la loro diretta responsabilità. E se lo hanno fatto, in ogni caso non hanno mancato di autoassolversi di fronte alla morte di 13 vite “minori”, tossici, immigrati, ladri, dannati. L’ennesima conferma – ma non ne avevamo certo bisogno- di come la giustizia sia un rapporto di classe e dove la vita di un proletario, per di più detenuto, non vale la messa in discussione delle posizioni di potere acquisite.

In seguito alle rivolte contro i detenuti ci furono feroci rappresaglie ad opera della polizia penitenziaria, come successo ad esempio nel carcere campano di Santa Maria Capua Vetere. In seguito a tali pestaggi -paragonati alla Diaz di Genova- l’ex ministro dell’Interno Salvini corse a dare solidarietà agli agenti accusati di aver commesso torture nei confronti dei prigionieri, oltre a chiedere misure più dure nei confronti dei rivoltosi, mentre di deputati del partito fascistoide Fratelli d’Italia chiese di dare un premio agli agenti sotto accusa. Sempre il partito di Giorgia Meloni non perse l’occasione -poteva essercene una migliore?- per protestare contro l’introduzione del reato di tortura. Si sa, i secondini altrimenti, non sono liberi di “operare”.

13 morti. Una carneficina che riporta ai tempi bui delle stragi ordite dal generale Dalla Chiesa contro i i prigionieri ad Alessandria nel 1974 in cui 6 detenuti furono assassinati e oltre 15 feriti.

Siamo in un paese in cui l’indifferenza nei confronti di ciò che accade nelle carceri è dilagante, favorita anche dal veleno forcaiolo che negli ultimi anni, grazie a movimenti come 5 stelle e LEGA ed alle loro espressioni giornalistiche e giudiziarie, ha disumanizzato i prigionieri, privandoli di dignità, relegati in piccole celle costantemente sovraffollate. Sulla pelle dei prigionieri si consumano i banchetti elettorali degli sciacalli più voraci. Esemplare da questo punto di vista l’arresto dell’ex militante dei PAC (Proletari armati per il comunismo) Cesare Battisti, esibito come un trofeo da parte del ministro della giustizia Bonafede e dell’allora ministro dell’Inetrno Salvini. L’accanimento politico e mediatico contro il 65enne è continuato negli anni successivi, con decisioni arbitrarie, linciaggi mediatici nel momento in cui Battisti richiedeva di poter cucinare da solo in cella per motivi di salute, ecc.

Nel carcere di Spini di Gardolo, a Trento, negli ultimi anni non sono mancati i suicidi, i tentati suicidi, i casi di autolesionismo. Tutto ciò in una situazione in cui il consumo di psicofarmaci è quotidiano e favorito in ogni modo. Ricordiamo, come circa due anni fa, in seguito all’ennesimo suicidio i detenuti esasperati furono protagonisti di una rivolta per cui circa 80 di loro sono stati rinviati a giudizio.

Detenuti nel carcere di Spini di Gardolo (Trento)

In seguito all’epidemia, la sospensione o la limitazione dei colloqui ha avuto un peso enorme sullo stato di salute psico-fisico dei detenuti, già provati dalle difficili condizioni di detenzione.

Uno degli ultimi fatti di cui si è avuto notizia dal carcere di Trento è il fatto che il 13 novembre un detenuto, dopo aver visto rifiutata la consegna di alcuni effetti personali portati dalla moglie, ha dato fuoco alla propria cella e si è dato fuoco. E’ stato portato via in ambulanza.

Oltre a ciò nel carcere di Trento:

-La posta è bloccata in entrata e in uscita

-i pacchi non entrano

-l’amministrazione non dà informazioni sui contagi

-I positivi vengono sbattuti vengono sbattuti nelle celle di isolamento punitivo o trasferiti in altre carceri

-da settimane i colloqui con i famigliari sono completamente sospesi

-Per due settimane non si sono visti medici e solo dopo una protesta con le battiture si è presentato il personale sanitario

-chi dovrebbe essere seguito con trattamenti medici specifici viene solo imbottito di psicofarmaci

A tutto ciò si aggiunge il fatto che i magistrati di sorveglianza continuano a non concedere misure alternative a chi ha requisiti per accedervi contribuendo così ad esasperare la situazione e portando molti detenuti alle estreme conseguenze (almeno 3 i casi detenuti suicidati negli ultimi anni coe conseguenza a tali rifiuti).

Rompere il silenzio riguardo a ciò che succede nel carcere di Spini è fondamentale. Rompere l’isolamento fra dentro e fuori le mura.

Nel corso di alcuni saluti fuori dalle mura del carcere di Spini la voce e la protesta dei detenuti è stata raccolta dai compagni e dalle compagne che l’hanno portata in città nel corso di un presidio in piazza d’Arogno a Trento. Qui sotto il volantino che pubblicizzava l’iniziativa.

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[Storia di classe] Un frammento della Resistenza antinazista delle donne sovietiche

La memoria legata alla seconda guerra mondiale, in Italia come nel resto dell’Europa occidentale, tende a dimenticare l’orrore di cui si resero responsabili gli invasori nazifascisti sul fronte orientale, il cui obiettivo era di fare letteralmente terra bruciata di una popolazione che condensava l’essenza di ciò che veniva combattuto da loro: il comunismo e gli slavi, considerati inferiori e contro cui non furono risparmiate le azioni più infami e criminali.

L’invasione dell’Unione Sovietica, iniziata il 22 giugno 1941 iniziò con una serie impressionante di vittorie della Wehrmacht che lasciavano presagire i più foschi scenari in un momento storico in cui gli esiti della guerra dipendevano unicamente dalla capacità di resistenza dell’Armata Rossa ed in generale della popolazione sovietica, totalmente mobilitata contro l’invasore. Nei circa 2 anni precedenti le armate di Hitler avevano vinto con una facilità disarmante gli eserciti di mezza europa e sembrava che anche l’URSS nel giro di poche settimane dovesse capitolare.

Non è stato così e grazie all’incredibile resistenza sovietica e degli antifascisti di tutta Europa è stata scritta un’altra storia.

Centinaia sono i libri scritti sull’epopea di Stalingrado e sul fronte orientale ma lo spazio dedicato al ruolo delle donne in quell’immenso movimento di resistenza popolare non è mai restituito in modo abbastanza esauriente alla memoria collettiva.

Tiratrici scelte sovietiche nell’Armata Rossa

Furono migliaia i sudtirolesi di madrelingua tedesca che parteciparono fin dall’inizio alla campagna sul fronte orientale con la Wehrmacht e dalla lettera scritta il 23 settembre 1941 da uno di loro – Franz Heinz Oberkofler- alla sorella Anna residente a Gratzen in Luttach in Val Pusteria, si evince il ruolo che le donne in Russia ebbero nella Resistenza. Una lettera scritta da un convinto nazista, il cui contenuto, contro le sue intenzioni, tratteggia la fierezza, esaltando la forza di queste combattenti, ciò che alla fine le portò a vincere sulle orde naziste:

Ora che abbiamo messo alle strette questi cani, tanto che non ci possono più sfuggire, si comincia a vederne delle belle! Ieri, per esempio, abbiamo avuto un combattimento con battaglioni, formati da donne. Bisogna vedere, con che astuzia raffinata, combattono queste puttane! Sono quasi pegio degli uomini. Lanciando dei potenti hurrà, si precipitarono sopra di noi, per sfondare le file della fanteria, che dovevano proteggere coi carri armati. Sembrava, che queste 400 furie urlanti volessero dire, assalendoci: «Se gli uomini non vengono ci siamo noi!» Finora non ho mai vissuto una giornata così interessante come ieri. Noi le lasciammo uscire per circa 100 metri dal bosco, poi venne l’ordine di fare fuoco. Aveste dovuto vedere che strage! In un quarto d’ora nessuno ha più lanciato un hurrà; si vedevano ammonticchiate a centinaia. Più della metà apparteneva ormai alla schiera di quelle fortunate, che non sentiranno mai più cantare il cuculo in primavera, il rimanente venne fatto prigioniero. Abbiamo anche avuto un bel lavoro, per alleggerire delle armi quelle sgualdrine. Quasi tutte avevano pronte nelle tasche delle granate a mano; ma erano proprio attrezzate a puntino. Naturalmente ho partecipato anch’io al controllo al sequestro delle armi. Era un vero divertimento! Non ve n’è stata una, che abbia sperso una lacrima, ci guardavano anzi sfacciatamente negli occhi, come se ci volessero divorare. Ho pensato per tutta questa notte allo strano carattere di questo popolo.”

Lettera presa dal libro di Aldo Giannuli: Dalla Russia a Mussolini 1939-1943. Hitler, Stalin e la disfatta all’est nei rapporti delle spie del regime, p. 152.

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[Processo Brennero] Condannati i compagni e le compagne

CONDANNE PER LA MANIFESTAZIONE DEL BRENNERO

La Questura ordina, la procura esegue, il giudice condanna.

Il 16 novembre 2020 presso il Tribunale di Bolzano, come ormai di consueto militarizzato con decine di poliziotti, carabinieri e celerini e questurini di tutti i tipi, sono state pronunciate le condanne contro 61 compagni e compagne imputati per aver partecipato alla manifestazione contro la costruzione del muro antimigranti al Brennero il 7 maggio 2016.

Militarizzazione del Tribunale di Bolzano in occasione della sentenza per il primo troncone del processo del Brennero. 16.11.2020

Come abbiamo già scritto, la procura bolzanina, nelle persone di Andrea Sacchetti e Igor Secco, dopo aver chiesto, come se fosse fare la lista della spesa e in una perfetta rappresentazione pratica di applicazione del diritto penale del nemico, oltre 330 anni di carcere per i compagni/e imputati nel processo per “Devastazione e saccheggio” ne aveva chiesti altri 85 per compagni e compagne imputati di reati più “lievi” ovvero interruzione di pubblico servizio, radunata sediziosa e travisamento.

Di fatto per ognuno veniva richiesto il massimo della pena possibile, prefigurando una sorta di reato collettivo, nell’evidente intento politico di intimidire e colpire chi, di fronte alle ingiustizie più inaccettabili, aveva deciso che fosse venuto il momento di dire basta.

I compagni e le compagne sono stati/e condannati/e a pene comprese in gran parte fra i 7 mesi ed i 10 mesi di arresto o reclusione per un totale di circa 37 anni di carcere.

Vogliono illuderci che la cosiddetta “giustizia” esercitata nelle aule dei Tribunali sia “neutra”, in cui uomini imparziali decidono sulla vita, e spesso sulla morte, di uomini e donne.

Nessun luogo come il Tribunale di Bolzano dimostra come ciò sia ben lontano dalla realtà che vorrebbero farci credere, il cui Procuratore generale Gianluca Bramante, amico dell’ex magistrato Luca Palamara (quest’ultimo cacciato dalla magistratura in seguito alla scoperta del sistema di influenze con cui condizionava, per non dire decideva, la nomina di procuratori e altri uomini di potere all’interno dei Tribunali di tutta Italia), dalle chat che sono state rese pubbliche, emerge come fosse protagonista di una lotta di potere all’interno del Tribunale di Bolzano avendo affermato come, appena insediatosi nei suoi uffici, aveva “decapitato gli uomini di Tarfusser”, l’ex procuratore capo a Bolzano.

Potere, influenze, ideologia, interessi economici determinano, all’oscuro della conoscenza della totalità della popolazione, le decisioni di chi decide sul bene più prezioso di ogni essere umano: la libertà. 

Certo non potevamo aspettarci da chi applica la legge, comprensione di nessun tipo nei confronti di chi intende cambiare radicalmente una società costruita su guerre, sfruttamento indiscriminato del lavoro e dell’ambiente. Mai come oggi però occorre rafforzare la solidarietà nei confronti degli imputati condannati, in un momento storico in cui settori di potere, da personaggi come Piercamillo Davigo a Bonomi di Confindustria, cercano di trarre profitto da una situazione di emergenza e che vede le possibilità di organizzazione e protesta, ridotte per decreto.

Certo siamo in un Paese in cui, come recentemente ricordato, i torturatori e i responsabili delle sevizie inflitte ai manifestanti del G8 di Genova fanno carriera all’interno della polizia mentre chi manifesta viene condannato, o meglio, perseguitato con pene fuori da ogni logica, come quelle richieste da Sacchetti e Secco per il processo del Brennero. A proposito di “neutralità”.

Dopo aver allestito un grottesco teatro con la militarizzazione del Tribunale portata avanti per anni, la Procura di Bolzano, dopo aver ripetuto in aula le dichiarazioni dei funzionari delle questure, veri e propri consulenti della Procura, doveva portare a casa un risultato per non apparire ridicola. E chi se ne importa se il delirante disegno accusatorio di Sacchetti-Secco non teneva in minima considerazione ciò che è successo realmente in quella giornata ma aveva l’esclusivo intento di assegnare più anni possibili di carcere, inventando la realtà, all’occorrenza.

Evidentemente la pressione era molta, visto che mai come oggi, per chi è tenuto a garantire il mantenimento dello Status quo, è importante togliere di mezzo ed intimidire chi si ribella e chi si organizza per resistere agli attacchi sempre più violenti contro i lavoratori, immigrati, proletari e la parte più povera della società.

Gli imputati del processo del Brennero, di fatto condannati per non essere rimasti fermi a farsi massacrare di botte dalle cariche della celere, vanno difesi, perché non si sono girati dall’altra parte mentre uomini e donne morivano e rischiavano di morire passando una frontiera. Non sono rimasti indifferenti mentre le politiche migratorie europee determinavano la morte di centinaia e migliaia di persone, nei deserti, nel Mediterraneo, alle frontiere.

I condannati di oggi, come molti condannati del passato e inevitabilmente, del futuro, vanno difesi per aver saputo mettersi in gioco, contro la consacrazione del privilegio e della disuguaglianza che avviene attraverso muri antimigranti, missioni militari, dispositivi di controllo e decreti sicurezza come quello voluto da Lega e 5 stelle e confermato dal Pd.

Vanno difesi perché hanno saputo rompere l’indifferenza in modo concreto. In un Paese come l’Italia dove storicamente e attualmente (vedi omicidio Cucchi per citare un caso recente) i depistaggi all’interno delle Questure o nelle stazioni dei Carabinieri o le violenze commesse all’interno delle carceri sono la norma, essere condannati per aver cercato di rompere il circolo vizioso della passività di fronte alle ingiustizie cui ci vorrebbero abituati è una medaglia al merito.

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[Trento] Manifestazione 6 novembre. Vietato manifestare. Denunce e fogli di via contro compagni e compagne

Da tempo era stata pubblicizzata, sul web e sui muri della città, una manifestazione a Trento che aveva l’obiettivo di contestare la gestione della crisi economica e sociale legata alla pandemia, che ha il principale obiettivo di difendere gli interessi di Confindustria e delle aziende più influenti sulla politica nazionale.

La locandina della Manifestazione

Una pandemia che sta mettendo in evidenza contraddizioni sempre più evidenti fra i ricchi e la maggior parte della popolazione, costretta a lavorare in condizioni sempre peggiori, sotto il costante ricatto della perdita del lavoro oppure, se pretendi il rispetto dei tuoi diritti, del licenziamento.

Abbiamo visto come, da tempo, lo stato d’eccezione in cui viviamo è stato colto al volo da più settori economici e di potere, per proporre riforme o leggi più repressive, che in una situazione “normale” non sarebbe nemmeno immaginabile proporre. Ricordiamo l’iniziativa del magistrato Davigo che ha proposto di far diventare la norma (già ben avviata) i processi in videoconferenza. Oppure gli interventi del presidente di Confindustria Bonomi il quale, consapevole di trovarsi di fronte a una situazione favorevole per imporre sacrifici e condizioni peggiori ai lavoratori, oltre che per portare a casa la maggior quantità di soldi possibile dal Recovery Found, chiede la libertà di licenziare e di fare contratti totalmente sbilanciati in favore dei padroni.

Va ricordato come l’industria bellica italiana riveste il ruolo del leone nel tentativo di fare incetta dei fondi europei come dimostrato dalle richieste del Governo: infatti i Ministeri della Difesa e dello Sviluppo Economico hanno presentato un elenco di progetti di carattere militare per l’ammontare di circa 30 miliardi di euro (Analisi Difesa, Fondi anche per la Difesa dal Recovery Fund, 25-09-2020). I progetti del Ministero della Difesa prevedono di spendere 5 miliardi di euro del Recovery Fund per applicazioni militari nei settori della cibernetica, delle comunicazioni, dello spazio e dell’intelligenza artificiale. Rilevanti i progetti relativi all’uso militare del 5G, in particolare nello spazio con una costellazione di 36 satelliti ed altre. I progetti del Ministero dello Sviluppo Economico, relativi soprattutto al settore militare aerospaziale, prevedono una spesa di 25 miliardi di euro del Recovery Fund. (Manlio Dinucci, Il Manifesto 13.10.2020)

Insomma mai come oggi ci sono motivi per lottare e mettere in discussione le radici strutturali del sistema economico e politico in cui viviamo, che da una parte chiede sacrifici e la rinuncia a diritti elementari mentre dall’altra promette enormi somme di denaro ai soliti industriali che negli anni hanno prosperato su guerre e sui porgetti imperialisti in Medio Oriente ma non solo. Tutto ciò, mentre negli anni la Sanità pubblica è stata sistematicamente tagliata con risorse destinate alla Sanità privata. Un’operazione ideologica che, dalla sanità alla scuola, conferma la prospettiva in cui governi di tutti colori si muovono: tutelare una minoranza di privilegiati a fronte dell’aumento di una massa sempre maggiore di esclusi, poveri, dannati.

Il 6 novembre a Trento i compagni e le compagne volevano portare in strada la necessità di riprendere in mano il proprio destino senza delegarlo a chi detiene il potere, per riaffermare che la gestione dell’emergenza non è neutra o fatta in nome di presunto “bene comune” ma nasconde lotte di potere ed economiche che si palesano nelle esternazioni dei personaggi sopraccitati oltre che nei provvedimenti concreti di governo.

Un’altra grave conseguenza che deriva dallo stato di emergenza in cui viviamo e dai decreti sicurezza approvati da Salvini/grillini e appoggiati anche dal PD, è il senso di onnipotenza e totale arbitrarietà che provano i funzionari della Questura e della polizia politica di tutta Italia, che non perdono occasione di sfoderare i manganelli e aizzare i reparti Celere contro operai e manifestanti che stanno denunciando pubblicamente, ad esempio, le condizioni di sfruttamento sempre più pesanti nei magazzini della logistica e fra i lavoratori precari come i Rider.

Anche a Trento, il 6 novembre scorso abbiamo assistito alla modalità con cui la polizia ed i carabinieri intendono gestire il dissenso ed il pensiero critico: fermi, intimidazioni e fogli di via.

Le transenne poste in via Verdi prima della manifestazione foto presa da: TrentoToday

La manifestazione, bloccata dalla polizia, (che nel pomeriggio aveva fatto transennare parti di città) non è partita. Oltre a ciò la Questura trentina non si è risparmiata nell’impiego di agenti, che hanno bloccato diverse automobili di compagni/e diretti/e alla manifestazione, i quali, senza dare nessuna spiegazione sono stati fermati, caricati sulle auto della polizia e portati in Questura dove, nell’evidente intento di intimidire e umiliare i compagni e le compagne fermati/e, sono stati/e fatti/e spogliare nudi/e e costretti/e a fare piegamenti in presenza di altri questurini.

I compagni fermati e circondati dalla celere in via Prepositura (Trento)

Trattenuti fino a mezzanotte circa, sono stati fotosegnalati e dopo aver visto sequestrato telefono e vari oggetti di uso comune presenti in auto (materiale recuperato in macchina: una cazzuola, un marker, dei guanti, un legno bruciato, una bomboletta spray, un pezzo de ferro e dei guanti da boxe!) è stato dato loro un foglio di via dal Comune di Trento. Come ha scritto uno dei compagni fermati in alcune sue riflessioni:

Ma non è finita, fra le varie carte che ci vengono appioppate (tentando di farci firmare un verbale pieno di menzogne) salta fuori pure per tuttx un maledetto foglio di via dal comune di Trento. Fermatx dalla “precrimine” e accusatx del fatto che noi ci stavamo sicuramente dirigendo alla manifestazione (vero!) e che il materiale che avevamo era atto ad offendere. Io credo che in ogni macchina si possano trovare oggetti simili, per esempio un cric dei guanti o una bomboletta spray .. articoli di libera vendita acquistabili anche da minorenni. Quindi di cosa stiamo parlando? dell’intenzione di commettere un crimine? si può processare? o peggio condannare? non è un lavoro da giudici e avvocati? No! Basti pensare agli arresti dell’operazione “ritrovo” di questa primavera a Bologna. Arresti che la questura definiva di natura preventiva, volti ad impedire tensioni sociali in tempi di crisi. Il meccanismo della repressione è semplice: il governo fa le leggi, la polizia arresta, la magistratura giudica e condanna. Questo però implica un limite che la repressione italiana non è più disposta a tollerare: il fatto che chi non accetta l’attuale stato di cose e si batte per cambiarlo, finchè non commette precisi reati, non può essere “tolto di mezzo”. Ed è qui che entrano in gioco le questure con i loro fogli di via, obblighi di firma e dimora e sorveglianza speciale. Si tratta di una serie di forti restrizioni alla libertà personale atte a punire una persona e rendere le sue azioni molto più controllabili. Il fine è il mantenimento dell’ordine pubblico e della pubblica moralità, due concetti estremamente soggettivi e aleatori: qualora il questore ritenga che qualcuno costituisca un problema politico o sociale, è autorizzato ad appioppargli la sorveglianza speciale. Detto questo è pur vero che le pinzillacchere scritte sulla loro carta straccia siano ancora impugnabili da avvocati ma la polizia questo lo sa bene, i fogli di via potrebbero essere annullati, oppure una sorveglianza speciale valutata illegittima e tutto il materiale sequestrato può essere dissequestrato. La polizia punta a spaventare, dividere e isolare, non importa se fra qualche mese o un anno tutto questo decadrà, intanto tu ti becchi una porzione fastidiosa di repressione che affossa parecchio il morale e richiede il tempo e la lucidità di escogitare difese e strategie rubando parecchio tempo e spazio ad altre lotte. Quale difesa da queste continue spine nel culo? Ognuno ha il suo metodo per sopravvivere e superare la pesantezza della repressione, ma credo fortemente che la presenza di un gruppo coeso di amici, amiche, complici e compagnx con cui condividere questo sentiero oscuro sia l’unica ricetta vincente per non sprofondare nel più totale senso di impotenza e depressione. Grazie di cuore a tuttx quellx che erano fuori dalla questura a spingersi con gli sbirri e urlare per ore. Grazie a chi si è preoccupatx e sbattutx anche da lontano. Se il morale è alto il merito è unicamente vostro. Chi ha compagnx non è mai solx!”

Ci vogliono soli e isolati. Rafforziamo la solidarietà. Rilanciamo le lotte. Che la crisi la paghino i ricchi.

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Processo politico del Brennero – aggiornamenti

All’interno di un Tribunale militarizzato, il 30 ottobre 2020 a Bolzano è proseguito, con le arringhe degli avvocati difensori, il processo del Brennero relativo ai 63 compagni e compagne con accuse “più lievi”.

Ricordiamo che in seguito alla manifestazione contro la costruzione del muro antimigranti al Brennero il 7 maggio 2016 la Procura di Bolzano, oltre ad aver condannato per direttissima i compagni e le compagne arrestati nel corso della manifestazione, ha istituito due processi distinti per la diversità delle accuse e di conseguenza per la diversa entità delle pene richieste.

Per un troncone, relativo ai compagni/e accusati di “devastazione e saccheggio” i pubblici ministeri della Procura di Bolzano Igor Secco e Andrea Sacchetti hanno richiesto per 63 manifestanti un totale di 338 anni di carcere.

Di questo troncone a circa metà degli imputati si contestano i reati di devastazione e saccheggio, concorso in resistenza, radunata sediziosa, interruzione di pubblico servizio, travisamento, porto di materiale atto ad offendere e (a una decina di imputati) concorso in lesioni gravi. Le pene chieste variano dai 7 ai 10 anni (già scontate di un terzo per via del rito abbreviato). All’altra metà di imputati si contestano – più o meno assemblati – gli stessi reati, tranne quello di devastazione e saccheggio. In questo caso le pene richieste variano dai 2 ai 5 anni.

Nel secondo troncone, altri 63 compagni e compagne sono accusati di reati che vanno dalla radunata sediziosa, travisamento e interruzione di pubblico servizio relativo al blocco del traffico ferroviario e autostradale. Le richieste di pena vanno da 1 anno e 2 mesi fino a 1 anno e 10 mesi a persona, per un totale di altri 85 anni di carcere richiesti dai solerti accusatori.

Bolzano 30.10.2020 Il dispiegamento di polizia e Carabinieri per il processo del Brennero

Soltanto il Ministero dell’Interno si è costituito parte civile chiedendo il risarcimento di 8000 euro per il danneggiamento di un auto della polizia. Sostanzialmente la devastazione di cui parla l’accusa si riduce a questo.

Si è già scritto, anche su questo blog, della valenza politica che il processo del Brennero haI pubblici ministeri Sacchetti e Secco con tali richieste di condanna folli, sproporzionate e con l’evidente intento di intimidazione e repressione ideologica del dissenso, si rendono interpreti della volontà politica di settori dello Stato di seppellire sotto oltre 400 anni di carcere alcune decine di compagni e compagne generosi che di fronte alle criminali condotte dello Stato italiano, si sono assunti la responsabilità di agire, di non rimanere indifferenti mentre le autorità dello Stato austriaco, in accordo cone le forze più reazionarie di Italia e Austria, iniziavano la costruzione di un muro al Brennero che avrebbe dovuto impedire ai profughi delle guerre del captale di giungere nell’Europa del Nord.

Proprio mentre di fronte al Tribunale di Bolzano una frase di Hannah Arendt Nessuno ha il diritto di obbedire ammonisce sui rischi a cui conduce storicamente la cieca obbedienza alle leggi e all’autorità, dentro alle aule dei Tribunali i rappresentanti dell’accusa riaffermano, con estrema violenza, che nessuna lotta e nessuna ribellione reale alle ingiustizie e alle infamie prodotte dal capitalismo – guerre, razzismo, muri antimigranti, lager per immigrati, disastri ecologici – sarà tollerata. 

Gli accusatori Sacchetti e Secco, chiedendo un totale di oltre 400 anni di carcere, si illudono di seppellire le istanze di lotta e di giustizia, lo spirito di ribellione che ha animato –  e continua ad animare – chi non si rassegna ad un mondo in cui pochi ricchi prosperano, con l’ausilio delle stutture dello Stato, sulla pelle di masse sempre più grandi di dannati costretti a scappare da guerre, povertà, miserie, disastri ecologici causati dalle politiche di sfruttamento indiscriminato del capitale. Dannati che a loro volta vengono selezionati e schiacciati (attraverso fame, torture, omicidi, stupri) dal sistema dell’accoglienza che inizia nei Lager libici, finanziati e sostenuti anche dallo Stato italiano con i decreti Minniti prima e con i decreti Salvini poi. 

Nello scorso settembre alcuni compagni e compagne imputati/e nel processo per “Devastazione e saccheggio” hanno letto una dichiarazione in cui si sono rivendicati lo spirito e le motivazioni alla base della giornata di lotta del Brennero, di cui si riporta uno stralcio:

Per quanto ci riguarda, il senso e lo spirito di quel 7 maggio ce li rivendichiamo a testa alta. Come segno di rabbia contro le mille forme del razzismo di Stato. Come espressione di solidarietà nei confronti di un’umanità braccata. E come gesto di appoggio. Verso i braccianti in lotta nel Sud Italia, verso le donne immigrate che si ribellano alla tratta, verso gli internati in rivolta nei lager della democrazia. Verso chi, ovunque nel mondo, non si scansa né transige, perché ama la libertà di tutte e di tutti al punto di giocarsi la propria.”

Mai come oggi è necessario rilanciare la solidarietà nei confronti di chi lotta. Il modo migliore per farlo è non rimanere indifferenti di fronte alle continue ingiustizie cui assistiamo per le strade o attraverso uno schermo, guardando le immagini di chi affonda nel Mediterraneo, di chi muore sotto le bombe democratiche in Palestina, Siria o Kurdistan e di chi muore cercando di passare frontiere sempre più militarizzate e che dividono l’umanità determinando la vita e la morte di sempre più dannati della terra. Chi è sceso per strada al Brennero nel maggio 2016 non voleva più di assistere passivamente a tali ingiustizie ma voleva assumersi la responsabilità di agire per impedire la costruzione dell’ennesimo muro, dopo quelli fra Israele e Territori occupati palestinesi, Siria e Turchia, Marocco ed enclaves spagnole di Ceuta e Melilla, i fili spinati fra Serbia, Ungheria e Macedonia. Muri che sappiamo producono un solo risultato: odio, razzismo, sfruttamento e consacrazione del privilegio sulla pelle degli oppressi. 

Non lasciamo passare il folle teorema accusatorio della Procura di Bolzano. Non rimaniamo indifferenti, ci riguarda a tutti e tutte. 

Dalla lotta dei pastori sardi sotto processo con i decreti sicurezza del servo  dei padroni Salvini agli oltre 400 operai della logistica sotto processo a Modena, dagli operai della Whirlpool a chi lotta nelle carceri, fino alle lotte contro le devastazioni ambientali come il TAV o il TAP, uniamo le lotte, rilanciamo la solidarietà. Non facciamo passare la repressione. 

Se toccano uno toccano tutti.

Siamo tutti sotto processo.

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Processo Brennero. Dichiarazione degli imputati davanti al Tribunale di Bolzano.

L’11 settembre 2020 a Bolzano si è tenuta, ancora una volta in un Tribunale completamente militarizzato, un’ulteriore udienza del processo che vede imputati 63 compagni/e per aver partecipato alla manifestazione contro la costruzione del muro antimigranti al Brennero il 7 maggio 2016. Dopo la lettura da parte dei compagni/e della dichiarazione sotto riportata, sono iniziate le arringhe della difesa che continueranno nelle prossime udienze del 2 e 9 ottobre. Ricordiamo che il 7 febbraio 2020 il Pubblico ministero Andrea Sacchetti ha richiesto un totale di 338 anni di carcere per gli imputati, per accuse che vanno dalla “devastazione e saccheggio” ad altri reati per una manifestazione in cui sono stati contestati circa 8000 euro di danni. A Bolzano intanto, è stato diffuso un volantino di solidarietà con gli imputati/e, che potete leggere qui.

Militarizzazione del Tribunale di Bolzano in occasione delle udienze del processo del Brennero

Per ulteriori aggiornamenti si può ascoltare l’intervento di un compagno imputato nel corso di una trasmissione su Radio Onda Rossa.

Dichiarazione davanti al tribunale di Bolzano

Ogni giorno il sistema delle frontiere stritola migliaia di persone. Quello che sta succedendo fra Siria e Turchia, fra Turchia e Grecia, nell’arcipelago dell’Egeo, al confine fra Bosnia e Croazia, nei campi di detenzione in Libia, nel Mediterraneo conferma che i muri e la caccia al povero sono il volto del nostro presente. Mentre le merci viaggiano liberamente da una parte all’altra del pianeta, gli esseri umani sono spietatamente suddivisi tra chi può passare i confini e chi no: tra i sommersi e i salvati, per riprendere le parole di Primo Levi. Prima un ordine economico – devastante nella sua logica di guerra e sempre più saccheggiatore di materie prime, ecosistemi e autosufficienza alimentare – apparecchia le condizioni per cui milioni di donne e di uomini sono costretti ad abbandonare le terre in cui sono nati e cresciuti; poi un gigantesco apparato di filo spinato, sorveglianza elettronica e campi di concentramento spinge questa «umanità di scarto» a una terribile corsa ad ostacoli; chi sopravvive alla selezione deve essere allora così stremato e impaurito da accettare qualsiasi condizione di vita e di lavoro nei Paesi in cui approda. E proprio per questo, infine, può venir additato dal razzismo istituzionale e sociale come capro espiatorio a cui addossare ogni colpa.

Quando, a fine 2015, lo Stato austriaco dichiarò la sua intenzione di costruire una barriera anti-immigrati al Brennero, le rimostranze delle istituzioni italiane riguardarono solo ed esclusivamente le ripercussioni negative che quel muro avrebbe avuto sul transito delle merci. Come emblema di un passato che non passa, la conferenza stampa sul progetto della barriera fu tenuta direttamente dalla polizia austriaca e il tutto venne presentato come una mera «soluzione tecnica» di gestione del confine. L’espressione di per sé − «soluzione tecnica» − avrebbe dovuto far ribollire il sangue.

Mentre andava in scena il balletto delle dichiarazioni incrociate tra governo austriaco e governo italiano, i controlli delle polizie sui treni OBB avvenivano già in territorio italiano e la «soluzione tecnica» era spostata più a sud. Per mesi chiunque avesse la faccia non-bianca non riusciva nemmeno a salire su quei treni, a Bolzano come a Verona. Il sistema-frontiera, d’altronde, è un dispositivo mobile, tutt’uno con le retate della polizia e con i centri della detenzione amministrativa. (E dovrebbe ben far riflettere il fatto che la stessa «soluzione tecnica» sia stata adottata mesi fa per controllare e respingere i positivi al Covid-19 tra gli autisti e i passeggeri diretti in Austria: i potenziali “infetti”, questa volta, eravamo noi).

Per tutte queste ragioni qualcuno ha bloccato più volte i treni OBB; per questo nei mesi precedenti la manifestazione del 7 maggio 2016 si è insistito da più parti sul concetto «se non passano le persone, non passano le merci»; per questo i discorsi su come far fallire la gestione di quell’abominio chiamato «soluzione tecnica».

Quello che i PM hanno presentato come una sorta di disegno ordito da qualche “capo” ed eseguito da tanti “gregari”, era semplicemente il sentimento che a quell’ingiustizia bisognasse reagire. Gli “onesti cittadini” che oggi non vogliono distinguere ciò che è legale da che è giusto – che si addormentano, cioè, in quell’obbedienza contro cui mettono in guardia le parole di Hannah Arendt («Nessuno ha il diritto di obbedire») che con grande ipocrisia le istituzioni hanno fatto collocare davanti a questo tribunale – ricordano da vicino coloro che si giravano dall’altra parte quando in questo Paese si deportavano gli ebrei e si fucilavano i partigiani.

E ora entriamo nel merito del processo. Il reato di “devastazione e saccheggio” – in quanto tale e ancor più per come è stato interpretato dai PM – deriva direttamente dal codice fascista del 1930. Aveva già fatto la sua comparsa nel 1859 con l’articolo 157 del codice del Regno di Sardegna e nel 1889 con l’articolo 252 del codice Zanardelli. Non solo, in quei casi, si faceva esplicito riferimento alla guerra civile e alla strage, ma le pene previste andavano dai 3 anni ai 15. Con il codice fascista, invece, scompare quella cosetta chiamata guerra civile, mentre la pena base prevista dall’articolo 419 parte da 8 anni. Poi è arrivata la “democrazia nata dalla Resistenza”, si dirà. Infatti. L’articolo è ancora il 419 e le pene previste sono le stesse. Ora, siccome in tal modo si raggiunge l’assurdo giuridico per cui, al suo confronto, si rischia decisamente meno con l’accusa di partecipazione a una “insurrezione armata contro i poteri dello Stato”, quello definito dall’articolo 419 è rimasto a lungo un cosiddetto reato dormiente. Uno dei pochi casi in cui è stato applicato dal 1945 alla fine degli anni Novanta sono stati i moti insurrezionali scoppiati nel 1948 in seguito all’attentato a Togliatti, moti nel corso dei quali in alcune città i partigiani sono scesi in piazza con le mitragliatrici… Oggi la soglia del dissenso accettato si sta talmente abbassando per cui si cerca di applicare – e in alcuni casi ci si è pure riusciti – il reato di “devastazione e saccheggio” a manifestazioni per le quali è addirittura grottesco parlare di “distruzioni di vasta portata”. E così arriviamo alla richiesta, formulata in questa aula qualche mese fa come se fosse una normale lista della spesa, di 338 anni di galera. Il tutto a fronte di un risarcimento danni chiesto dal ministero degli Interni di 8mila euro… Lasciamo poi agli avvocati la questione – in realtà ben più politica che “tecnica” – del modo assai disinvolto con cui si contesta a decine di persone il reato di concorso materiale e morale in resistenza e lesioni in virtù della semplice presenza a quel corteo.

Come emerge dai volantini e dagli altri materiali citati, e persino dai filmati che sono stati ossessivamente mostrati nelle scorse udienze, l’intento di quella manifestazione era bloccare le linee di comunicazione – infatti il corteo è stato caricato da polizia e carabinieri proprio mentre stava deviando verso i binari. “Se alcuni non possono passare il confine, allora non passa niente e nessuno”: certi concetti etici hanno bisogno a volte di una generosa dimostrazione pratica.

Le frontiere uccidono. Per annegamento, per congelamento, per incidenti sui sentieri di montagna o lungo le linee ferroviarie. Oppure direttamente, con il piombo della polizia, come è successo in Grecia grazie alla legittimazione di fatto da parte dell’Unione Europea. Di tutto questo non vogliamo essere complici.

A ciascuno il suo. Per quanto ci riguarda, il senso e lo spirito di quel 7 maggio ce li rivendichiamo a testa alta. Come segno di rabbia contro le mille forme del razzismo di Stato. Come espressione di solidarietà nei confronti di un’umanità braccata. E come gesto di appoggio. Verso i braccianti in lotta nel Sud Italia, verso le donne immigrate che si ribellano alla tratta, verso gli internati in rivolta nei lager della democrazia. Verso chi, ovunque nel mondo, non si scansa né transige, perché ama la libertà di tutte e di tutti al punto di giocarsi la propria.

Non ci atteggiamo a vittime della repressione. Siamo consapevoli di ciò che comporta la nostra posizione a fianco dei dannati di questa terra e contro i piani del potere.

Che il tempo della sottomissione si fermi.

Bolzano, 11 settembre 2020

Agnese Trentin, Roberto Bottamedi, Massimo Passamani, Luca Dolce, Giulio Berdusco, Carlo Casucci, Giulia Perlotto, Christos Tasioulas, Francesco Cianci, Andrea Parolari, Mattia Magagna, Sirio Manfrini, Luca Rassu, Roberto Bonadeo, Marco Desogus, Gianluca Franceschetto, Gregoire Paupin, Claudio Risitano, Guido Paoletti, Daniele Quaranta

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Proseguono i lavori di ampliamento dell’aeroporto di San Giacomo

Sono molti anni che intorno all’aeroporto di San Giacomo si consumano polemiche e si rincorrono tentativi artificiosi di tenerlo in vita, contro ogni logica, anche dal punto di vista del profitto economico visto che per anni le pesanti perdite del piccolo aeroporto sono state socializzate e fatte pagare alla collettività (mentre ovviamente gli eventuali utili se li spartirebbero i soliti noti), e già un dato del genere dovrebbe dire molto, almeno sulla memoria a breve termine di buona parte delle persone che abitano la nostra provincia. Come scriveva Alessandra Zendron nel dicembre 2015:

“L’aeroporto di San Giacomo, situato nell’area più densamente abitata del Sudtirolo, voluto da Durnwalder nel 1999, è costato finora 120 milioni ai contribuenti; ha un enorme buco di bilancio e non è mai stato sottoposto a uno studio su costi e benefici né ad una valutazione di impatto ambientale.”

Il 12 giugno 2016 si tenne in Alto Adige un referendum popolare consultivo sul disegno di legge “Norme sull’aeroporto di Bolzano” che vide la vittoria del No con il 70% e di conseguenza coloro che si opponevano alla partecipazione pubblica in un progetto come l’ampliamento dell’aeroporto di Bolzano, già ora destinato principalmente ad una ristrettissima minoranza di persone a reddito altissimo, poterono, almeno in linea teorica, dire di aver vinto.  Una vittoria che sembrava avesse messo definitivamente la parola fine su un progetto fallimentare in partenza, a maggior ragione in un momento storico come quello attuale, in cui la distruzione dell’ambiente, già pesantemente compromesso, è all’origine delle cicliche crisi, economiche e sociali, che stiamo vivendo.

L’esito del referendum determinò, da parte della Provincia, la cessione della società di gestione dell’aeroporto ABD Airport Spa alla società ABD Holding Srl dell’amministratore Josef Gostner, di cui fanno parte anche l’imprenditore austriaco Hans Peter Haselsteiner, proprietario della Strabag, gigante delle costruzioni a livello europeo e azionista di maggioranza della società privata di trasporto su rotaia Westbahn, ma anche la ben nota, a Bolzano, società SIGNA holding, gestita da Peter Hager e dal milionario austriaco Renè Benko, questi ultimi già coinvolti nel progetto Waltherpark, venduto ai cittadini, fra mille forzature, come opera di riqualificazione del centro storico, contro il “degrado”. Ricordiamo inoltre come in Germania la società SIGNA sia coinvolta in operazioni commerciali che stanno portando al licenziamento di migliaia di lavoratori.

Insomma a Benko e alla borghesia locale serviva, e serve, uno scalo più ampio per le proprie operazioni commerciali e i propri progetti imprenditoriali. Un’operazione supportata anche personaggi pubblici come Reinhold Messner, il quale, dopo aver a suo tempo supportato l’opera di devastazione ambientale del Tunnel di base del Brennero, non smentì il proprio opportunismo affermando come l’aeroporto, in una provincia che solo nel 2018 ha ospitato circa 33 milioni di turisti, fosse fondamentale per un ulteriore sviluppo del turismo.

Oltre allo spreco di risorse economiche, il tema che destava, e che desta, maggiori preoccupazioni fra la popolazione era la questione dell’inquinamento atmosferico ed acustico che un aeroporto di maggiori dimensioni avrebbe inevitabilmente comportato.

Così scriveva nel 2016 Argante Brancaglion, membro del comitato No Aeroporto, dopo aver ricordato le costanti pesanti perdite economiche dello scalo bolzanino, in un articolo su Salto ricordava:

Il Comitato NO_AIRPORT.BZ Komitee e i suoi componenti sono veramente molto preoccupati per le emissioni che ricadono sulle zone sorvolate dagli aeroplani. Gli inquinanti cadranno sulle case abitate anche da bambini, sulle campagne e la loro produzione. Siamo soprattutto preoccupati per lo spray di kerosene che gli aerei rilasciano dietro di se e che gli abitanti di S. Giacomo sono costretti a respirare e mangiare ogni giorno. Siamo anche preoccupati per l’ambiente in generale, la terra è malata, il clima sta cambiando, c’è urgente bisogno di una inversione di tendenza sui consumi, ritmi di vita e sull’uso che si fa delle risorse.”

L’aeroporto va ad inserirsi, ricordiamo, in un contesto già provato da un forte traffico stradale e autostradale, dall’inceneritore e dalla discarica, oltre che dalla coltivazione intensiva di mele che, come ben dimostra la lotta contro i pesticidi degli abitanti di Malles, non sono proprio il simbolo di una natura incontaminata.

Nel 2020, seguendo un copione già visto dopo la bocciatura del progetto Benko da parte del consiglio comunale di Bolzano nel 2015, dopo la vittoria del “fronte del No” al referendum e manifestazioni partecipate da centinaia di persone, arriva la notizia che i lavori per l’ampliamento della pista di atterraggio dell’aeroporto proseguono e le ruspe si mettono subito al lavoro per ampliare la pista di atterraggio e costruire nuove recinzioni, come si vede dalle foto. 

9.9. 2020 Foto del dei lavori di ampliamento della pista di atterraggio dell’aeroporto di San Giacomo di Laives (Bz)

Il piano della ABD holding della triade Gostner-Haselsteiner-Benko prevede l’allungamento di 130 metri della pista, per consentire l’atterraggio e il decollo di velivoli capaci di trasportare un maggior numero di passeggeri. Un progetto fallito in partenza, risultato di un modello devastante e distruttivo di sviluppo, basato sull’ipersfruttamento di risorse e ambiente, come ben sa chi ha un minimo di memoria e chi ricorda la fine che hanno fatto le varie compagnie che hanno gestito voli nello scalo bolzanino. A maggior ragione in una città che vede a pochi chilometri scali importanti come Verona, Milano, Innsbruck e Monaco.

Una decisione che conferma come a nessuna volontà popolare, espressa attraverso forme di democrazia diretta come il referendum oppure attraverso dure lotte popolari come in Val Susa, è permesso opporsi agli interessi del grande capitale, di coloro cioè che detengono potere economico e che sanno muovere con sistematica lungimiranza le proprie pedine nella rappresentanza politica e nella società.

Un’operazione che si svolge in una situazione al momento paradossale dove i lavori di ampliamento proseguono anche senza un via libera definitivo da parte del Consiglio di Stato e che stanno di creando un dato di fatto di fronte a cui l’esito della decisione del Consiglio appare scontato. Una situazione che conferma come il profitto di pochi conti più della salute di molti e di come, ancora una volta, l’opposizione dei rappresentanti politici a progetti del genere sia soltanto una formalità espressa per salvare la faccia di fronte ai propri elettori e recitare poi la parte della vittima di fronte ai “superiori”. Una situazione che conferma come sia necessario lottare per difendere la propria salute, il bene più prezioso che non si può delegare a nessun rappresentante ma che occorre difendere in prima persona contro sciacalli politici ed economici che mettono il profitto economico prima di ogni altra cosa.

Infine non ci possiamo certo stupire se chi mette il profitto al di sopra di ogni altra cosa calpesta ogni giorno ogni barlume di mobilitazione popolare in un paese, in una provincia, in cui da oltre un decennio sono in corso i lavori per una delle più grandi truffe che il grande capitale abbia mai rifilato alla popolazione: il TAV e il BBT, che stanno assorbendo decine di miliardi di euro a fronte di una prospettiva di sviluppo capitalistico sempre più distruttivo e devastante. La pandemia attualmente in corso è soltanto un sintomo di una malattia ben più vasta che se non ci affrettiamo a voler curare in modo drastico finirà col distruggerci.

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