Quando sui giornali leggiamo di “brillanti operazioni” antidroga o presunte associazioni a delinquere a fine di spaccio siamo poco abituati a chiederci chi siano le persone sbattute in prima pagina e messe alla gogna, spesso considerati, in quanto tossicodipendenti, alla stregua di rifiuti sociali. Al di là di alcuni casi in cui vi è la presenza reale di criminalità organizzata, molto spesso a finire nella rete che viene costruita, a volte inventata di sana pianta, dal magistrato di turno, sono piccoli consumatori, persone la cui vendita e consumo di sostanze avviene all’interno di reti amicali o di conoscenti. Persone a cui vengono rifilate con una facilità disarmante numerosi anni di carcere in disegni accusatori costruiti su intercettazioni, allusioni e interpretazioni, spesso degne di film fantasy.
Una di queste roboanti operazioni, supportate dalla grancassa mediatica, fu l’operazione antidroga Sinergy, condotta congiuntamente da polizia e carabinieri nel novembre 2007 e che portò all’arresto, fra Trentino-Alto Adige e altre regioni, di 48 persone, gran parte delle quali poi trasferite nelle patrie galere.
Dopo le notizie di cronaca solitamente non sappiamo più nulla, che fine fanno le persone accusate, come la loro vita venga sconvolta, come una debolezza venga trasformata in una pena draconiana da scontare.
Una delle persone coinvolte nell’operazione, Agnes Schwienbacher, si è decisa, dietro sollecitazione, fra gli altri, di Peter Oberdorfer, a raccontare, nel libro Rinchiusa-Unrecht pubblicato dalle edizioni Raetia, così come nel corso della trasmissione Malaerba su Radio Tandem, come la propria vita venne sconvolta dall’arresto, dal carcere, dai processi, in cui scoprì cosa cosa significa trovarsi improvvisamente in balia degli eventi, pedina di un disegno scritto da altri in cui le forze impari in campo non permettono un’adeguata difesa. Un libro prezioso che permette di leggere e conoscere il punto di vista di chi in tali operazioni rischia di finirci stritolato, a maggior ragione se rimane isolato.
Copertina del libro di Agnes Schwienbacher “Unrecht”
Un libro che ci racconta l’importanza di mantenere vive e salde le relazioni di solidarietà, oltre alla necessità di sapere leggere criticamente ciò che avviene fra le righe di un fatto di cronaca, con le sue inevitabili implicazioni di classe.
Dopo l’arresto, avvenuto in una notte del novembre 2007 nella sua casa della Val d’Ultimo, Agnes apprende ciò che è successo nel suo complesso da una articolo che le viene mostrato da una compagna di cella nel carcere La Dozza di Bologna che le permette di inquadrare la situazione:
“Erna mi mostra un articolo di giornale del 14 novembre 2007: operazione Sinergy: carabinieri e polizia portano alla luce presunto giro di droga in Trentino […] Oltre al testo ci sono foto in quantità degli imputati, a me sconosciuti. Vedo anche una mia foto, ci sono anche il mio nome, la mia età, il luogo di residenza. […] Mi sento alla mercè della giustizia. Studio il mio atto di accusa. Deve esserci una ragione, una qualche logica, se muovono un’accusa nei miei confronti. […] Pezzo per pezzo ricostruisco le mie telefonate e gli scambi via SMS delle ultime settimane e mesi. Nel mio atto di accusa ci sono anche le vicende degli altri imputati. Non conosco nessuno di loro. E mi si rizzano i capelli in testa per tutto ciò di cui mi si accusa. Sono tantissime le traduzioni e interpretazioni che non corrispondono al vero. Ogni cosa di cui ho parlato per loro è droga. Tutti gli interlocutori sono miei clienti che non hanno nulla a che fare con la questione.”
Un’esperienza tragica in cui Agnes racconta come riuscì a salvarsi dal tritacarne dei Tribunali e delle galere, e dal disinteresse degli avvocati d’ufficio:
“Il 14 febbraio 2008 in Tribunale a Trento. […] Giudice, Pubblico Ministero e cancelliere sono già in piedi davanti a me. Come avevo già scritto al mio avvocato, metto in chiaro i fraintendimenti e le traduzioni errate riportate nel mio atto d’accusa. Sono accusata di essere stata in possesso di mezzo chilo di eroina. L’imputazione, stando all’atto di accusa, nasce dal fatto che il giorno X il signor X sarebbe stato beccato con quasi un quarto di chilo di eroina e al telefono avrebbe detto a qualcuno: Lei non mi ha dato enanche la metà della cosa. Si è concluso che s’intendeva fossi io ad avergli dato quel quarto di chilo e che avessi dovuto avere un ulteriore quarto. Invece si trattava di soldi. […] Il 6 maggio 2008 […] a causa del traffico di stupefacenti mi vengono inflitte una pena detentiva di 4 anni e 2 mesi e una pena pecuniaria di 24.000 euro”.
Parte centrale del libro è l’esperienza del carcere, la privazione della libertà, l’inattività forzata, la lontananza dai propri affetti, la vita sul letto a causa della mancanza di spazi, la mancanza di uno spazio per sé, riservato. Il Natale trascorso lontano da casa, lontano dai propri figli. Il funzionamento del carcere, la burocrazia, il consumo di psicofarmaci, le domandine per fare ogni cosa, il sovraffollamento, la mancanza di attenzione per la cura della salute.
Ma uno spazio importante è riservato anche alla triste esperienza nella comunità terapeutica Il sorriso in cui non le era permesso scrivere le lettere nella propria madrelingua, costretta dalla direzione della comunità a leggere davanti a loro il contenuto della propria corrispondenza e a parlare al telefono solo in italiano e solo in presenza dgli operatori. Un periodo in cui fra le altre cose apprende l’ulteriore inasprimento della propria condanna:
“21 marzo 2009 […] Il maresciallo mi porta la sentenza del Tribunale. Prevede non quattro anni di reclusione, ma sei anni e tre mesi. Quindi non sarò libera prima del 24 gennaio 2014. Oh Dio, che altro è successo ora? Apprendo che a Verona mi avevano dato due anni di reclusione con la condizionale per i fatti dell’epoca [detenzione 5 grammi eroina]. Ora devo scontare anche quelli.”
La situazione in cui si trova Agnes è resa ancora più difficile dal fatto che i processi avvengono solo in italiano, così come le carte dei tribunali. Oltre a ciò la sua inesperienza e tendenza a fidarsi di avvocati poco impegnati la porta in una situazione ancora più difficile:
“Apprendo che inconsapevolmente e in buona fede ho sottoscritto alla mia avvocatessa che riconosco la mia accusa ovvero ammetto la mia colpa. Mi sono fidata di lei e la mia conoscenza dell’italiano era inadeguata. Venne così avviato il patteggiamento vale a dire: rinuncia alla difesa. Le imputazioni errate non sono mai state evidenziate non lo saranno mai. La sentenza è definitiva. Non si può tornare indietro. Sono finita in un vicolo cieco.”
Nel libro è poi raccontato il ritorno a casa, il confronto con i paesani sull’ingiustizia subita, il periodo trascorso ai domiciliari, l’incontro, purtroppo tardivo, con un avvocato che si prese a cuore la sua situazione, Bonifacio Giudiceandrea di Trento.
Nel corso della sua dura esperienza, Agnes non manca di sottolineare il ruolo deleterio che le carceri hanno e le terribili conseguenze a cui la detenzione porta:
“Guarda un po’, sono solo pochi giorni che siamo in cella solo in due, che già ci stipano dentro una terza detenuta. Oh no! Di nuovo pressate come sardine! Ben presto mi ritorna la claustrofobia. Non mi va più! Il mondo sarebbe così grande e loro ci chiudono in gabbie così strette. Orrore! Chi lo stabilisce? La gente è fuori di sè! Non dovrebbe essere una rieducazione? Dov’è la dignità umana? Sono sempre più sicura: il carcere provoca le persone, porta al crimine!”
La rabbia per le condizioni di vita sia accompagna anche alla presa di coscienza della necessità di lottare per cambiarle, come Agnes scrive nell’occasione di una visita di Marco Pannella nel carcere La Dozza:
“Le detenute protestano insieme a Marco Pannella con una battitura annunciata. Tre volte al giorno in tutte le celle si picchia per una mezz’ora e si fa baccano. La battitura si può udire anche dal carcere maschile. Alcune detenute trovano la battitura inutile. Il signor Pannella non si arrende, indice anche uno sciopero della sete. […] Tutti i detenuti di tutta Italia dovrebbero avere il coraggio come quello di Pannella. Non ce l’ho neanche io. Se tutti facessero uno sciopero della fame, magari per un mese, se tutti i carcerati si ribellassero, allora sicuramente crollerebbero tutti i muri. A quel punto lo stato di polizia non avrebbe più potere. Quindi si potrebbero ristrutturare tutte le prigioni, ad esempio come centri culturali. La mia fantasia non conosce confini. La realtà è diversa. Fintanto che non tutti faranno causa comune, nulla cambierà.”
Un bel recente ritratto di Agnes Schwienbacher
Un libro da leggere, per conoscere la realtà delle carceri italiane ed il tritacarne dei tribunali, implacabile con la povera gente, con chi tira a campare, con chi si trova già in situazioni di difficoltà economiche o con chi mette in discussione lo stato di cose presenti. In tal senso la storia di Agnes è esemplare, la sua condizione di donna di madrelingua tedesca, con problemi di dipendenza nonché economici, è rappresentativa anche della popolazione carceraria costituita in gran parte da persone povere che non si possono permettere un avvocato che sappia affrontare una difesa in modo adeguato. Ma è anche rappresentativa di chi fa parte di una minoranza linguistica, fattore che porta con sè l’inevitabile aumento dell’asimmetria, già di per sè evidente, fra chi accusa e chi viene accusato.
Ringraziamo Agnes di avere scritto questo bellissimo libro sapendo affrontare pubblicamente anche i pregiudizi sociali che spesso l’esperienza del consumo di droga porta con sé. Un libro che permette di guardare con occhi nuovi ai fatti di cronaca che riempiono le pagine dei giornali e che contribuisce a vedere la persona, con i suoi problemi e le sue difficoltà, dietro alla foto segnaletica o ai titoli roboanti dei giornali che spesso accompagnano le campagne “antidegrado” imbastite e fomentate anche da politici in cerca di facile consenso sulla pelle dei più poveri e dei più vulnerabili.