[Memorie di classe] “Il battito di una farfalla in val di Mazia….” Ricordi dalla sezione meranese del PCI

Dove si racconta di un Partito che non esiste più, di un’amena città di frontiera e di un giovane perduto tra le montagne della morte

Devo essere sincero. Non sono più così convinto della mitologica epopea del Partito Comunista Italiano.

A quel tratto della mia vita in cui vi militai, in una piccola città di frontiera, non avevo mai dedicato un serio sguardo retrospettivo; anche se è innegabile che per me abbia costituito un percorso di formazione, una sorta di magnete capace di attrarmi anche in seguito, verso la partecipazione politica attiva.

Che ero di sinistra lo compresi all’improvviso in una torrida giornata di maggio, presso un’aula delle scuole medie Segantini, in via Trenta aprile a Merano. Verso la fine dell’anno scolastico era consuetudine dei professori concedersi qualche divagazione dal rigido canovaccio dei programmi ministeriali. Giusto per snocciolare, in rapida carrellata, una serie di eventi storici a noi un po’ più prossimi di Menenio Agrippa o di Enrico Primo, l’Uccellatore di Sassonia.

Così seppi in pochi istanti di quel fenomeno chiamato Rivoluzione industriale, della nascita del proletariato urbano inglese, del feroce sfruttamento in nome dell’accumulazione, della diaspora dalle campagne verso la miseria dei nuovi ghetti urbani, dell’alienazione della fabbrica e dell’idolatria verso il nuovo Dio-Macchina.

Ma anche della nascita del mutuo aiuto e della solidarietà di classe, del luddismo e delle Gilde operaie, delle lotte per arginare lo strapotere dei padroni, delle teorie di un certo Carlo Marx e del suo amico Federico. Fu come un’illuminazione: Minchia! Ma allora erano tredici anni che mi prendevano per il culo!

Ora lì per lì non ricordo bene come concretizzai quello slancio. Ricordo però lo sguardo di malcelata compassione che l’anziano bidello riservava ai miei goffi comizi da corridoio.

L’occasione per farmi sotto arrivò per me solo dopo diversi anni, verso la fine delle scuole superiori.

Era in voga a quell’epoca in Sudtirolo, la tradizione di sottolineare la propria rigorosa appartenenza etnica con la deflagrazione di cariche di tritolo. E non che poi nella quotidianità abbondassero le occasioni per socializzare con i coetanei dell’altro gruppo etnico, tutt’altro. Il nostro istituto per fare un esempio, era in un Polo scolastico multilingue, ma i corridoi che ci collegavano con le scuole tedesche erano chiusi a chiave, gli orari della ricreazione e di uscita erano sfalsati, i gruppi sportivi e i luoghi ricreativi erano diversificati. Tutto purchè non ci si incontrasse mai. Un sostanziale regime di Apharteid morbido e non dichiarato. Lo spauracchio più grande delle classi dirigenti era la GemischtKultur, l’esistenza dell’altro gruppo etnico era tollerata a malincuore. Bisognava blindarne i confini e limitare le contaminazioni, così si controllavano meglio i consensi agitando lo spauracchio del “diverso”.

Fine anni 80 : Manifestazione in piazza del grano a Merano

Noi a dire il vero c’eravamo non poco rotti i coglioni di quella faccenda, semplicemente non era storia nostra, non avevamo ancora vent’anni e sul rancore prevaleva la voglia di stare insieme. Volevamo conoscerci, discutere, innamorarci, anche se facevamo un po’ di fatica a comprenderci.

Così nacque il Comitato interetnico studentesco, le assemblee nelle scuole con i boicottaggi dei presidi bigotti, i primi volantini, le riunioni fiume e le manifestazioni.

Fu breve ma intenso e ci rimase addosso una strana carica galvanica. Con un piccolo gruppo continuammo a vederci, più che altro in biblioteca o in qualche stanzetta messa a disposizione dalla CGIL.

All’epoca ero onnivoro e in preda ad una bulimia cannibale; mi nutrivo dei testi di Renzo del Carria ,e sognavo proletari senza rivoluzione, leggevo Balestrini e Franco della Peruta, ma anche libri come Mara Renato ed io di Franceschini; mi inabissavo nella storia dei movimenti studenteschi del 68 e del 77, evocavo l’orda d’oro con qualche migrazione caraibica da manuale Guevarista. Spesso vagavo tra le giungle vietnamite, ma con frequenti incursioni nei tropici del miraggio sandinista. Quella febbre rossa mi esaltava, evocava in me rivolte e libertà indicibili, muscolosi picchetti notturni e amori guerriglieri su imbarcazioni d’Orinoco. In preda a questo stato si può arrivare a tutto, persino a infliggersi il tormento dei canti del movimento di liberazione dell’Angola.

Dato un simile quadro clinico, appare evidente che l’ entrare nelle file dell’austero Partito Comunista cittadino non mi passasse neppure per la mente, perché, come sottolineava pure il poeta genovese, a un Dio Fatti il culo non credere mai!

Però, c’era un però, eravamo pur sempre a Merano, l’amena località termale casa di cura a cielo aperto di decrepiti benestanti bavaresi. E a noi sembrava di soffocare. Dove volgere lo sguardo? Dov’era l’uomo in rivolta, o quantomeno gli attivisti residui delle passate generazioni? Perché nulla si muoveva nella capitale dello Jaegermeister e delle partite di Hockey su ghiaccio?

Così cedetti, io sventurato risposi. Furono le lusinghe persistenti di Luigi, il più erudito tra noi, l’unico che forse Marx lo aveva letto veramente, invece di evocarne a caso visioni di spettri vagabondi.

Fu allora che oltrepassammo la soglia di via Portici 204, dove si narravano le gesta del compagno Carraro che respinse l’assalto dei fascisti, armato soltanto di una sedia. Come sede diciamolo, era una vera schifezza, quattro tavolacci instabili con sedie d’ordinanza su un pavimento di legno sghembo e manifesti elettorali di discutibile attrattiva alle pareti. Ma nell’angolo in basso a sinistra, formidabile e gagliardo, anche se non di primo pelo , il ciclostile a matrice d’inchiostro. Il vero sex appeal dell’inorganico! Forse fu lì che c’innamorammo, e detto fatto fondammo la Federazione giovanile Comunista, occupando militarmente uno sgabuzzino maleodorante, le cui pareti si popolarono in breve di graffiti allucinati e ritratti beffardi dei padri fondatori.

Forse non lo dovrei dire, ma quel posto mi è rimasto nel cuore, non foss’altro perché è li che feci per la prima volta l’amore, sotto un torvo ritratto di Palmiro Togliatti a cui qualcuno aveva proditoriamente disegnato un cazzo in testa.

Lavoro politico nell’austera sede del PCI in via Portici

Ora non vorrei dilungarmi, però credetemi le riunioni serali del direttivo cittadino non sono annoverate negli archivi dei miei ricordi, alla la voce “Pelle d’oca”. Però in quegli anni ci demmo da fare, agli inizi eravamo quasi tutti italiani, Luigi, Sonia, Stefano, Gianluca, Marina, Claudio, Patrizia, Alessandra, Maria e altri di cui non ricordo il nome, un gruppo poco nutrito di quarantenni miglioristi e i “vecchi”, la vera ossatura della sezione. Tra loro capitava talvolta pure qualcuno che provasse a buttarti li “ anche le cose buone che aveva fatto il compagno Stalin”. Però alla fine, per una questione di affetto erano proprio i vecchi che mi piacevano di più. Quei testardi e permalosi organizzatori di feste dell’unità al Cavallino Roessl, dove la cosa più giovanile che ti potesse capitare era un giro di liscio sulla pista da ballo. Soprattutto mi piaceva Vladimiro, un medico in pensione appena trasferito da Roma che curava la gente senza soldi e senza diritti ed era capace di scegliere le parole giuste per arrivarci al cuore. Ironia della sorte fu proprio il cuore a tradirlo e ci lasciò soli nel pieno di un Congresso Provinciale.

Poi c’erano i transfughi , quelli che si raccoglievano intorno alla figura di Alexander Langer e alle liste dei Verdi, la scena politica più interetnica della sinistra sudtirolese. Via via iniziò allora a manifestarsi una realtà alternativa che prima non ero stato capace di vedere, a volte magari dai tratti un po’ altezzosi o maledetti, come i gruppi più artistici del Theater in der Klemme, o i circoli dei punk tedeschi di Lana o Cortaccia.

Intanto la vita di Partito procedeva e noi eravamo diventati maestri inchiostratori emuli del Piranesi, capaci di dare vita a diversi numeri di riviste che non mi dispiacerebbe avere ora tra le mani. Alice Resiste, fu l’ultima nostra creatura, ma già avevamo litigato tra di noi, in osservanza al dogma che vuole ogni movimento di sinistra , consumato tra faide intestine e scissioni molecolari.

Ricordo però raccolte firme a profusione, interviste radiofoniche con Gigi Bortoli ed Enzo Nicolodi, campagne elettorali in cui eravamo sempre i primi dei non eletti, affissioni notturne con bagni di colla incorporati, viaggi epici per interscambi culturali con la gioventù socialista dell’isola di Tenerife, cene di gala coi dirigenti romani, tra cui riaffiora ancora l’inspiegabile voracità del compagno Fassino.

Un giorno per puro sfregio, durante l’affollatissima festa della città, issammo da una finestra di via Portici, il bandierone dell’Unione Sovietica a garrire indomito nel cielo. Ricordo distintamente che i commercianti del centro storico aprirono la caccia all’uomo, e credo ci volessero proprio ammazzare. E dire che mi era sempre stata sul cazzo l’Unione Sovietica.

Una volta, mi pare fossero le elezioni europee, dalla sede di Bolzano ci fecero sapere che serviva un volontario per fare da ispettore di seggio. Si trattava di presenziare allo spoglio elettorale e comunicare in tempo reale tramite telefono a gettoni, i risultati direttamente a via Botteghe oscure. Insomma una forma primordiale di exit poll. Potevo farmi scappare un’occasione così ghiotta?

Solo il giorno seguente mi comunicarono che la destinazione del mio slancio volontario era l’oscuro abitato di Mazia, villaggio tra i ghiacci eterni a 1700 metri di altitudine, nelle alpi retiche, al termine di un incubo di tornanti chiamato strada. Nessun mezzo pubblico arrivava fin lassù, così dovetti appoggiarmi ad una prosperosa massaia di Malles che ogni tanto organizzava un servizio navetta. Nel viaggio proferì solo una frase, ma dal suono vagamente sinistro: cosa fare tu lassù, che qvelli restano isolati là per dieci mesi all’anno? L’impatto coi residenti non deluse infatti le aspettative, e fui accolto dal lancio di sfere di sterco da parte di orde di bambini deformi. E da quell’allegria di sguardi tipica delle taverne transilvane quando nomini a voce alta il nome del conte Vlad. Mi barricai nella camera dell’osteria a leggere Pavese, ma più che altro a temere per la mia vita.

Allo spoglio delle schede sulle prime rimasi interdetto; credevo di masticare un po’ di tedesco ma non ero preparato alla ricchezza arcaica di linguaggi sopravissuti a svariate invasioni barbariche. Nessuno mi rivolgeva la parola, ero un puro oggetto del disprezzo colletivo. Io però ero pronto a tutto, non potevo esserre arrivato lassù tra i Carpazi a rischio della mia stessa vita, per rimediare un pugno di mosche. Mi vedevo umiliato e offeso da intere commissioni disciplinari pronte a invocare il mio trasferimento coatto nelle taighe siberiane. Cosi bleffai dicendo loro che se non mi comunicavano in idioma a me comprensibile, i dati elettorali, avrei telefonato al segretario Occhetto in persona, e quello non era mica uno che scherzava. La minaccia stranamente non li persuase, e fu solo un timido professore calvo, presumibilmente ecologista, che si mosse a pietà rivelandomi gli agognati risultati.

Al solito la posta se la divisero Silvius Magnago ed Eva Klotz, con un voto ai verdi ascrivibile all’ambientalista calvo, e un più misterioso voto all’MSI. A tarda notte uscii per correre a rifugiarmi nella mia camera. Per un attimo incrociai lo sguardo di un carabiniere di guardia al seggio.

Cartoline dal ridente paese di Mazia

Questo è tutto, una manciata di ricordi buttata sul tavolo a casaccio e poi arrivò la svolta della Bolognina come una doccia fredda, le tre mozioni di Occhetto, Ingrao e Cossutta, l’agonia delle votazioni nei vari circoli e la morte sopraggiunta per consunzione del paziente.

A distanza di tanti anni però nessuno potrà togliermi la convinzione che l’inizio del declino del glorioso Partito non risiedesse proprio là, nella follia di quella scelta di un campione azzardato per la valutazione dei futuri trend elettorali.

Come si dice, il battito di una farfalla in val di Mazia, può provocare il crollo del muro di Berlino.

Marco

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