Dal fronte interno israeliano. Intervista a un professore di storia “traditore”

Verso la fine di gennaio 2024 Seif, un uomo di origini algerine che vive da oltre 20 anni in Italia subisce una perquisizione “alla ricerca di armi ed esplosivi” da parte dei poliziotti del Nucleo antiterrorismo per via di un post pubblicato su Instagram in cui esprimeva la propria rabbia per il genocidio in corso a Gaza.

La perquisizione dà esito negativo tuttavia viene portato in Questura. Lì gli chiedono di mostrare i contenuti del suo telefonino, controllano Whatsapp, il suo profilo Instagram, le sue conversazioni e la sua galleria fotografica. A causa di questa operazione poliziesca Seif è stato licenziato dal liceo Chateubriand di Roma in cui lavorava come assistente educativo e ora è stata aperta una procedura per la revoca del suo asilo politico. Un episodio che rientra nel clima di guerra e di criminalizzazione del dissenso che stiamo vivendo e in cui la sola espressione delle proprie opinioni può avere conseguenze pesantissime sulla propria vita, con tanto di perquisizioni della polizia politica, perdita del posto di lavoro e, per chi è di origini straniere e quindi sottoposto al ricatto del permesso di soggiorno, alla possibile revoca dei documenti che consentono di vivere “regolarmente” sul territorio. 

Alcune settimane fa avevamo pubblicato l’articolo “Dal fronte interno israeliano – Testimonianze contro il genocidio del popolo palestinese” in cui avevamo già accennato la vicenda di Meir Baruchin, insegnante di storia israeliano pacifista. Ora traduciamo una sua intervista pubblicata il 9 febbraio sul giornale online +972 che restituisce bene il clima di odio che esiste nella società israeliana contro dissidenti, anche i più moderati, considerati traditori, nemici interni da emarginare o eliminare, come i palestinesi. Storie da conoscere perchè rilanciare la solidarietà internazionalista e sostenere chiunque si opponga alle politiche di sterminio del proprio Governo è il dovere di ogni antimilitarista, oltre ogni frontiera. Il genocidio nei confronti del popolo palestinese a Gaza va di pari passo con la guerra sul fronte interno, per intimidire, annullare e cancellare ogni forma di pensiero critico.

Come Israele ha trasformato un insegnante in un traditore

di Oren Ziv, 9 febbraio 2024


I post sui social media riguardanti il 7 ottobre lo hanno fatto licenziare, arrestare e sbattere in prigione. Ora Meir Baruchin deve lottare per tornare in una scuola che lo vuole fuori.

Immaginate la scena: un insegnante liceale di 62 anni un giorno entra nella scuola e viene accolto da una protesta premeditata di studenti che si rifiutano di frequentare la sua classe. “Figlio di puttana!” gli urla uno studente. “Cancro!” grida un altro. “Puttana!” grida un terzo, mentre altri studenti sputano per terra davanti a lui.

 

Nel video sopra sputi e insulti al professore rientrato a scuola dopo la sospensione

Questo è stato il saluto che Meir Baruchin ha ricevuto il 19 gennaio, giorno in cui è stato reintegrato nel Liceo Yitzhak Shamir della città centrale israeliana di Petah Tivkah dopo essere stato licenziato, arrestato e rinchiuso per quattro giorni in isolamento in un carcere di massima sicurezza. Il suo reato? Due post su Facebook l’8 ottobre – il giorno dopo che i militanti guidati da Hamas hanno massacrato più di 1.100 persone nel sud di Israele e Israele ha iniziato a bombardare la Striscia di Gaza – in cui ha condiviso una foto di bambini palestinesi uccisi in un attacco aereo israeliano e ha implorato di “fermare questa follia”, mettendo in guardia da un crescente spargimento di sangue in Cisgiordania.

In un’udienza tenutasi 10 giorni dopo presso il Comune di Petah Tikvah, che impiega tutti gli insegnanti delle scuole pubbliche della città, Baruchin è stato accusato di “condannare i soldati dell’IDF, denunciare lo Stato di Israele e sostenere atti terroristici” e licenziato dal suo incarico. Alla ricerca di un’ulteriore punizione, il Comune ha anche presentato una denuncia alla polizia per il comportamento di Baruchin, che è stato arrestato meno di un mese dopo con il sospetto di “rivelare l’intenzione di tradire il Paese”.

Baruchin è stato infine rilasciato su cauzione e il 15 gennaio il Tribunale del lavoro regionale di Tel Aviv ha stabilito che era stato licenziato ingiustamente. Il Comune ha fatto ricorso contro la sentenza del tribunale e il procedimento legale prosegue nonostante il suo reintegro sia avvenuto il mese scorso. Sebbene la preside della scuola, Rachel Barel, abbia chiesto uno “sforzo legalmente fattibile per impedire il suo ritorno”, nel frattempo la scuola ha accettato che Baruchin riceva il suo stipendio mentre insegna a distanza, registrando lezioni di educazione civica per gli studenti del 12° anno che si stanno preparando per gli esami di maturità di quest’anno.

Mentre i cittadini palestinesi di Israele hanno affrontato una persecuzione dilagante dall’inizio della guerra, il caso di Baruchin dimostra come, sebbene in numero molto minore, anche gli ebrei israeliani di sinistra siano vittime della repressione della libertà di espressione da parte dello Stato. Dopo il clamore suscitato dal suo breve ritorno a scuola, +972 ha incontrato l’insegnante di storia e di educazione civica nella sua casa di Gerusalemme per conoscere la sua esperienza in questi mesi. L’intervista è stata modificata per ragioni di lunghezza e chiarezza.

Meir Baruchin di fronte alla sua casa a Gerusalemme (Foto di Oren Ziv)

È rimasto sorpreso di trovarsi in questa situazione, di essere licenziato e persino arrestato per aver postato sui social media?

Insegno educazione civica e storia, due materie molto politiche. Le dimensioni politiche sono ineludibili, quindi non mi ha sorpreso questa repressione. Non sono il primo ad essere arrestato senza motivo – e se fossi stato palestinese sarebbe stato peggio – e purtroppo non credo che sarò l’ultimo.

Conosco centinaia di insegnanti che hanno paura di parlare, temendo di perdere il proprio sostentamento. Il mio licenziamento è stato chiaramente un messaggio deliberato. L’obiettivo è mettere a tacere qualsiasi voce critica, danneggiare i loro mezzi di sostentamento, denunciarli pubblicamente, svergognarli sui media tradizionali e arrestarli.

Un ministro del governo ha suggerito di lanciare una bomba atomica su Gaza. Un altro ha chiesto di cancellare [la città palestinese di Huwara, in Cisgiordania]. Durante l’indagine, ho chiesto ai miei investigatori se avessero convocato tutte le persone che hanno cantato o scritto “Morte agli arabi” o che hanno chiesto di bruciare i villaggi palestinesi. E Itzik Zarka [un importante attivista del Likud] che ha detto di essere orgoglioso che 6 milioni di ebrei ashkenaziti siano stati inceneriti [nell’Olocausto]? Lo avete già arrestato? Lo avete interrogato? È evidente che qui c’è un’applicazione selettiva della legge.

Non si tratta semplicemente di costruire una realtà. È anche una manipolazione deliberata della coscienza. Quando si controlla il sistema educativo, l’esercito e i media, si ha in mano un potere enorme e si può manipolare la popolazione in qualsiasi modo si voglia. Chiunque non si allinei è un traditore, un anti-Israele, un nemico che deve essere trattato come si tratta un nemico

La sensazione è che come società siamo costantemente in bilico tra nevrosi e psicosi. Siamo in uno stato di disintegrazione, incapaci di accogliere chi è diverso da noi. Sono visti come nemici, creando un senso di minaccia. E quando si è minacciati, si reagisce con la violenza.

Alla base dell’indagine ci sono due post su Facebook scritti l’8 ottobre. Cosa ha detto in quei post?

In uno di essi, ho condiviso un’immagine dei corpi di cinque bambini palestinesi morti avvolti in coperte bianche – bambini della famiglia Abu Daqqah. Di solito non carico immagini di questo tipo, ma ero così scioccato che volevo che gli israeliani vedessero ciò che veniva fatto in loro nome. Non interessa alla maggioranza degli israeliani. Ho visto che questa foto è stata pubblicata anche su siti web di destra con emoji che ridevano e applaudivano e commenti che dicevano cose come “Ancora questo”.

Nel secondo post ho scritto che anche in Cisgiordania si stava verificando un bagno di sangue. Quel giorno sono stati uccisi circa cinque palestinesi, alcuni dei quali bambini.

Un altro elemento presentato come prova contro di lei è stato uno screenshot da un WhatsApp degli insegnanti, che mostra un messaggio in cui lei ha scritto: “I soldati israeliani non hanno violentato le donne palestinesi? Lo fanno dal 1948. Questo non è incluso nei libri di testo [di storia]”. Mi parli di questa conversazione.

Il 7 ottobre c’è stata una conversazione molto emotiva nel gruppo, e giustamente. Molti insegnanti hanno scritto cose che esprimevano shock e dolore, e si è sviluppata una discussione sugli obiettivi della risposta israeliana. Hanno scritto che Gaza dovrebbe essere rasa al suolo, che Hamas dovrebbe essere sradicato. Allora ho chiesto: “Qual è l’obiettivo? Cosa vogliamo?”.

Ho scritto che stiamo facendo del male a persone innocenti, uccidendo un numero enorme di donne e bambini, ed è impossibile accettarlo. Poi qualcuno ha risposto che [i palestinesi] se lo meritano dopo quello che ci hanno fatto e ha affermato che i nostri soldati non hanno mai violentato le donne palestinesi. Ho quindi corretto questa affermazione. Sul mio telefono ho delle schermate dei diari di David Ben Gurion e di Yisraeli Galili [il capo di stato maggiore del gruppo paramilitare sionista pre-statale Haganah] che descrivono casi in cui i nostri soldati hanno violentato donne palestinesi nel 1948. Da quando sono stato rilasciato, ho raccolto altre prove di ciò.

Mi parli del suo arresto e dell’interrogatorio di novembre.

Giovedì 9 novembre, intorno alle 14.30, ho ricevuto una telefonata dalla polizia che mi convocava per un interrogatorio con il sospetto di istigazione. Quando sono arrivato alla stazione, un detective mi ha avvicinato. Mi ha confiscato il telefono e mi ha condotto in una stanza dove mi hanno immediatamente legato mani e piedi e mi hanno preso l’orologio da polso. [L’orologio, il telefono, il computer portatile e le chiavette USB di Baruchin gli sono stati restituiti solo tre settimane dopo il suo rilascio dalla detenzione].

Hanno iniziato a perquisire il mio telefono e poi mi hanno mostrato un mandato d’arresto e un mandato di perquisizione, dicendomi che avrebbero perquisito la mia casa. Cinque detective mi hanno portato a casa mia e in presenza di due testimoni, di cui ho chiesto la presenza, hanno messo la mia casa sottosopra.

Quella sera sono stato riportato alla stazione di polizia per essere interrogato. L’interrogatorio è durato circa quattro ore. L’investigatore mi ha mostrato una dozzina di post sulla mia pagina Facebook, ma solo uno di questi era successivo al 7 ottobre. C’erano post di quattro anni fa, altri di un anno e mezzo fa.

La sua tecnica era molto manipolativa. Non mi ha fatto domande vere e proprie. Metteva le risposte nel corpo delle domande. Per esempio, chiedeva qualcosa come: “Come persona che giustifica lo stupro di donne da parte di membri di Hamas, cosa ne pensi di…” – come se avesse già deciso che giustificavo lo stupro.

E poi sei stato messo in cella?

Sì, verso le 23. Agli altri detenuti è stato detto di non avvicinarsi o parlare con me [Baruchin era l’unico israeliano ebreo tra i “prigionieri di sicurezza” del Russian Compound – il centro di detenzione di massima sicurezza di Gerusalemme in cui era detenuto]. Mi furono date due coperte che puzzavano di sigaretta. Mi coprii con una e usai l’altra come cuscino. Non avevo portato nulla con me. Ho indossato gli stessi vestiti per quattro giorni. Mi hanno tolto i lacci delle scarpe e la cintura. Non mi permisero nemmeno di portare un libro da leggere e naturalmente non potevo guardare la televisione.

In cella, per lo più mi sdraiavo a letto e fissavo le pareti. Per non impazzire, facevo esercizio fisico ogni ora e mezza o due ore, ma non c’era quasi spazio per muoversi. Una volta al giorno mi lasciavano uscire dalla cella per andare nel cortile, che è un quadrato di cemento recintato su tutti i lati. Per i primi due giorni non sono riuscito a mangiare affatto [a causa dello stress]. Solo il terzo giorno sono riuscito a mangiare un pezzo di pane con formaggio e cetrioli. Le mie docce erano con acqua fredda.

Sono stato sradicato da tutto ciò che era la mia vita: famiglia, amici, attività, hobby. Avrei dovuto iniziare a insegnare ai bambini evacuati dai kibbutzim che circondano Gaza. Il loro direttore voleva che insegnassi cinque giorni alla settimana; naturalmente non è stato così, e non ho avuto nemmeno modo di dire loro che non avrei potuto farlo.

Il secondo giorno del mio arresto, c’è stata un’udienza [per prolungare la detenzione]. Non ero fisicamente presente in aula; sono stato messo nella sala delle videoconferenze del centro di detenzione, dove ero stato portato in manette. Riuscivo a malapena a sentire quello che dicevano in video.

Il rappresentante della polizia ha raccontato una serie di bugie, tra cui che avevo giustificato tutte le atrocità commesse da Hamas. Non solo non ho mai giustificato una cosa del genere, ma ho scritto un post in cui condannavo esplicitamente le azioni di Hamas e dicevo di essere scioccato e profondamente ferito dalle atrocità commesse da Hamas. Hanno ignorato completamente quel post.

Il giudice ha sbrigato l’udienza per tornare a casa prima dello Shabbat e non mi ha permesso di parlare. Ha prolungato la mia detenzione fino a mezzogiorno di lunedì e la questione è finita lì.

Meir Baruchin nel tribunale di Gerusalemme (Foto di Orly Ney)

In seguito è stato nuovamente interrogato: cosa è successo?

Domenica sera [il quarto giorno di detenzione] sono stato portato a un altro interrogatorio. Anche questo è durato circa quattro ore. L’interrogatore mi ha chiesto di parlare di Hamas, di cosa penso di loro e delle organizzazioni terroristiche in generale. Non sono caduto nella sua trappola. A un certo punto ha detto che i miei post erano come i Protocolli degli Anziani di Sion [un famigerato falso che descrive una cospirazione ebraica per conquistare il mondo]. Queste sono state le sue parole.

Sono un insegnante di storia. Ho letto i Protocolli degli Anziani di Sion decine di volte. L’ho insegnato. Le chiesi se avesse mai letto i Protocolli degli Anziani di Sion. Rimase in silenzio.

Dopo qualche ora, vide che non stava ottenendo da me quello che voleva, così chiamò il suo comandante superiore, che mi sottopose una serie di domande usando esattamente la stessa tecnica. Sapevano benissimo di non avere nulla contro di me.

Il mese scorso le è stato finalmente permesso di tornare a insegnare, ma la situazione è diventata presto insostenibile. Che cosa è successo quando è tornato?

Il mio primo giorno di rientro era un venerdì, e di solito il venerdì insegno a due classi del 12° anno. Quella mattina il preside mi ha mandato un’e-mail dicendo che ci sarebbe stata una grande manifestazione e che sarebbe stata presente la polizia. La mattina mi ha accompagnato in classe. Tutti gli studenti si sono rifiutati di rimanere in classe, tranne uno che non aveva portato con sé un quaderno e quindi è andato via anche lui. Sono rimasto solo in classe. Due ragazze di un’altra classe, incuriosite, entrarono e conversammo piacevolmente.

Poi sono andato nella sala del personale e durante la pausa decine di studenti hanno sbattuto contro la porta e le finestre. Gridavano: “Figlio di puttana! Tua madre è una puttana! Vogliamo che tu abbia il cancro! Stupreremo tua figlia!”. Nessuno ha cercato di fermarli: né il preside, né la sicurezza all’interno della scuola, né la guardia di sicurezza al cancello. Non sono stati chiamati agenti di polizia. C’erano due genitori fuori dal cancello che non hanno fatto altro che fomentare ancora di più la situazione.

Durante l’ora successiva, ero sotto assedio nell’aula del personale. Decine di studenti non hanno frequentato le loro lezioni e hanno avuto il via libera per farlo. C’erano circa 12-15 insegnanti nella sala del personale, e due o tre si sono avvicinati per stringermi la mano ed esprimere empatia. Uno è rimasto vicino a me per tutto il giorno.

Poi, alla fine della giornata, decine di studenti si sono avvicinati alla porta dell’edificio che conduce alla sala del personale. Volevo andare a casa e il preside e la guardia di sicurezza mi hanno accompagnato alla porta. A 30 metri dal cancello della scuola c’erano decine di studenti che mi imprecavano e sputavano. Quando sono uscito dal cancello della scuola, genitori e studenti mi hanno inseguito, anche loro imprecando e sputando. La settimana successiva è successa la stessa cosa.

Come ha risposto la scuola?

Lunedì sera [22 gennaio], il preside ha inviato un messaggio nel gruppo WhatsApp dei genitori dicendo che non accettiamo alcun abuso verbale e che insegniamo la tolleranza. Ma la realtà è l’esatto contrario.

Quando sono tornato per la prima volta, il preside mi ha suggerito di entrare a scuola dal cancello posteriore, ma ho rifiutato. Entrerò solo dal cancello principale. Possono imprecare, sputare, colpirmi: non risponderò. Se un quindicenne pensa che sia giusto sputare a un uomo di 62 anni, non ho nulla da dire al riguardo.

Dopo aver perso in tribunale, volevano rendere la mia vita infelice e rendere il mio tempo a scuola insopportabile. Pensano che questo mi farà crollare.

Perché è importante per lei postare sui social media su ciò che sta accadendo a Gaza e in Cisgiordania?

Il pubblico israeliano non sa cosa viene fatto in suo nome, né in Cisgiordania né a Gaza, a causa del modo in cui lo Stato ingegnerizza la nostra coscienza. Non appare nei media, certamente non in quelli tradizionali. E chi lo sa non se ne cura. Nei miei post cerco di richiamare la loro attenzione. E voglio mostrare nomi e volti: “Guardateli! Guardateli! Alcuni di loro sono bambini! Guardate cosa viene fatto in vostro nome! Potete convivere con questo?”. Se i media facessero il loro lavoro, non sarei costretto a farlo.

Molte volte mi hanno accusato di non scrivere di ciò che i palestinesi ci fanno. E io rispondo sempre che non avete bisogno di me per farlo: avete tutti i media, i canali televisivi, la stampa, la radio, Internet. Uso la mia pagina Facebook per scrivere di ciò che non sapete, non di ciò che già sapete. E c’è qualcosa di sbagliato in voi se non capite che quello che è successo il 7 ottobre mi ha profondamente scioccato e ferito.

Qual è il suo approccio pedagogico, come insegnante di storia e di educazione civica che lavora in una società di questo tipo?

Per me “educazione ai valori” e indottrinamento vanno di pari passo. Non cerco di inculcare i miei valori ai miei studenti: presento una gamma di valori e lascio che i miei studenti, che hanno 16 o 17 anni, decidano da soli quali saranno quelli a cui si atterranno. Il punto non è che io sia soddisfatto, ma che loro si sentano soddisfatti di se stessi.

Faccio l’insegnante da 35 anni e non c’è stato un solo studente che abbia cambiato idea a causa di qualcosa che ho detto in classe. Se pensate che io abbia il potere di far cambiare loro idea, non date abbastanza credito agli studenti. Non sono burattini e non sono io a tenere i fili. Spesso non sono d’accordo con me e può nascere una conversazione rispettosa. Questa è la filosofia della mia professione e rende le lezioni interessanti. Anni dopo la laurea, molti di loro si tengono in contatto e mi inviano messaggi come: “Sai, solo ora sto capendo quello di cui abbiamo parlato in classe”.

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