[Carcere] Ambra è stata uccisa dal carcere – Presidio solidale a Spini

Domenica 14 marzo nel carcere di Spini di Gardolo è morta, in circostanze ancora da chiarire, una ragazza di Bolzano di soli 28 anni. Si chiamava Ambra, ed era madre di due figli.

La notizia – come spesso accade quando si apprende di persone morte fra le mura dei penitenziari a meno che non ci siano delle rivolte – è stata accolta nella pressoché generale indifferenza. Si sa solo che, secondo quanto riportato dalla testata online IlDolomiti, la Procura ha disposto gli accertamenti medico-legali di routine per capire ciò che è accaduto. Al di là di cosa possa emergere da tali “accertamenti” è evidente come la sua morte sia strutturale ad un’istituzione totale che – soprattutto in tempi di pandemia – fa esasperare contraddizioni e malessere di chi è detenuto e privato dei propri contatti diretti con amici e parenti. Sappiamo che Ambra veniva da una storia personale molto difficile e che nell’ultimo periodo era particolarmente provata per la sua condizione. Una cosa non difficile da immaginare e comprendere, in un luogo di sofferenza dove ogni malessere viene “risolto” con abbondanti prescrizioni di psicofarmaci, punizioni e dove nell’ultimo anno i contatti sociali erano stati annullati o limitati.

La sua carcerazione, così come la sua morte, sono la tragica dimostrazione di come il carcere sia un’istituzione riservata ai poveri, a chi non può permettersi avvocati di fiducia oppure a chi non ha una casa in cui eventualmente scontare la pena.

Secondo Ristretti orizzonti solo nel 2020 ci sono state 154 morti (mancate insufficienti cure, ecc.) nelle carceri italiane e 61 suicidi, il numero più alto dell’ultimo ventennio. Nel 2021 sono già 32 i morti e almeno 7 i suicidi.

Invitiamo tutti e tutte a partecipare al presidio che ci sarà sabato 3 aprile dalle ore 16 sotto le mura del carcere di Spini di Gardolo per rompere il silenzio e l’indifferenza intorno alla morte di Ambra. Per sapere cosa è successo, smascherare le responsabilità di chi non è intervenuto e per denunciare le condizioni di detenuti e detenute che negli ultimi anni nel carcere trentino più volte si sono suicidati mentre numerosi altri sono stati i tentativi non riusciti.

Per ricordarla e per far sentire a chi soffre dietro le sbarre che non sono soli e sole. Perchè le morti in carcere non sono mai “casuali” o “naturali”.

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Quei fiori per Mara. Un ricordo di Sante Notarnicola

Un ricordo di Sante Notarnicola, operaio, bandito, poeta, rivoluzionario

Appena ho saputo della morte di Sante sono ritornato alle bellissime ed intense giornate trascorse insieme fra Trento e Bolzano nel maggio 2014. Nonostante siano passati quasi sette anni ho un ricordo piuttosto nitido di un incontro che porterò sempre nel cuore.

A Trento con i compagni avevamo organizzato una serie di iniziative sul tema del carcere “D’ogni dove rinchiusi si sta male” e chi meglio di Sante, con le sue poesie e la sua esperienza, avrebbe potuto concludere il ciclo?

Dopo aver chiesto il suo contatto a dei compagni bolognesi lo chiamai e lui fu subito disponibile e curioso di salire in una zona d’Italia che non conosceva direttamente anche se negli anni in cui era dietro al bancone del Pub Mutenye di via del Pratello aveva conosciuto numerosi studenti universitari di Trento e Bolzano fuori sede a Bologna.

Lo andai a prendere alla stazione dei treni di Trento in tarda mattinata e non nascondo che provavo una certa emozione nell’incontrare un compagno che rappresentava un pezzo di storia del movimento rivoluzionario e di classe di questo Paese: pugliese di Castellaneta aveva vissuto sulla propria pelle la discriminazione che i piemontesi riservavano ai terroni immigrati come lui, si era formato al Banfo la IX sezione torinese del PCI a Barriera di Milano dove aveva imparato che essere comunisti è l’unico modo per essere uomini. Qui partecipò ai primi scioperi, alle lotte contro i provocatori fascisti e i crumiri, le uscite in notturna nelle periferie torinesi a scrivere sui muri “W lo sciopero abbasso Valletta”. Da militante di base aveva vissuto il trauma del rapporto Krusceev sui crimini di Stalin al XX congresso del PCUS che, come scrisse lui “Fu una legnata per molti compagni e ne portammo i segni per parecchio tempo […] fu come un accoltellamento alla schiena”. E poi alcuni anni dopo gli scontri di piazza Statuto, l’insoddisfazione per l’involuzione riformista ed accomodante del PCI che lo portò, insieme ad altri proletari ed in un epoca in cui al di fuori del partito non c’era nulla, ad attaccare il capitale attraverso rapine che via via si fecero sempre più audaci e che lo portarono, nel 1967, all’arresto insieme al resto della cosiddetta Banda Cavallero. Una vicenda che venne poi raccontata in modo macchiettistico dal regista Carlo Lizzani nel film Banditi a Milano. Riuscì poi a trasformare il carcere in un terreno di lotta e privo della libertà attraversò da protagonista le mobilitazioni che anche in Italia si diffusero con il ’68. I suoi incontri con i detenuti in carcere riflettevano la conflittualità sociale sempre più aspra che attraversava il Paese: dagli anarchici arrestati dopo le bombe fasciste del 25 aprile 1969 alla strage di piazza Fontana ed alla successiva nuova ondata di arresti di anarchici con la seguente morte di Pino Pinelli. Gli anni dopo ebbe importanti rapporti con Lotta Continua riuscendo a porre all’esterno il problema del proletariato prigioniero, fino ai rapporti con i militanti delle varie organizzazioni della lotta armata. Diventò col tempo un punto di riferimento delle lotte dei prigionieri contro il carcere, impegnandosi a costruire solidarietà e coscienza politica lì dove secondo le intenzioni dei carcerieri avrebbero dovuto prevalere la rassegnazione e l’egoismo. Al processo d’appello del dicembre 1971 a Milano dichiarò:

Voi continuerete a imprigionare tutti coloro che vi danno fastidio o sono un pericolo per il vostro disordine costituito. Voi getterete in carcere i pacifisti, gli obiettori di coscienza, noi li aiuteremo a superare le asprezze e le privazioni di questa vita e di questo ambiente. I detenuti comuni, gli sbandati, i ribelli senza speranza, noi ve li ritorneremo con una coscienza rivoluzionaria. Questo è il mio impegno, questo è il vostro errore. Voi credete di aver vinto e invece, anche con me, avete già perso la battaglia.

Dopo aver caricato la sua valigetta in auto, lo portai a bere una birretta in piazza Duomo, che ammirò estasiato. Seduti a un tavolino a lato della piazza iniziammo a chiaccherare del passato e del presente. Riguardo a Trento non aveva grandi ricordi, nemmeno in relazione all’eco delle lotte degli studenti di Sociologia che sul finire degli anni Sessanta attraversavano la città. Il primo fatto che gli venne in mente fu la “gogna” che il 30 luglio 1970 gli operai della Ignis fecero fare ai due fascisti del Movimento Sociale Italiano Gastone del Piccolo e Andrea Mitolo, trovati con un ascia nella borsa, dopo che un gruppo di mazzieri missini aveva aggredito ed accoltellato gli operai in sciopero. Oltre a ciò naturalmente il suo pensiero andò a Margherita Cagol Mara, fondatrice e dirigente delle Brigate Rosse, uccisa durante uno scontro con i carabinieri a Cascina Spiotta, nel giugno 1975. A pranzo mangiammo in un ristorante del centro, prese della carne cruda non mancando di raccontare come fosse un piatto che a suo tempo mangiava spesso nelle trattorie frequentate dagli operai della Fiat. Non nascondeva il suo stupore per essere – negli ultimi anni – invitato sempre più spesso a raccontare la propria esperienza in spazi anarchici, lui che ci aveva tenuto a dirmi subito come fosse stalinista, una definizione che per lui significava grande rigore politico e morale. Certamente a rendergli simpatici gli anarchici giocò il fatto che essi erano e sono, se non gli unici, fra i pochissimi che lottano contro l’istituzione carceraria. E lui, che dopo la sua liberazione in via del Pratello era di casa, aveva avuto modo di conoscere alcuni compagni mentre facevano dei presidi solidali con i giovanissimi detenuti del carcere minorile presente nella via.

Il pomeriggio mi chiese di accompagnarlo al cimitero di Trento, voleva portare un fiore sulla tomba di Mara. Mi aveva già accennato a questo suo desiderio durante il nostro colloquio telefonico e perciò nei giorni precedenti mi ero già portato al cimitero per cercare la sua tomba in modo da andare a “colpo sicuro”. Non nascondo una certa emozione nel rievocare un momento di cui ho ancora l’immagine nitida davanti agli occhi. Nel baracchino vicino aveva comprato un mazzo di fiori rossi, non ricordo bene quali, e dopo aver raggiunto la sua tomba, posò i fiori sulla lapide di Margherita Curcio Cagol su cui c’è scritto Chi dona la sua vita la salva. Rimase alcuni momenti in silenzio, raccolto, io ero molto emozionato, sentendomi a tratti inadeguato, di fronte a questo intenso incontro, seppure virtuale, di due persone appartenenti a due diverse generazioni, che avevano dato tutto nella propria scelta di ribellarsi e lottare. Mi disse che nei lunghi anni di carcere il discorso capitava spesso su Mara e ciò che emergeva sempre era il grande rispetto che lei, capace di organizzare l’evasione del proprio marito e compagno Renato, aveva saputo guadagnarsi in un ambiente in ogni caso non facile per una donna che si dimostrò capace di trovare sintesi ed equilibrio fra le varie anime e tendenze dell’organizzazione. Subito dopo aver appreso della sua morte, Sante, all’epoca detenuto nel carcere di massima sicurezza sull’isola di Favignana, gli dedicò la poesia A Mara:

Fu scarno il commiato dei compagni / poi colonne di piombo a lacerarti / insinuare negli animi deboli una fragilità ch’è patrimonio tutto borghese / la nostra prece ha sfumature diverse / nella mente precisi gli obiettivi / e nel cuore resta fissa la generosità tua che / a braccia spalancate tutto hai dato sotto un cielo chiaro di giugno.

La tomba di Margherita Cagol al cimitero di Trento

Dopo aver riposato a casa e letto alcune pagine del libro Il sistema periodico di Primo Levi che aveva con sè, la sera andammo allo spazio anarchico El Tavan, gremito di compagni e compagne, per la presentazione della sua raccolta di poesie nel libro L’anima e il muro. Iniziò la serata spiazzando un po’ tutti, ringraziando dell’invito ma rivendicando ancora di essere stalinista, cresciuto alla scuola del Banfo. Durante la serata vennero lette, con accompagnamento musicale, alcune sue poesie prese dalla raccolta L’anima e il muro, una cosa che lo commosse. Rimanemmo diverse ore a chiaccherare in una di quelle serate che vorresti non finissero mai.

Sante a Trento

Il giorno dopo replicammo la serata anche a Bolzano, in una biblioteca locale ancora una volta affollatissima, per ascoltare la testimonianza di un compagno sempre in prima linea nelle lotte più dure e importanti che avevano attraversato le carceri italiane del secondo dopoguerra. Finita la serata, mentre tornavamo alla macchina per rientrare a Trento, passammo vicino a un monumento dedicato al carabiniere ucciso dai nazisti Salvo d’Acquisto, una cosa che gli fece riaffiorare un momento della sua lunga detenzione e scoppiò a ridere ricordando un aneddoto che purtroppo non ricordo più, a differenza della sua bellissima risata.

Decise poi di passare un altro giorno con noi ed il giorno seguente insieme a Lucia andammo sul monte Bondone per pranzo in un rifugio gestito da compagni: ricordo il suo sguardo meravigliato dalla bellezza della montagna e delle cime ancora innevate, ringraziando per il “regalo che gli avevamo fatto”. Mi meravigliò il fatto che fosse juventino, la squadra degli Agnelli e glielo dissi: mi raccontò così che si trattava di una scelta legata alla sua condizione di emigrato del Sud, una specie di reazione contro i torinesi di Torino, legati alla squadra granata e mai troppo benevoli con i terroni.

Senza rischio di cadere nelle retorica a buon mercato, in quei pochi giorni passati con lui la cosa che ricordò con maggior affetto è proprio la forte carica umana che portava con sé. Un compagno premuroso, attento agli aspetti emotivi che la lotta politica porta con sè, un compagno che si prendeva cura degli altri, di chi si trovava ancora in carcere, e che aveva un amore viscerale per i libri, consigliandone diversi che ho poi puntualmente letto, capace di ascoltare con grande umiltà, senza fare pesare il proprio immenso bagaglio di esperienze. Ricordo ancora con affetto e stupore la sua chiamata dopo la manifestazione contro il muro antimigranti e le frontiere al Brennero, il 7 maggio 2016, in cui chiedeva come stavamo domandando aggiornamenti sulla situazione. Pensa Sante, adesso per quella manifestazione la procura di Bolzano, dopo aver già regalato alcune decine di anni di galera, chiede oltre 330 anni di carcere per 63 compagni/e. E mi viene in mente una delle tue poesie che amo di più La nostalgia e la memoria che parla della generazione che correva compatta da papà Cervi a consolarlo, a consolarsi, degli operai perseguitati da Scelba e da Valletta, di tutti quelli che nella storia, nonostante le peggiori porcate e infamie commesse obbedendo zelanti alla legge, la passano sempre liscia. Tanti compagni/e rischiano di pagare un prezzo altissimo per non essersi girati dall’altra parte mentre migliaia di persone morivano – e muoiono – in mare o sui passi alpini, contro cui volevano militarizzare un confine con muro annesso. La cosiddetta società, soprattutto oggi, fatica a capire cosa abbia spinto, in passato come oggi, centinaia e migliaia di persone a rischiare la propria libertà per difendere quella altrui. Il motivo, ieri come oggi, è lo stesso che hai descritto in – Comunismo – un’altra tua bellissima poesia: É l’inno all’amore di sempre: per l’uomo sfruttato, inchiodato, calpestato che finalmente dall’officina e dalla prigione alza l’arma e la fronte.

Ciao Sante, grazie. Un brindisi a te

Enzo

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[Lavoro-Bolzano] A proposito del trasferimento del Centro Carni Aspiag

I LAVORATORI NON SONO CARNE DA MACELLO

Già da anni si vociferava di un possibile trasferimento del Centro Carni Aspiag di Bolzano. Ora per il centinaio di lavoratori vi sono impiegati e per le loro famiglie i timori si fanno sempre più concreti.

Attualmente è ancora in vigore il blocco dei licenziamenti ma a partire dal 1 aprile il rischio di rimanere a casa sarà molto alto, come lo sarà probabilmente per moltissimi altri lavoratori e lavoratrici nel resto della penisola.

Mentre la critica alla globalizzazione nel corso del tempo è stata storpiata e inglobata malamente nell’ideologia sovranista, ancora una volta l’evidenza dei fatti ci spinge a ripetere: il nostro nemico è il padrone e la questione è di classe. Non è una questione di ristabilire la sovranità di uno Stato ma di abbattere il sistema capitalistico.

Non è più necessario spostare la produzione nei cosiddetti paesi in via di sviluppo per avere la libertà di sfruttare i lavortori e di massimizzare il profitto sulla loro pelle. Prendendo ad esempio il caso Aspiag di Bolzano, vediamo che è sufficiente spostare la produzione a meno di 300 km, a Monselice. La zona di pianura compresa tra Veneto e Lombardia è nota per le numerose cooperative alle quali grandi aziende si appoggiano per scaricare quel fardello che sono i lavoratori per i padroni ma è anche stata e continua ad essere teatro di lotte determinate condotte dai lavoratori della logistica e in una di queste venne ammazzato da un servo obbediente Abd el Salam nel 2016.

Questo sistema di appalto (che vede coinvolte non solo cooperative in realtà ma anche altre aziende di servizi) permette all’azienda appaltatrice di avere le “mani pulite” continuando a lucrare sulla forza lavoro ingaggiando qualche scagnozzo intermediario cui spetta il lavoro sporco e che a sua volta trasforma lo sfruttamento in profitto.

Si trovano in questa situazione gli operai della logistica Aspiag (assunti da una ditta appaltatrice) di Padova e di Noventa di Piave, i quali -o meglio alcuni di quali- sotto ricatto dell’azienda, devono scegliere se accettare il trasferimento a circa 100 km dal loro attuale posto di lavoro e nuovi massacranti turni o se perdere il posto di lavoro.

Causa comune delle preoccupazioni dei lavoratori Aspiag bolzanini e veneti è Agrologic, nuovo centro logistico sorto a Monselice dove si concentreranno diverse attività. Un polo agroalimentare da oltre 300 mln di euro e 320.000 metri quadrati di superfice per un presentato come innovativo ed ecologico ma che è in realtà un enorme blocco di cemento dedicato alle attività di una filiera che è tra le più inquinanti. Proprio grazie alla costruzione di Agrologic nel 2018 Monselice è risultato il decimo tra i comuni italiani che hanno consumato più suolo e terzo tra i comuni veneti per territorio cementificato.

Le reazioni dei lavoratori e dei sindacati tra Bolzano e Padova-Noventa sul Piave sono state molto diverse: a Bolzano, conoscendo il livello di connivenza della CGIL e puntando sull’isolamento dei lavoratori, i padroni non si sono nemmeno degnati di aprire un tavolo delle trattative per il momento. In Veneto i sindacati in rappresentanza sono CGIL e AdI Cobas. La CGIL, dopo qualche trattativa e qualche briciola, ha lestamente firmato un’accordo di massima, incassando i ringraziamenti e i complimenti di Aspiag che non per niente ha “invitato” i lavoratori a farsi rappresentare dalla CGIL stessa. Molti lavoratori però, consapevoli del ruolo della CGIL di facilitatrice nell’applicazione di queste infami politiche antioperaie, hanno deciso insieme ai Cobas di continuare a lottare per difendere i loro interessi e le loro necessità attraverso scioperi e iniziative pubbliche di fronte ai punti vendita invitando al boicottaggio dei supermercati Despar.

Nello spirito di solidarietà tra i lavoratori e con la consapevolezza che solo uniti si vince, riprendiamo una parte di un comunicato dei Cobas sulla questione:

Chiediamo a tutte/i di mettere in campo iniziative contro la prepotenza di questi personaggi, che pensano di avere il potere di fare tutto quello che vogliono, che distruggono i nostri territori costruendo supermercati ovunque, sfruttano i produttori imponendo il prezzo della merce, fanno morire le piccole attività, che durante la Pandemia hanno incrementato i loro profitti e non portano rispetto nemmeno per i loro dipendenti, che solo un anno fa avevano il coraggio di chiamare eroi. ”

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[Processo Brennero] A proposito del reato di “Devastazione e saccheggio”

Sebbene la manifestazione contro la costruzione del muro antimigranti al Brennero sia avvenuta in Alto Adige ed un gran numero di manifestanti coinvolti siano della Regione, il processo e le esorbitanti condanne richieste non hanno incontrato grande dibattito e – sembra – nemmeno grande interesse. La cosa non stupisce più di tanto in una Provincia in gran parte abituata a ignorare ciò che accade oltre la chiusa di Salorno o il passo del Brennero. A maggior ragione se l’oggetto della discussione sono anarchici, linksradikalen o chaoten come vengono definiti sul Tageszeitung o sul Dolomiten. Tuttavia va rilevato l’assordante silenzio con cui – nella cosiddetta società civile – è stata accolta la richiesta di 338 anni di carcere per una manifestazione che aveva l’obiettivo di rompere l’indifferenza per non dire peggio, con cui gran parte della società viveva il dramma delle migrazioni e della possibile costruzione di un muro che avrebbe segnato un punto di non ritorno.

Il processo istituito dalla Procura di Bolzano attraverso l’applicazione dell’articolo 419 “Devastazione e saccheggio” ha l’obiettivo di cancellare le motivazioni politiche e umane profonde che hanno spinto centinaia di compagni/e a manifestare al Brennero in quella giornata di 5 anni fa. Sta a noi e a chi conserva ancora un briciolo di amore per la giustizia e la libertà, contrastare e rispedire al mittente tale folle disegno accusatorio, costruendo solidarietà, spezzando l’indifferenza e rivendicando quella giornata il cui valore è confermato dagli spaventosi eventi precedenti e successivi che hanno visto crescere una guerra sempre più spietata ai proletari, agli immigrati, ai profughi.

Il Manifesto del corteo al Brennero “Abbattere le frontiere”

Con ogni probabilità, dopo i processi istituiti contro i componenti del Befreiungsausschuss Südtirol (BAS), si tratta – a livello locale – del processo politico del dopoguerra con il più grande numero di imputati e con le richieste di pena più alte. Ricordiamo che per il secondo filone del processo il pubblico ministero Andrea Sacchetti ha richiesto 338 anni complessivi di carcere per 63 imputati/e, arrivando a chiedere 15 anni di carcere (ridotti di un terzo per via della scelta del rito abbreviato) per alcuni compagni.

Come abbiamo scritto già in altri contributi nel presente Blog, i due principali processi istituiti contro 126 manifestanti imputati presenti al confine quel giorno (nel primo processo la sentenza di primo grado ha inflitto 37 anni di carcere complessivi per 63 imputati), hanno un evidente intento politico, che rientra in una prassi repressiva che negli ultimi decenni si è consolidata a livello nazionale e che in tale chiave va letta e analizzata.

Grazie al recente articolo Devastazione e saccheggio: un reato politico da abolire, accusate/i da sostenere, pubblicato da Prison Break Project (PBP), riprendiamo le nostre riflessioni relative al processo per la manifestazione contro il muro antimigranti che si è tenuta al Brennero quasi 5 anni fa, nel maggio 2016.

Le esorbitanti richieste dei PM contro i manifestanti derivano dalla contestazione dell’articolo 419 del codice penale, che afferma:

Chiunque, fuori dei casi preveduti dall’art. 285,commette fatti di devastazione o di saccheggio è punito con la reclusione da 8 a 15 anni. La pena è aumentata se il fatto è commesso nel corso di manifestazioni in luogo pubblico o aperto al pubblico ovvero su armi, munizioni o viveri esistenti in luogo di vendita o di deposito”.

Ma di che reato si tratta? Sebbene sia per noi chiaro come la legge sia la cristallizzazione dei rapporti di forza nella società, è importante conoscere quale è la genesi e lo spirito della legge. Come scrive Prison Break Project:

La sua origine risale al codice fascista Rocco e da allora il reato non ha subito significative trasformazioni, arrivando intatto fino ai nostri giorni con il suo portato di pesanti condanne. Già l’espressione “devastazione e saccheggio” ha il compito di evocare sciagure ed eventi calamitosi, perché no la figura degli sciacalli… insomma un reato nato per fermare i barbari, i nemici della società per i quali non deve essere fatto alcuno sforzo di comprensione delle motivazioni”.

Il reato di “devastazione e saccheggio” nel dopoguerra è stato utilizzato in seguito ai moti insurrezionali scoppiati dopo l’attentato al segretario del PCI Palmiro Togliatti nel 1948 e per le manifestazioni antifasciste contro il Governo Tambroni (che intendeva riportare i fascisti al Governo promuovendo un’alleanza fra Dc e Msi) del 1960.

Poi per molti decenni non è mai stato contestato ed è soltanto a partire dagli anni 2000 che le Procure di mezza Italia hanno iniziato a farvi ricorso, nel tentativo di seppellire sotto decenni di carcere chi ha partecipato a manifestazioni pubbliche in piazza. Destinatari principali di tale accuse, in particolare dopo il processo per i fatti del G8 di Genova che ha visto una decina di compagni/e condannati a pene abnormi (mentre poliziotti e carabinieri responsabili di efferate torture, pestaggi, minacce di stupro e di un assassinio hanno fatto carriera) sono ultras, prigionieri delle carceri protagonisti di rivolte e compagni/e antagonisti. Ricordiamo solo alcune delle manifestazioni per cui negli ultimi anni tale reato è stato contestato: Genova 2001, Milano 2006 (corteo antifascista), Trento 2010 (corteo dopo sgombero Assillo occupato), Roma 2011, Cremona 2015 (corteo antifascista), Milano 2016 (1 maggio NoExpo), Brennero 2016 (corteo contro muro antimigranti), Napoli 2017 (manifestazioni contro Salvini), Torino 2019 (sgombero Asilo). Un caso a parte è rappresentato dall’accanimento repressivo contro il movimento No Tav in Val di Susa per il quale la Procura di Torino ha adirittura imbastito accuse di terrorismo, un altro termine quest’ultimo, il cui significato è stato negli anni distorto e piegato a piacimento ai fini repressivi più abietti.

Nel corso del 2020 caratterizzato dalla Pandemia abbiamo visto inoltre come le Procure non abbiano lesinato arresti, misure cautelari nei confronti di compagni solidali con i carcerati (vedi operazione preventiva contro anarchici bolognesi) oppure contro manifestanti a Firenze, Napoli o Torino. In particolare per le manifestazioni avvenute nel capoluogo piemontese nelle settimane scorse la Procura di Torino agitando lo spauracchio della Devastazione e del saccheggio, aveva richiesto misure cautelari per 37 persone fra cui 14 minorenni. Lo stesso reato viene utilizzato nei processi contro i prigionieri protagonisti delle rivolte nel carcere di Pavia (99 prigionieri sotto processo) o in quello di San Vittore a Milano.

Qual è la pericolosità di un articolo penale del genere? La sua indeterminatezza: la norma punisce il fatto “di devastazione” o il fatto “di saccheggio” ma non ci dice cosa dobbiamo intendere per devastazione o saccheggio.

Come sottolineano i compagni di PBP:

L’evoluzione e la frequenza sempre più vertiginosa del ricorso delle procure a questo reato mostra la sua plasticità e il suo essere profondamente legato all’apprezzamento del singolo giudice o procuratore”.

La genericità e l’indeterminatezza rendono l’articolo 419 un perfetto strumento di intimidazione politica e che si presta perfettamente alla repressione delle manifestazioni pubbliche di piazza, anche laddove non avvengono danneggiamenti significativi, come al Brennero appunto (8.000 euro scarsi di danni complessivi), inscrivendosi nel diritto penale del nemico:

Devastazione e saccheggio” dunque è un reato che si plasma a seconda dell’autore, delle situazioni e dell’interpretazione soggettiva del giudice di turno. Non è tanto, quindi, la dinamica dei fatti a interessare, ma il contesto in cui avvengono e soprattutto l’identità e i valori attribuiti a chi viene accusato.”

Ne consegue che, laddove vi sono imputati processati “devastazione e saccheggio”, ad essere sotto accusa – alla mercè degli umori, delle idee politiche, degli interessi e dei capricci di giudici e magistrati – è l’identità politica dei compagni sotto processo, la loro volontà di lottare e di non rimanere indifferenti alla violenza delle politiche economiche del capitalismo e dei suoi rappresentanti politici.

Riguardo ai recenti arresti di Torino PBP sviluppa una riflessione che vale anche per i compagni sotto processo per i fatti del Brennero:

La vicenda di Torino esplicita anche la necessità di seppellire sotto una dicitura criminogena ogni elemento legato alle motivazioni che hanno spinto certe azioni. La violenza, il furto, il danneggiamento sono sempre “irrazionali” e “inaccettabili”, non ci possono essere comprensioni o cedimenti. Si tratta quindi di un reato che ha l’obiettivo di eliminare ogni possibile spazio alle motivazioni politiche degli autori. È inoltre un’arma particolarmente efficace di punizione politica di determinate situazioni: non interessa dimostrare se l’inquisito è davvero autore dei fatti reato, ma è sufficiente che sia stato presente nel luogo in cui sono stati commessi poiché l’istituto del concorso di persone, specie nella tradizione che si è affermata da Genova in poi, permette di condannare chi in vario modo ha partecipato ai moti collettivi. Per la magistratura che usa questo dispositivo l’indicazione è chiara: “si tratta di criminali e bisogna esclusivamente guardare ai loro danni e malefatte”.

E nel rilanciare la necessità di costruire la solidarietà per tutti gli imputati e le imputate per il corteo al Brennero, facciamo nostre le conclusioni dell’intervento di PBP:

É importante non lasciare sole le persone che vengono investite da questa “macchina da guerra” giuridica. Non solo le e gli imputati, ma anche chi è loro vicino, in termini affettivi, relazionali e politici. Perché un primo passo per inceppare il diritto penale del nemico è evitare l’isolamento e l’abbandono alla demonizzazione mediatica e politica. Se la risposta giudiziaria vuole soffocare le forme di rabbia, magari irruenta e non categorizzabile come “purezza rivoluzionaria”, diventa indispensabile salvaguardare l’espressione del conflitto sociale in questo periodo dove individualismo, indifferenza ed obbedienza rischiano di divenire il pensiero unico.”

Per approfondire: 

Prison Break Project. Costruire Evasioni, sguardi e saperi contro il diritto penale del nemico. Be Press, 2017.

Prison Break Project. Terrorizzare e reprimere, il terrorismo come strumento repressivo in continua espansione.

“Devastazione e saccheggio” Un reato indeterminato

Devastazione e saccheggio. Anatomia di un reato

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[8 marzo-Bolzano] Riassunto delle iniziative in città

Poche ricorrenze come quella della giornata internazionale della donna rischiano di essere inaridite e sterilizzate dalle retoriche istituzionali, capaci di trasformare giornate di lotta in vuote celebrazioni prive di ogni minimo senso critico, destinate ad esaurirsi nel discorso di circostanza, nel regalo della mimosa oppure nell’azione puramente simbolica come la panchina rossa o il posto a sedere lasciato vuoto. Da un po’ di tempo però in tutto il mondo e anche a Bolzano qualcosa si muove: individualità, collettivi e assemblee di diverse tendenze stanno tornando a riempire di contenuti critici e radicali questa giornata. Dall’8 marzo 2015 in cui la giornata era stata dedicata alle partigiane curde con un manifestazione partita da piazza del Grano all’8 marzo 2017 in cui circa 150-200 persone hanno riempito di contenuti piazzetta Marcella Casagrande fino alla manifestazione nel 2019 in cui un oltre un centinaio di donne e uomini attraversò le vie del centro cittadino per un corteo deciso e determinato.

Manifesto del Presidio organizzato nel 2015 in piazza del grano a Bolzano per rispondere alla giornata internazionale di solidarietà chiamata dalle donne curde.

Foto dal presidio in Piazzetta Marcella Casagrande dell’8 marzo 2017

8 marzo 2019 – contro disegni di legge reazionari e misogini e per una lotta intersezionale

Ma la mobilitazione non si è fermata soltanto alla giornata dell’8 marzo: dalle iniziative contro gli antiabortisti davanti all’ospedale di Bolzano (dove si ricordava come di fatto la possibilità di abortire per molte donne sia compromessa per via dell’obiezione di coscienza praticata dal 98% dei medici) fino ai presidi solidali organizzati dall’associazione GEA di fronte al tribunale di Bolzano in solidarietà ad una donna aggredita a coltellate dall’ex marito in strada passando per le mobilitazioni solidali con le donne curde di Afrin, si è tentato di non abbassare mai la guardia di fronte alla questione delle violenze contro le donne. Diffuse poi altre iniziative importanti: dalle presentazioni di libri come quello di Angela Davis a programmi radiofonici con un’impronta di genere come Donne in Tandem, solo per citare un paio di esempi.

Non solo 8 marzo – In piazza in solidarietà con le donne curde di Afrin nel 2018

Ospedale di Bolzano – Presidio contro la violenza degli antiabortisti

Ospedale di Bolzano – Contro la violenza degli antiabortisti giunti di fronte al nosocomio a pregare per i “bambini mai nati”

8 marzo tutto l’anno – tribunale di Bolzano: presidio solidale con una donna vittima di violenze di genere durante il processo al suo carnefice.

Anche quest’anno, nonostante le difficoltà organizzative legate alla pandemia, l’8 marzo a Bolzano vi sono state diverse iniziative che hanno attraversato la città. Un gruppo di compagne e compagni ha volantinato e affisso in giro per la città volantini, striscioni e manifesti contro il patriarcato, e in una riflessione pubblicata su Bolzano antifascista si legge:

Un altro otto marzo. Mano nella mano siamo scese in strada, senza chiedere permessi, senza delegare. Noi non ci caschiamo più! Nessuna riforma nessuna quota rosa, nessuna istituzione ci darà la liberazione. Contro il pink-washing del neoliberismo, agiamo il radical femminismo.”

Si è invece svolto nel più assordante silenzio mediatico, lo sciopero di alcuni lavoratori della Fercam di Bolzano iscritti al Sindacato di Base Multicategoriale – SBM che hanno aderito alla giornata nazionale di mobilitazione astenendosi dal lavoro. Un atto di solidarietà prezioso che vale più di mille parole, dette e scritte.

8 marzo 2021 – Sciopero di alcuni lavoratori della Fercam – Foto presa dalla pagina Facebook del Sindacato di Base multicategoriale

Dalla pagina Bolzano antifascista

Dalla pagina Bolzano antifascista

Altre attiviste, in parte legate a Extinction Rebellion, hanno organizzato un flash-mob molto partecipato in piazza Walther in cui è stato sottolineato come la lotta delle donne non possa essere slegata da una lotta più generale contro patriarcato, capitalismo e devastazione ambientale.

8 marzo 2021 – Una foto dalla protesta in Piazza Walther

Un percorso è iniziato ma i femminicidi così come le violenze sulle donne non accennano a diminuire e per il prossimo futuro sviluppare una critica che sappia intrecciare la lotta al patriarcato ed al capitalismo è fondamentale più che mai, soprattutto in vista di tempi in cui le condizioni lavorative di uomini e soprattutto donne subirà forti attacchi da parte del padronato intenzionato a scaricare sui proletari e sulle proletarie i costi economici della Pandemia.

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[Musica/Repressione] Chi istiga chi? A proposito delle denunce contro i rapper di Sinigo

Sotto questi colpi siamo i maledetti senza via d’uscita dimmi cosa aspetti dal futuro, muro contro muro non ci sta nessuno, c’è chi brancola nel buio più niente è al sicuro sopravvivere senza soccombere è già una freca come l’impero stabilisce chi crepa chi mangia la polvere per terra chi governa chi nasce imputato alla sbarra…                                     

 Lou X “Il mattino ha l’oro in bocca”

To the Brothers in the street, schools and the prisons, History shouldn’t be a mystery. Our story’s real history, Not  his story.

Public Enemy “Fear of a black planet”

Dal quotidiano locale Alto Adige veniamo a sapere che il 7 marzo 2021 i Carabinieri, d’intesa con la procura della Repubblica di Bolzano, si sono presentati con tanto di cani antidroga a casa di uno degli autori di un video Rap, un 22enne di Sinigo, per cercare la pistola giocattolo che veniva usata nel video. Oltre alla riproduzione della pistola i militari hanno trovato anche “una modica quantità di hashish, che ha comportato la segnalazione del giovane al commissariato del governo di Bolzano”. Sempre lo stesso articolo riporta come anche il secondo protagonista del video sia stato identificato e denunciato per “istigazione a delinquere”.

Dall’Alto Adige dell’8 marzo 2021

Cosa è successo per arrivare a tanto?

Per capire le motivazioni di tale “brillante” operazione di polizia bisogna tornare indietro di alcuni mesi, quando alcuni rapper di Merano e dintorni -Fvmille e Lony- pubblicarono su Youtube il video musicale Block Freestyle che suscitò numerose reazioni pubbliche.

Già allora, per via della presenza nel video di alcuni giovanissimi, si attivò la Procura dei minori ed il 18 ottobre 2019 vennero disposte delle perquisizioni nelle case di alcuni ragazzi in cerca della pistola giocattolo utilizzata nel video.

Si scomodò adirittura l’assessore provinciale Giuliano Vettorato della LEGA -partito noto per le sue posizioni xenofobe – per “annunciare controlli con i servizi sociali e le eventuali scuole frequentate dei giovani protagonisti del video”. Va da sé che se i protagonisti del video non fossero stati di origine tunisina, marocchina o albanese con ogni probabilità non ci sarebbe stata tanta attenzione. 

Dopo la breve tempesta mediatica che attraversò le case popolari di Sinigo circa un anno e mezzo fa, verso la fine dello scorso febbraio viene caricato, sempre su Youtube, un altro video: “La fame” di Kash. Girato sulla falsariga del primo, racconta a suo modo la realtà vissuta da un gruppo di giovani che hanno scelto i versi del Rap per esprimere la propria rabbia e il proprio vissuto che certo non rispecchia l’Alto Adige da cartolina turistica, quello frequentato da ricchi italiani o tedeschi che vanno sciare in val Badia oppure sulle piste di Plan de Corones, pernottando presso lussuosi chalet. I loro versi raccontano una realtà sommersa costantemente criminalizzata, distorta, negata, che non conosce cronisti o reporter: familiari in carcere, l’esperienza della detenzione conosciuta o raccontata da altri, lavoro senza contratto, chi cerca di sbarcare il lunario in modo extralegale. Un proletariato che vive nei palazzoni dell’Ipes le cui origini sono rappresentate dalla bandiere che espongono nei loro video: Tunisia, Marocco, Albania o Kurdistan: “Ho fratelli di tutti i colori, di tutte le nazioni” canta Kash ne “La fame”. Sono dei video che fanno conoscere una realtà piena di contraddizioni e sconosciuta al “grande pubblico”, che ha trovato nei versi musicali il modo di raccontare se stessi e che ha trovato nell’immaginario di una certa scena della cultura Hip-hop -che piaccia o meno- un riferimento, un’ispirazione.

Il contenuto dell’ultimo video in particolare ha fatto sbroccare il consigliere provinciale di Fratelli d’Italia Alessandro Urzì il quale, come di consueto, attraverso i suoi post su Facebook ha completamente falsificato la realtà cercando in ogni modo di cavalcare e fomentare paura per raccattare consenso fra i residenti delle case IPES ed in generale di tutta la popolazione spingendosi in ardite ed assurde interpretazioni di situazioni che dimostra ampiamente di non conoscere. Interventi che dimostrano bene a cosa si può spingere la propaganda pur di tirare su due voti in più.

Basta riportare alcuni stralci del suo intervento su Facebok, a tratti davvero delirante:

E’ paura per i cittadini meranesi che vi hanno riconosciuto i garage e le cantine delle proprie case, palazzine Ipes, in cui sono state girate con grande professionalità queste scene che ritraggono, all’ombra di simbologie islamiche, un numeroso gruppo di ragazzi, uno mascherato con passamontagna che cede una pistola (non si vede l’estremità della canna e quindi non si vede se si tratta di una pistola autentica o di una riproduzione con il tappo rosso, che la qualifichi come giocattolo). […] Ho richiesto un intervento urgente dell’Istituto perché avvii una indagine interna sull’episodio che ora denunciamo, che siano informate le forze dell’ordine e ripristinato un clima di convivenza decoroso anche per rispetto di tutti i cittadini per bene che vivono nel rione e in particolare nei complessi Ipes”.

Bisognerebbe ricordare al signor Urzì che se c’è un partito che negli anni ha costruito consenso proprio attraverso l’istigazione all’odio ed alla discriminazione verso profughi, immigrati, dissidenti e altre minoranze è proprio Fratelli d’Italia, un partito fascistoide e nostalgico che, insieme alla LEGA di Salvini ha basato il proprio successo sulla paura e sulla guerra fra poveri. Un partito i cui membri non hanno nulla da insegnare a nessuno, sotto ogni punto di vista.

Naturalmente non poteva mancare un intervento della LEGA di Salvini, ed una sua consigliera provinciale, la meranese Rita Mattei, si è preoccupata di informare la presidentessa dell’IPES Francesca Tosolini, con cui ha fatto una visita presso le case in cui è stato girato il video incriminato. Anche riguardo alla LEGA si potrebbero scrivere migliaia di pagine sulla sua sistematica e scientifica istigazione all’odio verso stranieri, dissidenti politici, sinti, rom, che è stata portata avanti dai profili social di Matteo Salvini e dei suoi tirapiedi locali nel corso degli anni. Basta scorrere i commenti nelle pagine social dei leader dell’estrema destra Salvini e Meloni per comprendere chi siano davvero gli istigatori in questo Paese. Ad ogni modo va rilevato come non appena delle persone che provengono da case popolari facciano musica in un modo non ortodosso e non gradito alla narrazione ufficiale, i politici razzisti facciano subito leva sul ricatto economico e sociale: “chiederemo un inchiesta all’Ipes” minacciando così l’intera famiglia. Un modo per ricattare non nuovo e che a Trento ha visto la LEGA proporre di sfrattare l’intero nucelo famigliare dalle case popolari qualora uno dei figli -ad esempio- si renda responsabile di reati.

Ma in tutto ciò, la Procura decide di portare avanti una grottesca operazione poliziesca-spot ripresa dalla grancassa mediatica contro due giovanissimi rapper cresciuti nelle case popolari di Sinigo autori di un video musicale che rappresenta delle scene recitate, ed imbastire una fantomatica e fumosa accusa di istigazione a delinquere che sembra più che altro utile e funzionale a soddisfare la sete di repressione di ampi settori della società sudtirolese di entrambi i gruppi linguistici.  Un rancore seminato ad arte negli anni che aumenta nel momento in cui a prendere la parola sono dei ragazzi di origine straniera ma cresciuti qui e che hanno deciso di cantare alternando italiano, arabo, albanese o tedesco il proprio disagio per la propria condizione nella “migliore e più ricca delle province”. Una voce dissonante che viene dal basso; da ascoltare e da difendere contro ogni volontà di criminalizzazione da qualsiasi parte esso provenga: dalle aule dei tribunali o dai politici più reazionari.

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[Repressione] Tribunale di Bolzano: Carcere per chi manifesta

Il Tribunale di Bolzano condanna al carcere chi manifesta

La repressione è il nostro vaccino! Repressione è civiltà!

Gian Maria Volontè in:

Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto

Se tu penserai e giudicherai, da buon borghese, li condannerai a cinquemila anni più le spese

Fabrizio de André “La città vecchia”

Giovedì 4 marzo 2021 nelle aule del Tribunale di Bolzano, sotto la scritta la legge è uguale per tutti ed un grande crocifisso il giudice Ivan Perathoner ha condannato 10 compagni/e ad 1 mese di carcere ciascuno per aver partecipato ad una contestazione contro la Lega. Ad alcuni il signor giudice ha negato la condizionale. Tale sentenza si inserisce in un clima pesantissimo dove magistrati e giudici del Tribunale di Bolzano, su indicazione dell’ufficio politico della Questura cittadina ed altre pressioni, stanno tentando di reprimere le poche voci di dissenso esistenti in una città tanto benestante e borghese quanto spesso cinica e indifferente riguardo alle montanti ingiustizie che sempre più aumentano ed alla propaganda verso i più deboli – economicamente e socialmente – che è diventata da tempo sistema di governo e costruzione del consenso politico, a livello nazionale e interazionale come a livello locale.

Per il presidio nella foto il giudice Perathoner ha inflitto un altro mese di carcere ad ogni partecipante

Alcuni mesi fa sempre Perathoner ha inflitto altri due mesi di carcere a una decina di manifestanti antifascisti che nel dicembre 2018 in via Torino a Bolzano avevano contestato la presenza in città del leader neonazista Roberto Fiore, un personaggio a dir poco torbido in passato implicato nelle peggiori trame che hanno attraversato l’Italia degli anni settanta, venuto in città per la sua propaganda politica.

Il giudice Ivan Perathoner ha condannato 10 compagni/e a 2 mesi di carcere ciascuno per questa manifestazione

Oltre a ciò non c’è volantinaggio, presidio o altro che non sfugga e per i quali una certa parte della Procura è mobilitata, pronta ad aprire fascicoli e procedimenti contro chiunque capiti a tiro ed abbia la malaugurata idea di partecipare ad un presidio di lotta.

Da rilevare inoltre come nella stessa Procura altri novelli Torquemada come il Procuratore generale Giancarlo Bramante (il quale non ha ancora ufficialmente chiarito i suoi rapporti con l’intrallazzatore ex magistrato del CSM Luca Palamara, poi radiato dalla magistratura) coadiuvato dai colleghi Andrea Sacchetti e Igor Secco si inseriscano nello stesso filone repressivo tentando di far condannare a pene esorbitanti e volutamente sproporzionate, i manifestanti che nel maggio 2016 hanno partecipato alla manifestazione contro la costruzione del muro antimigranti al Brennero, avvenuta in un periodo particolarmente pesante in cui la propaganda di odio della Lega e dei neofascisti contro immigrati e profughi aveva raggiunto livelli parossistici (anche se il peggio doveva ancora arrivare, come dimostrato dall’esperienza di Salvini al ministero dell’Interno). Per tale giornata di lotta nel primo filone processuale, in cui una sessantina di compagni/e erano imputati di reati più o meno lievi, le condanne di primo grado sono state tuttavia pesanti (dai 7 ai 12 mesi a testa), considerato che di fatto è stata condannata la semplice presenza a tale manifestazione, sulla base di fotogrammi in cui in alcuni casi per un certo momento c’era chi aveva la sciarpa sul viso per coprirsi dal fumo velenoso dei lacrimogeni.

Nel secondo filone un’altra sessantina di compagni/e sono imputati di vari reati – fra cui devastazione e saccheggio: tipo di reato indefinito che a livello europeo esiste solo in Italia – per i quali l’accusa ha richiesto pene fino a 15 anni di carcere (ridotti di un terzo per via della scelta del rito abbreviato) e per cui la sentenza è prevista a maggio. Va da sé che siamo di fronte ad un processo con evidente obiettivo politico e sarà importante lottare per rompere l’agghiacciante silenzio esistente intorno a tale procedimento di sapore inquisitorio e per impedire che passino tali folli richieste.

Certamente non ci si può aspettare molto di diverso da chi deve per contratto – a maggior ragione in tempi di pandemia – difendere gli attuali rapporti di forza in una società in cui i ricchi diventano semprano più ricchi ed in cui i poveri, oltre ad essere sempre più poveri, vengono sistematicamente privati di ogni strumento di lotta e repressi proprio dalla magistratura in ogni minimo tentativo di riscatto sociale. Tuttavia è importante portare a galla alcuni ragionamenti e riflessioni che possono apparire scontati ma per molti, soprattutto oggi, non lo sono affatto.

La Lega di Matteo Salvini ed uno dei suoi seguaci bolzanini Filippo Maturi è un partito che da anni costruisce consenso sul generale imbarbarimento della società indirizzando la rabbia dei proletari italiani contro altri proletari. Alcuni anni fa il nemico erano i terroni, poi è arrivato il turno degli albanesi, poi la responsabilità è stata scaricata sui profughi delle guerre che gli stessi leghisti hanno voluto e votato. Come non ricordare le campagne infamanti contro i musulmani? Abbiamo buona memoria e ricordiamo ancora come i leghisti regionali protestarono contro la possibile apertura di una moschea in via Macello abbuffandosi di mortadella e prosciutto davanti alle telecamere insieme al fascista Borghezio. Oltre a ciò nel corso degli anni un leit-motiv leghista è stata la costante violenza contro omosessuali e minoranze etniche, la criminalizzazione di ogni sciopero, protesta, occupazione e campagna antirazzista; in generale di ogni movimento sociale dal basso. Come non ricordare inoltre le modalità di raccattare consenso di Maturi attraverso le idiozie pubblicate sui propri profili social? Dalle raccolte firme contro il Wi-Fi libero che causava assembramenti di immigrati alle delazioni che portavano allo sgombero di alcuni senzatetto dalle scuole Pascoli la lista di porcherie è lunga.

Scendere in piazza contro dei ciarlatani (fra cui Kevin Masocco la cui considerazione delle donne è ben dimostrata dal modo in cui parlava di una Dj tanto bella “da stuprare”) che seminano quotidianamente falsità e odio verso i poveri e che nel giorno in cui i compagni sono scesi in piazza contro di loro, chiedevano la castrazione chimica, è il minimo. Ma evidentemente per Perathoner o chi per lui il problema è la procedura, non è importante la sostanza, la cosa non ci meraviglia affatto ça va sans dire. Puoi anche fare la raccolta firme per la segregazione razziale purchè tu rispetti gli accordi con la Questura. Se ti chiami Matteo Salvini o Giorgia Meloni, sei potente ed hai consenso, attraverso i tuoi social puoi esporre al linciaggio pubblico il nemico del giorno (immigrati, oppositori, manifestanti) per anni, e stai pure sereno: nessuno dei zelanti giudici tanto ferrei contro chi si autoorganizza e lotta, da buoni interpreti della teoria del diritto penale del nemico, ti disturberà. Sembra una banalità dirlo ma è proprio vero l’adagio popolare che dice come “la legge si applica per i nemici e si interpreta per gli amici”.

Da alcuni anni a questa parte oltre agli anarchici – tradizionalmente nel mirino delle autorità di ogni epoca e contro cui agiscono spesso in modo preventivo – sindacalisti di base, militanti politici antagonisti come autonomi e NO TAV, ad essere oggetto delle attenzioni di zelanti procuratori ad ogni latitudine sono coloro che si adoperano per aiutare gli immigrati. Da una parte vere e proprie campagne mediatiche pubbliche di inaudita violenza contro i cosiddetti “buonisti” (cioè coloro che non si uniscono alla guerra ai poveri) che aiutano la cosiddetta “invasione”, dall’altro procuratori che imbastiscono inchieste come quelle condotte contro le ONG che salvano uomini, donne e bambini nel Mediterraneo o che, come recentemente accaduto a Trieste, hanno visto la polizia perquisire le abitazioni di Lorena Fornasir e Gian Andrea Franchi, conosciuti per le loro azioni di solidarietà nei confronti dei migranti provenienti dalla rotta balcanica. L’accusa mossa a loro ed all’associazione di cui fanno parte – Linea d’ombra- è di favorire l’immigrazione clandestina.

In generale è evidente come esista una generale volontà politica di intimidire quei pochi compagni combattivi che si organizzano per resistere a condizioni sempre più difficili per proletari di ogni colore e nazione. A maggior ragione nei tempi attuali – e probabilmente a venire – quando gli effetti della pandemia sull’economia verranno scaricati sulla classe lavoratrice e in generale sulle fasce sociali più deboli e con poca forza contrattuale rispetto alle organizzazioni dei padroni ed alla grande borghesia, impegnate a spartirsi i miliardi del Recovery Found, operazione per cui è stato chiamato Draghi al Governo.

La repressione nei confronti dei compagni e delle compagne condannati dal giudice suddetto del Tribunale di Bolzano va inserita in un quadro generale che vede gli spazi di dissenso sempre più stretti, a maggior ragione per chi non accetta e non accetterà le politiche capitaliste con cui viene gestita la pandemia e con cui verrà gestita la pandemia e le sue conseguenze sociali, economiche e politiche. Si annunciano tempi difficili in cui risulterà fondamentale la capacità di costruire solidarietà fra i proletari e in generale fra gli sfruttati, di fronte agli attacchi che arrivano e arriveranno da più parti.

Non lasciamo soli i compagni e le compagne che sono stati condannati da procuratori e giudici del Tribunale di Bolzano.

Contro la repressione costruiamo la solidarietà

Non lasciamo passare queste vergognose intimidatorie operazioni repressive secondo le quali manifestando il proprio dissenso verso chi pratica politiche razziste e di oppressione sia possibile finire in carcere.

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[Repressione] Appello processo “Operazione Renata” Dichiarazione imputati

Lunedì 22 febbraio si è tenuto l’appello del processo relativo all’operazione Renata con cui, nel febbraio 2019, la Procura di Trento ha arrestato 7 compagni/e. La sentenza ha confermato le condanne per 5 compagni/e mentre per altri 2 sono state aumentate. Riguardo gli arresti seguenti all’operazione Renata leggete ai seguenti link:

Opuscolo “L’amore, l’azione e lavita sono altrove: Note riflessioni, scritti intorno all’operazione Renata e la repressione anti-anarchica”

Operazione Renata. Storytelling provinciale per una strategia nazionale

Nel momento storico attuale, segnato da isolamento sociale, paura e crescente arroganza padronale, è importante più che mai rilanciare la solidarietà verso questi compagni e compagne generosi, sempre pronti a battersi nelle lotte degli sfruttati, ovunque essi siano, senza mettersi in tasca nulla. Pronti a giocarsi la propria libertà per quella degli altri. Si parte e si torna insieme.

Per dare un contributo, anche economico per sostenere le spese legali, trovate le informazioni necessarie al seguente link.

Pubblichiamo di seguito il testo Ai cuori ardenti che i compagni e le compagne imputati hanno scritto in occasione del processo di appello.

Ai cuori ardenti

premessa

In quali condizioni, in quale senso la storia si svolgerà in

seguito? Questi quesiti sono insolubili. Ciò che noi sappiamo

sin d’ora è che la vita sarà tanto meno inumana quanto più

grande sarà la capacità individuale di pensare e di agire.

Simone Weil

Sono passati due anni dall’operazione che ha portato ai nostri arresti e da quando, mesi dopo, abbiamo messo nero su bianco quel che avevamo da dire a riguardo. A tutt’oggi cinque di noi si trovano sottoposti a misure cautelari, in attesa del processo d’appello, misure che non vengono neppure conteggiate ai fini dell’esecuzione della pena. Un “obbligo di dimora” che nella realtà dei fatti appare come una sorta di “confino” trovandoci divisi e sparpagliati in varie parti della penisola. Ben più degno di nota, però, è quel che è accaduto nel frattempo. Possiamo dire senza troppi fronzoli che il mondo (ancora quello di là fuori, per alcuni e alcune di noi, ma a quanto pare non solo per noi) si sia letteralmente stravolto. L’epidemia di Covid19 ci ha sbattuto in faccia non solo quali possono essere le conseguenze dell’organizzazione sociale capitalista (con la devastazione della natura, due secoli di guerra industriale al pianeta che abitiamo, irresponsabilità scientifiche alla ricerca di soluzioni per un sempre maggiore profitto), ma anche quale può essere la risposta degli Stati per far rientrare i potenziali dissidenti in quelle stesse logiche rassegnatorie che hanno permesso di trovarci in questo duemilaventuno.

Così è arrivata l’alzata di spalle della “società democratica” di fronte alle stragi di Stato nelle carceri, che trovandosi tra le comodità dell’al di qua del muro ha lasciato soffocare le urla di quei detenuti che per primi hanno alzato la testa. Quelle urla di disperazione hanno trovato una società capace di “accettare” la quotidianità del coprifuoco, una società capace di adattarsi essa stessa alla logica della carcerazione. Questo dobbiamo constatare: da qui, dall’abitudine ad una normalità sempre più spaventosa nasce quell’indifferenza, trasformandosi poco a poco nell’incapacità di uno spirito critico anche per tutto il resto: d’un prendersi cura l’uno dell’altro, d’una solidarietà concreta, resa “illecita” e “criminale” senza dubbio dalle operazioni repressive, ma forse ancora di più dalla rassegnazione a vedere la Verità solo negli slogan di Stato (come dimenticare le bandiere ai balconi, i “distanti ma uniti”, i “siamo tutti sulla stessa barca” ed infine la fiducia nella Scienza come unico “dio salvatore”). Come un colpo di spugna sullo scontro reale e di classe, la digitalizzazione del mondo, presentandosi come una fuga da una realtà che “è meglio non vedere”, non può che accelerare questo processo di distacco dal mondo. Sono messaggi del nostro tempo che dobbiamo cominciare a vedere chiaramente.

Ma oltre a cercare di vederci chiaro, siamo tra quelli che cercano di guardare lontano per trovare la forza di battersi qui, perché il terreno internazionalista è ciò che dà il senso a tutte le lotte per la libertà. E non ci è certo sfuggito che in moltissime parti del mondo centinaia di migliaia di oppressi si stanno battendo contro misure di contenimento che hanno tutto del militare e poco del sanitario, contro le sistemiche violenze della polizia, contro regimi sempre più autoritari.

È forse per questo che la sfilza di operazioni poliziesche che si sono abbattute contro anarchiche e anarchici in questi due anni mostrano misure e strategie sempre più repressive. Arresti dichiaratamente preventivi per evitare che si «soffi sul fuoco» del malcontento sociale, accuse di terrorismo a chi ha resistito ad un pestaggio in carcere, l’infamante accusa di strage come nuova arma repressiva per seppellire compagne e compagni sotto decine di anni di carcere (come le condanne pesantissime dell’operazione Scripta Manent e il processo in corso a Juan).

Ma questo deve essere letto nel presente che stiamo attraversando. Se, per esempio, viene definito “complottista” (quando non addirittura, vanificando il significato storico del termine, marchiato con la categoria di “negazionista”) chiunque non accetti il pacchetto pronto dello Stato su qualsiasi fronte, imponendo la via unica del silenzio-assenso, non c’è da stupirsi che un gruppo di anarchici venga accusato di “istigazione a delinquere” o processato per “associazione sovversiva” per aver, tra le altre cose, evidenziato (perché non si tratta di chissà quali teorie innovative, basta aprire la finestra) come e perché le responsabilità dell’organizzazione sociale capitalista siano le effettive cause della nascita e della diffusione di questa come di altre epidemie, delle guerre, dello sfruttamento.

Lo leggiamo anche tra le carte che ci portano all’appello dell’operazione Renata: dove una rivista anarchica diventa lo spazio per «le finalità dichiarate dall’associazione» – come una premessa certamente utile all’accusa di “terrorismo” – poiché vi si afferma l’ovvietà del fatto che un processo rivoluzionario non possa «escludere anche forme di lotta violenta». Lorsignori, con la cocciuta ostinazione a voler far rientrare l’anarchismo nelle logiche gerarchiche del processo penale, cercano di incolpare chi esprime ciò che è ovvio del fatto che… «qualcuno prima o poi finirà per crederci»: se non fosse il tragico tentativo di aumentare gli anni di galera risulterebbe perlomeno grottesco.

Come poteva essere prevedibile, la dichiarazione scritta in occasione del processo di primo grado –“Ai cuori ardenti”, che segue questa premessa – non ha tardato ad arrivare sulle scrivanie di diverse Procure. Ma noi non cerchiamo certo giustizia dove non si può trovare, e siamo consapevoli che sia anzitutto la sproporzione dei rapporti di forza in campo a concedere terreno alla spavalderia repressiva dello Stato. Solo quando le lotte riescono a prendere spazio si fanno più chiari i ruoli della società in cui viviamo, anche quelli della farsa giuridica, e si fanno meno efficaci le armi della repressione. Per questo riteniamo che questo duemilaventuno sia anche il frutto di uno spirito rivoluzionario inconsistente e reso muto, se non del tutto incapace di immaginarsi. Ma sappiamo anche che ci sono strade (im)possibili che possono cambiare le cose. Scriveva Bakunin all’alba della Comune di Parigi: «è ricercando l’impossibile che l’uomo ha sempre realizzato il possibile». Lo sappiamo noi come lo sanno tutti gli anarchici e le anarchiche che in ogni angolo del mondo ora si trovano dietro le sbarre. A loro mandiamo il nostro saluto, la nostra complicità, la fervente solidarietà che ci anima nell’azione. Lo facciamo oggi come lo ricorderemo domani se ci troveremo di nuovo tra le strette mura di una cella.

Sì, continueremo ad essere testardi perché sappiamo che è solo con questo spirito che si potrà guardare avanti, per continuare a battersi per la libertà, adoperandoci con i mezzi che più riterremo adatti e consapevoli di avere di fronte un nemico che, spontaneamente, non farà alcun passo indietro. Il battito che sentiamo non potrà mai essere percepito dal giudizio di un’organizzazione sociale figlia del profitto e della competizione. Guardiamo oltre per vederci chiaro. Ma per questo non sarà sufficiente rivolgere lo sguardo alle nostre mani e alle nostre menti.

Occorre rivolgerlo soprattutto ai nostri cuori.

I nostri cuori ardenti.

Trento, 22 febbraio 2021

Stecco, Agnese, Rupert, Sasha, Poza, Nico e Giulio

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[Memoria storica] Il sottile filo tra Rosa Bianca e Sudtirolo

Il collegamento tra la Rosa Bianca e il Sudtirolo non è molto forte: è un filo sottile, un decreto del rettore dell’università di Innsbruck dove era iscritto Christoph Probst.

Die Weiße Rose

Quando viene ghigliottinato insieme a Sophie e Hans Scholl, Christoph Probst aveva 24 anni. Dopo quel 22 febbraio 1943 verranno condannati a morte anche Kurt Huber, Willi Graf e Alexander Schmorell, mentre altri componenti della Weiße Rose, la Rosa Bianca, verranno condannati a diversi periodi di prigionia.

Monumento all’Università Ludwig Maximilian di Monaco, dedicato al gruppo della Rosa Bianca.

Probst non era una figura centrale del gruppo, anzi venne ghigliottinato insieme a Sophie e Hans solo perché quest’ultimo aveva addosso una bozza di volantino redatta da Christoph. Accanto ai “fratelli Scholl”, il suo finisce per essere un nome collaterale nella memorialistica e nelle cerimonie, anche in Sudtirolo e in particolare a Bolzano. Il capoluogo ha infatti dedicato ai fratelli Scholl uno spiazzo in via Roma e promesso un cippo commemorativo, anche per affinità rispetto ad una parte della locale Resistenza di stampo cattolico e non violento, lasciando così Probst sullo sfondo nonostante la sua storia abbia un risvolto importante per la memoria locale.

Verraten – Vertrieben – Vergessen

Traditi, cacciati e dimenticati: così è intitolato il libro che ripercorre la storia dei neurochirurghi di origine ebraica che hanno subito le persecuzioni naziste a partire dal 1933: se molte di queste storie culminavano o con l’esilio, o con la morte, il punto di partenza era quello della privazione dei titoli accademici e professionali. Solo lentamente e in seguito all’Historikerstreit e all’affare Waldheim le università tedesche e austriache hanno iniziato a riconoscere questi aspetti problematici delle proprie storie, decidendo di rendere onore pubblicamente a quelle che erano state “doppiamente vittime”: durante il regime nazionalsocialista, perseguite; in seguito, il fallimento della denazificazione delle università si era accompagnato al mancato riconoscimento dei torti e alla continua esclusione di questi accademici.

Documento con cui l’Università di Innsbruck dedica una targa a Probst nel 1984

Lo stesso è accaduto con Christoph Probst, che in seguito – il giorno stesso! – alla condanna a morte era stato escluso dagli studi da qualsiasi università tedesca. Un torto cui l’università di Innsbruck ha rimediato solo dopo decenni, cominciando a ricordarlo ufficialmente a partire dal 1984 e riabilitandolo solo nel 2019, 76 anni dopo quel 20 febbraio 1943 e a cento anni dalla sua nascita.

Der Fall Klebelsberg

Il decreto con cui Probst veniva „dauernd vom Studium an allen deutschen Hochschulen ausgeschlossen“ portava la firma di Raimund von Klebelsberg, rettore dal 1942 fino alla fine del conflitto dopo essere già stato ordinario di geologia e rettore nell’anno accademico 1933/1934. Considerato un luminare della glaciologia, Klebelsberg era da anni attivo anche sul fronte politico: oltre ai diversi ruoli nel DÖAV, il club alpino tedesco e austriaco, si era più volte espresso a favore dell’Anschluss e in termini antisemiti, tanto da iscriversi poi all’NSDAP, il partito nazionalsocialista.

Il rettore brissinese Klebersberg durante una conferenza a Venezia nel 1944

Prima di venire nominato rettore dai nazisti, Klebelsberg era stato il promotore della ridenominazione dell’università da Leopold-Franzens-Universität a Deutsche Alpenuniversität, portando a compimento un percorso di lungo periodo di spostamento dell’università a sostegno del nazismo e dell’annessione.

Raimund von Klebelsberg era anche un sudtirolese, nato a Bressanone nel 1886 da una famiglia aristocratica.

Vorbilder für die Jugend

Nel dopoguerra Klebelsberg verrà deposto da rettore e poi sospeso per tre anni in seguito alla denazificazione, ma sarà reintegrato e così anche in sudtirolo ci sarà chi vorrà onorare il professore e famoso scienziato: “Klebelsberg gehört nicht nur zu den bedeutendsten Persönlichkeiten Tirols; er kann auch uns Lehrern und der studierenden Jugend ein Vorbild sein“, si legge sul volantino che festeggia l’intitolazione a Klebelsberg del Realgymnasium di Bolzano, nel 1981.

Che questo fosse un modello ben poco d’esempio viene subito messo in discussione dalla giovane generazione di storiche e storici che in quegli anni cambieranno la storiografia del sudtirolo, per le quali proprio il caso Klebelsberg avrà un’Eisbrecherfuktion: primo fra tutti Leopold Steurer, nello Sturzflüge monografico sulla storia (e persecuzione) degli ebrei in tirolo del 1986 e poi nella discussione pubblica che lo vedrà pubblicamente attaccato e insultato nello spazio delle lettere della Dolomiten.

Non è stato l’unico caso di personaggi del nazionalsocialismo eletti a modello per i giovani, con l’intitolazione di scuole e non solo. Come scrive Martha Verdorfer, i nomi degli istituti scolastici sono un indicatore dell’immagine del passato dominante, perché sono parte della cultura della memoria e rappresentano la rappresentazione di sé dei diversi gruppi linguistici. In questo senso assistiamo ciclicamente a dibattiti simili relativi all’odonomastica, per le vie intitolate a Luigi Cadorna e non solo. Se il liceo scientifico tedesco ha cambiato nome nel 2000 e solo nel 2014 una scuola media di Merano ha smesso di essere intitolata a Josef Wentner nel 2014, ancora oggi nel capoluogo abbiamo un’altra media dedicata a Josef von Aufschneiter.

Christof Probst

Ci sono voluti quasi quindici anni di impegno di insegnant*, student* e sudtiroles* per arrivare alla cancellazione del nome di Klebelsberg, solo in seguito ad un parere richiesto proprio all’università di Innsbruck nell’ennesimo, disperato tentativo di “salvare” un personaggio indifendibile. Vent’anni dopo il liceo è ancora senza nome: sono già state fatte molte proposte, tra cui quella di Josef Mayr-Nusser, sudtirolese rifiutatosi di giurare al Reich e morto sul treno che lo deportava. Forse insieme ai mazzi di rose bianche , le targhe e i cippi commemorativi, la città di Bolzano, l’amministrazione provinciale e l’istituto potranno decidere di dedicare la scuola allo studente di medicina Christoph Probst, antinazista punito anche dopo la morte da Raimund von Klebelsberg. Non un eroe, ma un ragazzo che ha continuato in ciò che era giusto: Un perfetto rovesciamento capace di essere veramente un modello per i giovani.

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[Memorie di classe] “Il battito di una farfalla in val di Mazia….” Ricordi dalla sezione meranese del PCI

Dove si racconta di un Partito che non esiste più, di un’amena città di frontiera e di un giovane perduto tra le montagne della morte

Devo essere sincero. Non sono più così convinto della mitologica epopea del Partito Comunista Italiano.

A quel tratto della mia vita in cui vi militai, in una piccola città di frontiera, non avevo mai dedicato un serio sguardo retrospettivo; anche se è innegabile che per me abbia costituito un percorso di formazione, una sorta di magnete capace di attrarmi anche in seguito, verso la partecipazione politica attiva.

Che ero di sinistra lo compresi all’improvviso in una torrida giornata di maggio, presso un’aula delle scuole medie Segantini, in via Trenta aprile a Merano. Verso la fine dell’anno scolastico era consuetudine dei professori concedersi qualche divagazione dal rigido canovaccio dei programmi ministeriali. Giusto per snocciolare, in rapida carrellata, una serie di eventi storici a noi un po’ più prossimi di Menenio Agrippa o di Enrico Primo, l’Uccellatore di Sassonia.

Così seppi in pochi istanti di quel fenomeno chiamato Rivoluzione industriale, della nascita del proletariato urbano inglese, del feroce sfruttamento in nome dell’accumulazione, della diaspora dalle campagne verso la miseria dei nuovi ghetti urbani, dell’alienazione della fabbrica e dell’idolatria verso il nuovo Dio-Macchina.

Ma anche della nascita del mutuo aiuto e della solidarietà di classe, del luddismo e delle Gilde operaie, delle lotte per arginare lo strapotere dei padroni, delle teorie di un certo Carlo Marx e del suo amico Federico. Fu come un’illuminazione: Minchia! Ma allora erano tredici anni che mi prendevano per il culo!

Ora lì per lì non ricordo bene come concretizzai quello slancio. Ricordo però lo sguardo di malcelata compassione che l’anziano bidello riservava ai miei goffi comizi da corridoio.

L’occasione per farmi sotto arrivò per me solo dopo diversi anni, verso la fine delle scuole superiori.

Era in voga a quell’epoca in Sudtirolo, la tradizione di sottolineare la propria rigorosa appartenenza etnica con la deflagrazione di cariche di tritolo. E non che poi nella quotidianità abbondassero le occasioni per socializzare con i coetanei dell’altro gruppo etnico, tutt’altro. Il nostro istituto per fare un esempio, era in un Polo scolastico multilingue, ma i corridoi che ci collegavano con le scuole tedesche erano chiusi a chiave, gli orari della ricreazione e di uscita erano sfalsati, i gruppi sportivi e i luoghi ricreativi erano diversificati. Tutto purchè non ci si incontrasse mai. Un sostanziale regime di Apharteid morbido e non dichiarato. Lo spauracchio più grande delle classi dirigenti era la GemischtKultur, l’esistenza dell’altro gruppo etnico era tollerata a malincuore. Bisognava blindarne i confini e limitare le contaminazioni, così si controllavano meglio i consensi agitando lo spauracchio del “diverso”.

Fine anni 80 : Manifestazione in piazza del grano a Merano

Noi a dire il vero c’eravamo non poco rotti i coglioni di quella faccenda, semplicemente non era storia nostra, non avevamo ancora vent’anni e sul rancore prevaleva la voglia di stare insieme. Volevamo conoscerci, discutere, innamorarci, anche se facevamo un po’ di fatica a comprenderci.

Così nacque il Comitato interetnico studentesco, le assemblee nelle scuole con i boicottaggi dei presidi bigotti, i primi volantini, le riunioni fiume e le manifestazioni.

Fu breve ma intenso e ci rimase addosso una strana carica galvanica. Con un piccolo gruppo continuammo a vederci, più che altro in biblioteca o in qualche stanzetta messa a disposizione dalla CGIL.

All’epoca ero onnivoro e in preda ad una bulimia cannibale; mi nutrivo dei testi di Renzo del Carria ,e sognavo proletari senza rivoluzione, leggevo Balestrini e Franco della Peruta, ma anche libri come Mara Renato ed io di Franceschini; mi inabissavo nella storia dei movimenti studenteschi del 68 e del 77, evocavo l’orda d’oro con qualche migrazione caraibica da manuale Guevarista. Spesso vagavo tra le giungle vietnamite, ma con frequenti incursioni nei tropici del miraggio sandinista. Quella febbre rossa mi esaltava, evocava in me rivolte e libertà indicibili, muscolosi picchetti notturni e amori guerriglieri su imbarcazioni d’Orinoco. In preda a questo stato si può arrivare a tutto, persino a infliggersi il tormento dei canti del movimento di liberazione dell’Angola.

Dato un simile quadro clinico, appare evidente che l’ entrare nelle file dell’austero Partito Comunista cittadino non mi passasse neppure per la mente, perché, come sottolineava pure il poeta genovese, a un Dio Fatti il culo non credere mai!

Però, c’era un però, eravamo pur sempre a Merano, l’amena località termale casa di cura a cielo aperto di decrepiti benestanti bavaresi. E a noi sembrava di soffocare. Dove volgere lo sguardo? Dov’era l’uomo in rivolta, o quantomeno gli attivisti residui delle passate generazioni? Perché nulla si muoveva nella capitale dello Jaegermeister e delle partite di Hockey su ghiaccio?

Così cedetti, io sventurato risposi. Furono le lusinghe persistenti di Luigi, il più erudito tra noi, l’unico che forse Marx lo aveva letto veramente, invece di evocarne a caso visioni di spettri vagabondi.

Fu allora che oltrepassammo la soglia di via Portici 204, dove si narravano le gesta del compagno Carraro che respinse l’assalto dei fascisti, armato soltanto di una sedia. Come sede diciamolo, era una vera schifezza, quattro tavolacci instabili con sedie d’ordinanza su un pavimento di legno sghembo e manifesti elettorali di discutibile attrattiva alle pareti. Ma nell’angolo in basso a sinistra, formidabile e gagliardo, anche se non di primo pelo , il ciclostile a matrice d’inchiostro. Il vero sex appeal dell’inorganico! Forse fu lì che c’innamorammo, e detto fatto fondammo la Federazione giovanile Comunista, occupando militarmente uno sgabuzzino maleodorante, le cui pareti si popolarono in breve di graffiti allucinati e ritratti beffardi dei padri fondatori.

Forse non lo dovrei dire, ma quel posto mi è rimasto nel cuore, non foss’altro perché è li che feci per la prima volta l’amore, sotto un torvo ritratto di Palmiro Togliatti a cui qualcuno aveva proditoriamente disegnato un cazzo in testa.

Lavoro politico nell’austera sede del PCI in via Portici

Ora non vorrei dilungarmi, però credetemi le riunioni serali del direttivo cittadino non sono annoverate negli archivi dei miei ricordi, alla la voce “Pelle d’oca”. Però in quegli anni ci demmo da fare, agli inizi eravamo quasi tutti italiani, Luigi, Sonia, Stefano, Gianluca, Marina, Claudio, Patrizia, Alessandra, Maria e altri di cui non ricordo il nome, un gruppo poco nutrito di quarantenni miglioristi e i “vecchi”, la vera ossatura della sezione. Tra loro capitava talvolta pure qualcuno che provasse a buttarti li “ anche le cose buone che aveva fatto il compagno Stalin”. Però alla fine, per una questione di affetto erano proprio i vecchi che mi piacevano di più. Quei testardi e permalosi organizzatori di feste dell’unità al Cavallino Roessl, dove la cosa più giovanile che ti potesse capitare era un giro di liscio sulla pista da ballo. Soprattutto mi piaceva Vladimiro, un medico in pensione appena trasferito da Roma che curava la gente senza soldi e senza diritti ed era capace di scegliere le parole giuste per arrivarci al cuore. Ironia della sorte fu proprio il cuore a tradirlo e ci lasciò soli nel pieno di un Congresso Provinciale.

Poi c’erano i transfughi , quelli che si raccoglievano intorno alla figura di Alexander Langer e alle liste dei Verdi, la scena politica più interetnica della sinistra sudtirolese. Via via iniziò allora a manifestarsi una realtà alternativa che prima non ero stato capace di vedere, a volte magari dai tratti un po’ altezzosi o maledetti, come i gruppi più artistici del Theater in der Klemme, o i circoli dei punk tedeschi di Lana o Cortaccia.

Intanto la vita di Partito procedeva e noi eravamo diventati maestri inchiostratori emuli del Piranesi, capaci di dare vita a diversi numeri di riviste che non mi dispiacerebbe avere ora tra le mani. Alice Resiste, fu l’ultima nostra creatura, ma già avevamo litigato tra di noi, in osservanza al dogma che vuole ogni movimento di sinistra , consumato tra faide intestine e scissioni molecolari.

Ricordo però raccolte firme a profusione, interviste radiofoniche con Gigi Bortoli ed Enzo Nicolodi, campagne elettorali in cui eravamo sempre i primi dei non eletti, affissioni notturne con bagni di colla incorporati, viaggi epici per interscambi culturali con la gioventù socialista dell’isola di Tenerife, cene di gala coi dirigenti romani, tra cui riaffiora ancora l’inspiegabile voracità del compagno Fassino.

Un giorno per puro sfregio, durante l’affollatissima festa della città, issammo da una finestra di via Portici, il bandierone dell’Unione Sovietica a garrire indomito nel cielo. Ricordo distintamente che i commercianti del centro storico aprirono la caccia all’uomo, e credo ci volessero proprio ammazzare. E dire che mi era sempre stata sul cazzo l’Unione Sovietica.

Una volta, mi pare fossero le elezioni europee, dalla sede di Bolzano ci fecero sapere che serviva un volontario per fare da ispettore di seggio. Si trattava di presenziare allo spoglio elettorale e comunicare in tempo reale tramite telefono a gettoni, i risultati direttamente a via Botteghe oscure. Insomma una forma primordiale di exit poll. Potevo farmi scappare un’occasione così ghiotta?

Solo il giorno seguente mi comunicarono che la destinazione del mio slancio volontario era l’oscuro abitato di Mazia, villaggio tra i ghiacci eterni a 1700 metri di altitudine, nelle alpi retiche, al termine di un incubo di tornanti chiamato strada. Nessun mezzo pubblico arrivava fin lassù, così dovetti appoggiarmi ad una prosperosa massaia di Malles che ogni tanto organizzava un servizio navetta. Nel viaggio proferì solo una frase, ma dal suono vagamente sinistro: cosa fare tu lassù, che qvelli restano isolati là per dieci mesi all’anno? L’impatto coi residenti non deluse infatti le aspettative, e fui accolto dal lancio di sfere di sterco da parte di orde di bambini deformi. E da quell’allegria di sguardi tipica delle taverne transilvane quando nomini a voce alta il nome del conte Vlad. Mi barricai nella camera dell’osteria a leggere Pavese, ma più che altro a temere per la mia vita.

Allo spoglio delle schede sulle prime rimasi interdetto; credevo di masticare un po’ di tedesco ma non ero preparato alla ricchezza arcaica di linguaggi sopravissuti a svariate invasioni barbariche. Nessuno mi rivolgeva la parola, ero un puro oggetto del disprezzo colletivo. Io però ero pronto a tutto, non potevo esserre arrivato lassù tra i Carpazi a rischio della mia stessa vita, per rimediare un pugno di mosche. Mi vedevo umiliato e offeso da intere commissioni disciplinari pronte a invocare il mio trasferimento coatto nelle taighe siberiane. Cosi bleffai dicendo loro che se non mi comunicavano in idioma a me comprensibile, i dati elettorali, avrei telefonato al segretario Occhetto in persona, e quello non era mica uno che scherzava. La minaccia stranamente non li persuase, e fu solo un timido professore calvo, presumibilmente ecologista, che si mosse a pietà rivelandomi gli agognati risultati.

Al solito la posta se la divisero Silvius Magnago ed Eva Klotz, con un voto ai verdi ascrivibile all’ambientalista calvo, e un più misterioso voto all’MSI. A tarda notte uscii per correre a rifugiarmi nella mia camera. Per un attimo incrociai lo sguardo di un carabiniere di guardia al seggio.

Cartoline dal ridente paese di Mazia

Questo è tutto, una manciata di ricordi buttata sul tavolo a casaccio e poi arrivò la svolta della Bolognina come una doccia fredda, le tre mozioni di Occhetto, Ingrao e Cossutta, l’agonia delle votazioni nei vari circoli e la morte sopraggiunta per consunzione del paziente.

A distanza di tanti anni però nessuno potrà togliermi la convinzione che l’inizio del declino del glorioso Partito non risiedesse proprio là, nella follia di quella scelta di un campione azzardato per la valutazione dei futuri trend elettorali.

Come si dice, il battito di una farfalla in val di Mazia, può provocare il crollo del muro di Berlino.

Marco

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