[Bolzano/Violenza di genere] La solidarietà contro la solitudine

Nel marzo 2019 in via Claudia Augusta a Bolzano, M. C., una donna che aveva già denunciato le violenze del marito e che da poco tempo viveva in una comunità protetta, venne raggiunta e accoltellata davanti alla figlia con colpi al collo, al volto e all’addome. Come riporta l’associazione GEA “A causa dell’aggressione è rimasta a lungo tra la vita e la morte, il suo corpo stava collassando. Eppure ce l’ha fatta per sé e per le tre figlie. Uscita dall’ospedale, è stata in istituto di riabilitazione fino all’estate 2019. E solo a quel punto si è riunita alle sue figlie e da allora vive in alloggi protetti”.

Un tentato femminicidio che sarebbe andato ad aggiungersi ad una lunga serie di delitti dello stesso tipo avvenuti in Provincia di Bolzano negli ultimi anni. Oltre alle donne uccise nel corso degli Ottanta dal serial killer Marco Bergamo, negli ultimi anni ricordiamo almeno i nomi di Svetla Fileva, donna bulgara 30enne assassinata a coltellate nel 2012 da un giovane sudtirolese. Nel 2017 in Viale Europa a Bolzano una donna marocchina venne accoltellata 5 volte dal proprio marito. Altre 5 uccise in Alto Adige nel corso del 2018: Monika Gruber, Nicoleta Caciula, Rita Passarotti, Alexandra Riffeser, Magdalena Oberhollenzer. Nei primi giorni del lockdown 2020 venne uccisa ad Appiano Barbara Rauch, da un uomo che da tempo la perseguitava. Sono solo alcuni dei nomi che dovremmo sempre tenere a mente per dare un volto alle aride cifre statistiche che ci raccontano come, solo in Italia, nel corso del 2018 siano state 133 le donne uccise, mentre 111 furono nel 2019. E troppi nomi, volti, li dimentichiamo, colpevolmente. Non si contano poi i casi di violenze domestiche ai danni di donne, spesso costrette a tacere per mancanza di possibilità economiche e concrete vie di fuga. Una realtà in gran parte sommersa che svela come la “famiglia” si trasformi spesso in un incubo capace di rendere la vita in casa un inferno da cui è difficile scappare, senza rischiare feroci vendette da parte del marito o fidanzato.

Bolzano e l’Alto Adige in generale si conferma come sia affatto l’isola felice che gli indicatori economici spesso descrivono.

Ma tornando al tentato femminicidio di via Claudia Augusta l’uomo autore del tentato assassinio è stato nel frattempo liberato in attesa dell’esito del processo e ciò ha evidentemente contribuito ad accrescere la paura della donna. Negli ultimi mesi del 2020 è partito il processo e qualcosa si è mosso nella parte della società più sensibile e determinata a reagire contro tali ingiustizie strutturali. L’associazione bolzanina GEA-per la solidarietà femminile contro la violenza ha organizzato dei presidi davanti al Tribunale di Bolzano per far sentire ad M.C. e con lei a tutte le donne nella sia situazione, il calore della solidarietà.

Il manifesto che ha pubblicizzato il presidio di solidarietà ad M.C. di fronte al Tribunale di Bolzano

Una presenza fondamentale in un periodo, quello del processo, che non è affatto sinonimo di giustizia ma spesso diventa un momento in cui il dolore aumenta e in cui la maggioranza delle persone si trovano sole di fronte all’imponente, glaciale ed asettica macchina amministrativa della Giustizia. Quante volte ad esempio un processo contro gli stupratori si è trasformato in un processo contro le stuprate? Ricordiamo le domande che ad esempio l’avvocato dei carabinieri autori delle violenze sessuali ai danni di due turiste a Firenze un paio di anni fa, fece loro durante l’udienza. Domande umilianti che intendevano rovesciare le responsabilità della violenza.

Troppo spesso inoltre, dopo lo spegnimento dei riflettori mediatici chi ha subito una violenza da parte del proprio partner si ritrova sola, con energie e risorse, morali ed economiche, limitate, ad affrontare un processo che invece di energie e resistenza ne richiede tanta.

Alcuni dei tanti cartelli esposti durante i presidi di solidarietà

É proprio in momenti del genere che si vede l’importanza di tradurre le idee in azione reale, fisica, costruendo la solidarietà là dove ci vorrebbero soli, isolati, incapaci di organizzarci. Un’azione che rompe la virtualità e l’isolamento telematico in cui ci vorrebbero confinati che riesce con la sua apparente semplicità, a rompere la tragica normalità di oppressione, prepotenze e sopraffazione che molte vivono con disperata rassegnazione. Un presidio con un significato che va al di là delle prima impressioni ed i cui effetti si riverberano fra chi ne ha abbastanza di stare in silenzio.

Durante i cortei femministi si urla uno slogan bellissimo che si applica perfettamente alla situazione di M.C. ed alla mobilitazione in corso a Bolzano: Siamo il grido altissimo e feroce di tutte quelle donne che più non hanno voce. Ecco forse da sola M.C. non ce l’avrebbe fatta e solo la solidarietà e la voglia di lottare di alcuni solidale e complici ha permesso a lei di riottenere la voce.

foto presa dal web di una manifestazione femminista

La presenza solidale di fronte al Tribunale di alcune decine di donne e uomini con cartelli, striscioni densi di significati e non di generiche parole d’ordine, oltre a dare forza alla donna colpita dimostra al “quasi assassino” come la questione non sia affatto privata ma che al contrario riguarda tutti coloro che odiano ingiustizie e sopraffazione. La presenza solidale fuori dal Tribunale racconta che alcune persone hanno deciso di non voltarsi dall’altra parte. Là dove avrebbe potuto esserci disperazione e solitudine hanno dimostrato che è possibile costruire solidarietà reale, al di là delle frasi fatte, spesso stucchevoli, recitate nelle ricorrenze ufficiali. Come hanno scritto in un comunicato le organizzatrici della prima manifestazione di ottobre la differenza fra realtà e retorica è profonda: “Certo, è stata posizionata una panchina rossa nel luogo in cui M.C. è stata aggredita. Ma a lei non serve né interessa. Vive nella paura. Non comprende perché lei e le bambine debbano vivere in protezione e il suo aggressore è libero. M.C. la proteggiamo noi. Chiediamo protezione per lei e attenzione per tutte le donne, non per il 25 novembre, non per l’8 marzo, tutti i giorni”.

M.C. la proteggiamo noi

Ancora una volta grazie alle donne, anche in una città spesso ostile e fredda come Bolzano, c’è un cuore che batte ed un’altra piccola crepa nel muro dell’indifferenza si apre, è tempo di farlo crollare.

Foto da una presidio solidale con M.C. di fronte al Tribunale di Bolzano

Cartelli solidali con M.C…Non sei sola

Striscione di alcune/i compagne/i. solidali e complici. “Contro la violenza del patriarcato e la cultura dello stupro. Non sei sola. Solidarietà, complicità e azione diretta.”

Nell’udienza di martedì 12 gennaio, a causa delle manifestazioni di fronte al Tribunale, la difesa dell’uomo ha chiesto un nuovo rinvio. La Cassazione deciderà se il processo deve proseguire a Bolzano o in un’altra corte. Secondo l’avvocato Nicola Nettis l’uomo “non sarebbe sereno” con le manifestazioni di solidarietà alla donna davanti al tribunale e la presenza delle associazioni potrebbe secondo loro influenzare le scelte dei giudici. Siamo felici di sapere che un briciolo, seppur piccolo, della paura e del dolore che lui ha inflitto per lungo tempo torni indietro ma non si può fare a meno di constatare la vigliaccheria di un uomo che finchè spadroneggiava fra le mura di casa si sentiva un uomo forte, un padre-padrone, mentre ora che la sua miseria viene allo scoperto di fronte agli occhi di tutti, inizia a tremare.

Ad ogni modo egli stia pure tranquillo, così come l’avvocato Nettis: il processo potrebbe anche essere – nell’eventualità più folle, assurda e ingiustificata – trasferito nell’angolo più sperduto d’Italia ma ormai la scintilla è partita e sappino che la solidarietà non conosce confini e in ogni dove ci sono donne, compagne e compagni disposti a proteggere ed abbracciare M. e la sua sete di giustizia, che è anche la nostra. Alla prossima. NON SEI SOLA.

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[Revisionismo storico] I “lager partigiani” secondo Ettore Frangipane

Nel testo Tesi di filosofia della storia, Walter Benjamin metteva in guardia contro un nemico dotato del potere inaudito di modificare il corso stesso della storia passata: «Neppure i morti saranno al sicuro dal nemico, se vince. E questo nemico non ha smesso di vincere». Se ciò apparve già vero nell’immediato dopoguerra, con i partigiani perseguitati ed i nazifascisti graziati e subito liberi di organizzarsi, si conferma sempre di più negli ultimi anni, con leader politici che ammiccano in modo sempre più esplicito al fascismo ed alla sua eredità politica, banalizzando oppure rivendicando apertamente le tragedie del passato, con l’assessore all’Istruzione del Veneto Elena Donazzan che utilizza la propria posizione per legittimare e rivalutare il fascismo ed il suo corollario razzista ed imperialista. 

Sul quotidiano Alto Adige del 10 gennaio 2021 il giornalista Ettore Frangipane si è esibito nell’ennesimo capitolo di revisionismo storico a buon mercato che ormai in Italia da diversi anni trova fortuna fra gli editori.

Ma prima di parlare della sua ultima “fatica” facciamo un passo indietro di alcuni anni. In un articolo pubblicato sullo stesso giornale il 30 settembre 2012 lo stesso autore scrisse un testo in cui, parlando delle “vittime” sudtirolesi della seconda guerra mondiale, raccontava dei 33 corregionali arruolati nell’Esercito nazista che vennero uccisi in un attentato compiuto dai Gruppi di azione patriottica (GAP) romani in via Rasella. Secondo il giornalista sportivo improvvisatosi storico l’attentato venne “ordito da partigiani che non si autodenunciarono, come gli occupanti tedeschi pretendevano”. Le solite balle senza fondamento ripetute da anni ma che evidentemente sono sempre buone per chi, come Frangipane ha interessa a calunniare la Resistenza. Per chi volesse approfondire la pluriennale querelle mediatica e antipartigiana relativa all’azione di via Rasella consigliamo di approfondire al seguente link.   Mentre invece chi volesse approfondire e conoscere meglio i meccanismi  politici e mediatici che hanno portato, nel corso egli anni, alla costruzione di vere e proprie mistificazioni di Stato riguardo alle vicende del confine orientale,  con  il sindaco di Bolzano Caramaschi che affermò come non vi fosse differenza fra i morti nelle Foibe ed i morti ad Auschwitz e con il giornale Alto Adige che pubblicò la foto di crimini di guerra fascisti descrivendola come commessa invece dai partigiani ai danni di “innocenti italiani”, consigliamo la lettura del seguente testo.

 

Pezzo dell’articolo pubblicato sull’Alto Adige nel 2012 in cui Frangipane espone la sua teoria su via Rasella

In seguito alla pubblicazione dell’articolo sopraccitato, il 6 ottobre 2012 il presidente della sezione ANPI di Bolzano lo riprese affermando come gli argomenti di Frangipane fossero pressoché gli stessi utilizzati dai nazisti nella propria autodifesa (ad ogni modo si può dare credito a chi uccise 10 persone per ogni tedesco?). Imperterrito nella propria linea antipartigiana Frangipane rispose definendo un’azione di lotta contro l’invasore che stava deportando nei lager migliaia di ebrei e dissidenti politici come gratuita e dissennata:

Alto Adige 6 ottobre 2012

Ma arriviamo a oggi, nel suo ultimo articolo, apparso sul quotidiano locale di lingua italiana edito da Athesia il 10 gennaio 2021, Frangipane si ostina a seguire un filone antipartigiano, questa volta però fa di più: lo estende fino alla guerra di Corea. Ma andiamo con ordine.

Dal suo articolo intitolato Dal lager partigiano alla guerra di Corea apprendiamo come Gian Luigi Ragazzoni, in seguito farmacista a Collalbo sul Renon, fu un milite della Repubblica Sociale Italiana (RSI), lo Stato fantoccio costruito da Mussolini grazie al sostegno delle truppe naziste. Egli, bersagliere appena ventenne, venne fatto prigioniero dai partigiani, forse una formazione garibaldina, e trasferito in un campo per prigionieri di guerra a Bogli nella zona di Piacenza dove alcuni fascisti furono fucilati, fra cui un certo caporale Illustri, un repubblichino che in precedenza era stato -nientepopodimenoche- insignito della medaglia d’oro nella guerra di Etiopia, durante la quale vennero commessi innumerevoli crimini di guerra da parte delle truppe italiane. Avvisiamo subito il lettore che a questo punto entriamo in una delle tante leggende dai contorni confusi, esagerati e spesso inventati, creati ad arte dal revisionismo neofascista nel dopoguerra alla Giorgio Pisanò, per infangare e calunniare la Resistenza; un ambito in cui non si capisce dove inizia la realtà e dove la fiction. Un revisionismo ed una falsificazione storica sistematicamente ripresi da giornali e riviste che hanno interesse a delegittimare la Resistenza ed in generale chi prese le armi o semplicemente decise di lottare come poteva contro i nazifascisti. Giampaolo Pansa in uno dei suoi romanzi travestiti da libri storici, racconta del «Gulag di Bogli» mentre invece Frangipane lo definisce addirittura Lager. I partigiani gestivano dei lager? Che fonti utilizza Frangipane per affermare tali mostruosità e falsità? Perchè usa un termine che riferito a quel periodo storico ha un significato ben preciso? Vi è la volontà nemmeno troppo strisciante di equiparare i caduti al servizio di Hitler ed i partigiani morti per la libertà? Vi è la volontà di mettere sullo stesso piano vittime e carnefici? Vi è la volontà di calunniare i partigiani descrivendoli come torturatori e assassini? La risposta è ovvia.

Frangipane cita testualmente “Bastonature, bruciature ai piedi con legni roventi, immersione della testa nell’acqua gelata”: nei confronti di chi? Chi raccontò tali fatti? Lo stesso Ragazzoni affermò che tale destino non gli venne riservato in quanto militare di leva. Liberato in seguito dai nazisti alleati della RSI, Ragazzoni rientrò fra i repubblichini e poi Frangipane fa un errore di scrittura affermando che fu liberato dagli Alleati, senza però dire se prima venne arrestato.

Alcuni anni dopo Ragazzoni, poi entrato nell’Accademia militare di Modena, collaborò alla guerra anticomunista degli Stati Uniti comandati dal generale Usa Mac Arthur, destituito poi perchè troppo guerrafondaio, conosciuto fra l’altro per aver proposto di usare la bomba atomica contro la Cina. A questo punto la narrazione di Frangipane si fa confusa, parla di Ravagnani senza spiegare chi sia (ma probabilmente si riferisce a Ragazzoni), non si capisce bene cosa ci stanno a fare lì degli italiani. Sono al servizio della potenza imperialista americana? Intendono evitare l’effetto domino comunista e preservare la propria zona d’influenza in Asia? Allora come per le missioni militari di oggi furono li per difendere importanti interessi economici e non certo per ideali. Ed anche qui Frangipane non risparmia allusioni antipartigiane senza fornire alcun fondamento scrivendo: “L’incendio dell’ospedale (ad opera di partigiani nordcoreani?)”.

E poi conclude citando il suo probabile riferimento giornalistico ovvero Montanelli, sì proprio colui che ancora in tempi recenti, ricordava con nostalgia i bei tempi andati come la propria partecipazione alla guerra di Etiopia durante la quale aveva sposato una bambina etiope sfruttandola sessualmente, anzi stuprandola, come fecero moltissimi soldati italiani. Poi ovviamente ricorda come gli italiani, ça va sans dire, furono ringraziati da tutte le parti in causa: Corea del Sud e USA da una parte e Cina con Corea del Nord dall’altra. Insomma, alla fine gli italiani sono sempre brava gente, senza responsabilità di alcun tipo, al di là del bene e del male.

È incredibile come in così poche righe Frangipane sia riuscito a condensare tanti luoghi comuni su alcune delle pagine più tragiche e difficili della storia recente. Come abbiamo visto è un vizietto che si porta dietro da diversi anni ed oggi è più importante che mai lottare contro tali mistificazioni e grossolane semplificazioni su cui prospera in definitiva il revanscismo e revisionismo neofascista, quel filone letterario bene impersonato da personaggi appartenenti ai settori della borghesia più retrograda e reazionaria come Bruno Vespa (a proposito del suo ultimo libro-spazzatura consigliamo il seguente link) che da anni campano riproponendo libri in cui viene raccontata una storia immaginaria del fascismo e del neofascismo non supportata da fonti e documenti di alcun tipo ma su dicerie e chiacchere da bar. Una narrazione che prende forza in testi del genere, privi di  contestualizzazione e di ogni carattere critico e riflessivo, che hanno l’obiettivo implicito di infangare chi ha combattuto per la libertà.

Primo Levi nell’introduzione de I sommersi e i salvati scirveva: “La memoria umana è uno strumento meraviglioso ma fallace” Sta a noi mantenerla viva e difenderla dagli attacchi, dalle calunnie e dalla banalità del calunniatore di turno. 

Consigliamo inoltre alla redazione dell’Alto Adige di spendere qualche euro in più nell’assunzione di un correttore di bozze ed a Frangipane di studiare almeno un pò prima di scrivere su fatti che dimostra ampiamente di non conoscere. Che lasci spazio ad altri, almeno un minimo competenti e informati.

Sotto potete leggere il penoso articolo di Frangipane, giudicate voi.

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[Bolzano – Scuole Gianni Rodari] Fuori l’Esercito e la guerra dalla scuola

Oggi come ieri la guerra è sempre stata legata a doppio filo con la propaganda, con l’esigenza di giustificare agli occhi della popolazione l’immenso spreco di risorse sociali ed economiche che viene destinato all’Esercito, un apparato mastodontico che assorbe immense risorse che potrebbero e dovrebbero essere destinate a scuole ed ospedali, per esempio. Un apparato che recluta i propri membri fra le parti più povere della popolazione e che costruisce uomini incapaci di pensare, trasformati in strumenti di oppressione. Una struttura parassitaria che soprattutto oggi, in tempi di pandemia da COVID, richiede per il suo mantenimento una spesa insostenibile a livello di armamenti e mantenimento di missioni militari di guerra all’estero.

Durante la seconda guerra mondiale le classi degli asili così come delle  scuole elementari intrattenevano una corrispondenza con i soldati al fronte impegnati nei vari teatri di guerra in cui erano impegnate le truppe italiane: Grecia, Albania, Russia, ecc. Una corrispondenza il cui scopo era finalizzato a familiarizzare i bambini alla guerra e alle armi per farli abituare al contatto con i soldati impegnati nella realizzazione del cosiddetto Impero. Occorreva convincerli fin da piccoli che la guerra in corso era giusta e che il tributo di sangue pagato era necessario per difendere la civiltà europea dal pericolo del comunismo giudaico.

Se il periodo storico è cambiato, il rischio che la scuola torni ad essere esclusivamente un luogo di trasmissione dell’ideologia dominante è concreto e reale e sono purtroppo molti i tentativi dell’Esercito di entrare, in vari modi, nelle scuole.

Da un articolo pubblicato sull’Alto Adige del 3 gennaio 2021 si apprende che la maestra Alfonsina Pepe della scuola elementare Gianni Rodari di Bolzano ha avuto la trovata, nel 2020, di iniziare una corrispondenza fra la 4a classe in cui insegna ed i soldati dell’Esercito italiano ad Erbil, in Iraq, impegnati in una missione militare – e perciò profumatamente pagati – denominata Prima Parthica / Inherent Resolve e che ufficialmente dovrebbe servire per contrastare lo Stato Islamico in Siria e Iraq. 20 anni di “missioni per la pace” occidentali che hanno devastato e destabilizzato il Medio Oriente ci hanno dimostrato come tali presenze non siano affatto il risultato di attività filantropiche.

La realtà dice che lo Stato islamico è stato combattuto dalle YPG/YPJ curdo-siriane, poi abbandonate al massacro di fronte all’arrivo delle truppe turche di Erdogan, vero alleato di ISIS e NATO. In Iraq, nella zona in cui sono impegnate le truppe italiane operano numerose aziende italiane: da Eni a Saipem, passando per Bonatti, Renco, Trevi e molte altre. Sono in gioco gli interessi milionari di numerose imprese italiane, altro che pace nel mondo.

Se ci fosse stata la volontà politica di contrastare ISIS si sarebbe fatto attraverso il supporto di chi li combatteva realmente e non sostenendo le politiche criminali di Erdogan, come è stato fatto da UE e NATO, cosa denunciata in piazza decine di volte dai compagni e dalle compagne a Bolzano.

Ricordiamo che l’Italia con le sue forze armate prese parte nel 2004 alla coalizione internazionale che ha contribuito a distruggere l’indipendenza dell’Iraq per appropriarsi delle sue risorse economiche. Nella fattispecie il Petrolio ed il Gas che abbondano nel sottosuolo del Paese mediorientale e su cui hanno messo mano aziende come appunto ENI e altre multinazionali.

Ricordiamo che in Iraq i soldati della coalizione occidentale si sono resi responsabili di efferati crimini di guerra e torture ai danni della Resistenza, documentati anche dall’attività di Wikileaks per cui Julian Assange – per cui oggi è stata negata l’estradizione – sta pagando con la detenzione da 10 anni circa. In Afghanistan, altro teatro di guerra in cui i soldati italiani sono impegnati da 20 anni, recentemente è emerso come i soldati australiani abbiano torturato e ucciso per divertimento decine di civili.

In un momento storico come quello che stiamo attraversando potevano essere moltissimi i destinatari di un progetto analogo; ad esempio gli alunni che frequentano le scuole in un paese in guerra oppure i medici e infermieri volontari di Emergency impegnati in Afghanistan senza ottenere alcun guadagno o gli stessi operatori impegnati in condizioni difficilissime negli ospedali o nelle case di riposo.

Articolo pubblicato sul giornale Alto Adige il 3 gennaio 2021 riguardante l’iniziativa congiunta fra la maestra delle scuole “Gianni Rodari” di Bolzano e l’Esercito italiano

Non conosciamo la maestra Alfonsina Pepe e non sappiamo se la sua iniziativa sia soltanto il risultato di una gravissima ingenuità e ignoranza oppure se dietro vi sia una volontà di fare una certa propaganda. Di certo sarebbe opportuno sapere cosa è stato raccontato ai bambini nell’ambito della “bella iniziativa” (!!!) come è stata definita dal giornale locale Alto Adige il cui articolo sembra scritto da un funzionario del Ministero della Difesa.

Ancora più paradossale che un’iniziativa di propaganda del genere avvenga in una scuola intitolata allo scrittore e pedagogo Gianni Rodari che nella sua opera affrontava in modo costante la necessità di contrastare in ogni modo derive autoritarie o militariste della società, di cui ricordiamo una sua – oggi più che mai attuale – filastrocca. Consigliamo alla maestra Pepe di andarsi a rileggere chi era Rodari.

PROMEMORIA

 

Ci sono cose da fare ogni giorno:

lavarsi, studiare, giocare

preparare la tavola,

a mezzogiorno.

Ci sono cose da fare di notte:

chiudere gli occhi, dormire,

avere sogni da sognare,

orecchie per sentire.

Ci sono cose da non fare mai,

né di giorno né di notte

né per mare né per terra:

per esempio, LA GUERRA.

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Un ricordo di Agitu

Ho accolto la notizia della morte di Agitu con incredulità, come tutti. Dopo aver letto la notizia su una testata online ho atteso di vedere confermato il fatto da altre fonti nella speranza che si trattasse di un errore. Il primo pensiero è corso alle minacce, agli insulti razzisti ed all’aggressione che poco tempo prima aveva subito ma a fatica ritenevo possibile che la situazione fosse degenerata a tal punto da sfociare in un assassinio. Il passare delle ore ha presto svelato come l’autore del suo assassinio fosse un uomo del Ghana che lavorava per lei.

Quando avevo saputo, alcuni anni prima, che nella val dei Mocheni in Trentino, era stata aperta una fattoria per fare prodotti a base di latte di capra da parte di una donna etiope laureata in Sociologia, mi ero subito ripromesso di andare a trovarla per conoscerla, un proposito condiviso anche con alcuni amici. Ero curioso di conoscere un progetto avviato con coraggio in un contesto sociale certamente non facile e per di più da una donna africana e nera. Avevo letto di come lei in passato fosse stata costretta a lasciare l’Etiopia in seguito alle minacce ricevute per aver partecipato alle lotte dei contadini contro l’accaparramento delle terre da parte delle multinazionali; un fenomeno altresì noto come landgrabbing.

Lei infatti dopo essersi laureata a Trento, tornò in Etiopia arricchita della propria esperienza europea, per contribuire a riallacciare i fili della lotta contro i tentacoli del capitalismo occidentale ed asiatico, impegnato a rubare migliaia di ettari di terreno ai parchi nazionali ma soprattutto a piccoli contadini per imporre coltivazioni intensive – con ingente spreco delle già scarse risorse idriche – di canna da zucchero, olio di palma, tulipani, mais (quest’ultimo per produrre sacchetti biodegradabili invece che per l’alimentazione locale) destinati all’esportazione dove i contadini e le contadine etiopi, ipersfruttati/e e sottopagati/e, erano poi costretti a stravolgere le proprie abitudini e lavorare in ambienti malsani, in luoghi e terreni in cui venivano utilizzati pesticidi e prodotti chimici illegali in Europa ma che potevano essere utilizzati se chi ne subiva gli effetti malefici erano i proletari etiopi. Lo slogan spesso abusato dell’ «aiutiamoli a casa loro» si traduce nella realtà del «rendiamoli schiavi a casa loro».

L’esperienza di Agitu in Trentino in periodi così diversi (dagli anni degli studi a Sociologia nei primi anni 2000 fino agli anni successivi al 2010 dopo il ritorno dall’Etiopia) le aveva permesso di vivere e sperimentare sulla propria pelle il radicale cambio di clima politico e sociale e la pesante intolleranza verso gli stranieri fomentata in ultima battuta con la campagna elettorale del 2018 che aveva visto la Lega di Salvini e altri partiti di estrema destra cavalcare e fomentare paure e odio verso gli stranieri, sdoganando i peggiori insulti e le peggiori azioni razziste, anche in Trentino, dove la situazione non era tuttavia facile per lei.

Agitu aveva una preparazione storica e politica che le permetteva di difendersi a muso duro dalle menzogne propagandate sui social o sui media ed attraverso rapporti reali aveva saputo costruire una fitta rete di rapporti e amicizie in tutta la Regione.

Dopo le minacce che aveva subito da parte di un vicino avevo deciso di scrivergli una lettera di solidarietà. Una lettera vera, non una email. Sì, con carta, penna e francobollo. Ho pensato che fosse un gesto più bello, meno freddo e asettico di una mail. Le avevo scritto dell’importanza della solidarietà, di non farsi intimorire, di andare avanti nonostante le difficoltà, che le nostre idee fossero più forti di tutto. Mi aveva fatto sorridere come in un’intervista successiva aveva parlato dell’estesa solidarietà ricevuta dicendo che c’era anche chi, non pratico di tecnologia, le aveva scritto una lettera di carta. Immaginavo si riferisse alla mia lettera, visto che nel 2018 credo pochi ricorrano ancora a tale mezzo per comunicare.

La prima volta che avevo avuto la possibilità di fare due chiacchere con lei era stato durante un mercatino di Natale a Egna, dopo che l’avevo riconosciuta dietro a una bancarella. Un’oretta circa in cui avevamo parlato di politica e in cui convenivamo come fosse insopportabile la narrazione che veniva fatta dell’immigrazione, su tutti i fronti. Da una parte la becera retorica leghista e fascistoide, dall’altro una retorica pietista e pseudo caritatevole incapace di individuare le cause materiali che spingevano migliaia di uomini e donne a lasciare la propria terra e che andava a rinforzare chi sproloquiava di invasione. Cause precise contro cui lottare con lucidità e intelligenza. Ci eravamo incontrati un altro paio di volte, sempre a margine del suo lavoro. E avevamo poi concordato di sentirci per registrare un’intervista durante la trasmissione Malaerba su Radio Tandem, cosa che eravamo poi riusciti a fare.

Forse per via degli studi comuni avevo subito fiutato la tua formazione marxista e infatti i termini che usavamo erano gli stessi: “classe” “sfruttati” “proletari” ecc. Ricordo ancora con un sorriso il nome con cui avevi chiamato un gatto che avevi ai tempi dell’Università: Lenin.

La tua stessa storia personale era un esempio di come fosse possibile raccontare l’immigrazione in un altro modo, con un’altra forza, capace di annichilire e spazzare via con un soffio le idiozie e menzogne razziste.

I giornali nazionali e internazionali parlano di te come un simbolo di integrazione, una parola abusata che non significa nulla, e convenivamo anche in ciò. Integrazione con chi? Su che basi?

Mi sarebbe piaciuto fare altre chiaccherate, magari organizzare una serata per parlare dal vivo di landgrabbing e della necessità di collegare il tema dell’immigrazione alle guerre e allo sfruttamento di cui anche le aziende multinazionali ed i governi italiani sono complici.

Sei stata uccisa da un uomo che avevi cercato di aiutare come potevi con tutte le contraddizioni e difficoltà del caso, sembra per uno stipendio arretrato ancora non pagato e ciò rende tutto ancora di più difficile comprensione se non altro per il fatto che ciò porta la vicenda su un piano strettamente materiale che stride di fronte a ciò che, spesso in modo indipendente dalla tua volontà, avevi finito con il rappresentare in quanto donna africana nera e “libera in un mondo di schiavi” come scritto su uno striscione apposto sul tuo negozio a Trento. Una combinazione di elementi che fa saltare il banco ad ogni farabutto razzista che campa sul risentimento, sull’ignoranza e sulla paura.

Nel difficile momento storico che stiamo vivendo e che vivremo la tua perdita pesa e peserà come una montagna, ci mancherà soprattutto ciò che avresti fatto in futuro. Ma di certo posso assicurarti che continueremo a lottare contro le ingiustizie che tu stessa denunciavi, senza girare la testa dall’altra parte, assumendoci le nostre responsabilità.

Enzo

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[Repressione] Solidarietà a Massimo. Un comunicato del Coordinamento No Tav trentino

La repressione nei confronti del movimento No Tav non conosce sosta ed in Trentino un altro compagno, Massimo, conosciuto e stimato per la sua generosità e coraggio da tutti coloro che negli ultimi anni hanno partecipato alla mobilitazione contro il progetto Tav-Bbt in Trentino-Alto Adige ma non solo, è stato privato della libertà per la sua partecipazione alla lotta in Valsusa. Riportiamo un comunicato in sua solidarietà scritto dal Coordinamento No Tav trentino. Solidarietà a Massimo ed a tutti i compagni/e colpiti/e dalla repressione. Si parte e si torna insieme.

Solidarietà a Massimo

Arrestiamo i sondaggi del Tav in Trentino!

In questi giorni un nostro amico e compagno, Massimo, ha ricevuto un provvedimento di detenzione domiciliare col massimo delle restrizioni: dovrà restare in isolamento forzato per un anno senza poter comunicare con l’esterno né ricevere visite. Quali le ragioni di una simile oppressiva disposizione? Massimo è stato condannato per aver partecipato, insieme a trecento persone, a un’iniziativa in Val Susa che contestava, con un blocco dei pedaggi autostradali, gli interessi delle società autostradali nell’affare “Alta Velocità” (alla faccia della retorica sulla sostituibilità ferroviaria del trasporto su gomma). In relazione allo stesso episodio altri dieci No Tav hanno ricevuto misure restrittive, tra cui Nicoletta Dosio, condannata anche lei a un anno di reclusione. In alcuni casi i giudici si sono spinti perfino a negare le misure alternative, come nel caso di Dana, punita col carcere. Massimo è molto attivo nei percorsi antiautoritari e nelle lotte territoriali in Italia. Un anarchico particolarmente scomodo perché sempre disposto a contrastare, pagando spesso di persona, i progetti del potere e a non rinunciare a vivere e immaginare percorsi di lotta.

M agistrati e apparati di polizia non potevano certo farsi sfuggire l’occasione di costringerlo lontano da questi percorsi, dalle relazioni, dagli affetti. Ancor più in questo momento in cui in Trentino sta ripartendo la fase preliminare (sondaggi geognostici) dei lavori delle tratte di accesso sud alla galleria di base del Brennero (ossia, della tratta trentina del progetto Alta Velocità). Negli stessi giorni, da un lato il neoeletto sindaco di Trento nomina Ezio Facchin – uomo chiave del progetto Tav, già commissario governativo per l’AV in Trentino – assessore alla “mobilità, transizione ecologica, partecipazione e beni comuni”; dall’altro si rinchiude un compagno attivo fin dall’inizio nel percorso no Tav in Trentino, con l’intento, anche, di indebolire le iniziative contro la ripresa dei lavori. Non è certo, però, con la repressione, per quanto bieca, che le istanze no Tav e antiautoritarie possono essere soffocate. Si può “segregare e punire” ma non eliminare la volontà di chi – Massimo è tra questi – mai rinuncerà a manifestarla con fatti e con parole. Massimo ha tutta la nostra solidarietà. In Val Susa, dove da vent’anni un movimento popolare e determinato ha bloccato e continua a contrastare il progetto Tav, gli arresti di attivisti hanno ridato vigore alla lotta. Anche qui in Trentino, se vogliamo superare la soglia della semplice indignazione e sgomento, ognuno/a di noi ha la possibilità di ribaltare la volontà punitiva e vendicativa dello Stato impegnandosi in prima persona, se possibile, più di prima.

Coordinamento Trentino NoTav

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[Carcere] Strage di marzo nelle carceri. Rompiamo il silenzio. Indirizzi dei prigionieri.

Il carcere, l’istituzione totale per eccellenza, sebbene sia il luogo in cui lo Stato esercita nel modo più evidente un potere assoluto e totale, è allo stesso tempo il luogo in cui vige il più totale arbitrio di guardie e direttori: coperti ovviamente dal Ministero di competenza. Lo dimostrano i numerosi casi di pestaggi e torture effettuate dalle guardie – sempre difese da Salvini e Meloni – nei confronti dei detenuti negli ultimi tempi a Santa Maria Capua Vetere, dove le scene viste hanno evocato il ricordo della Diaz di Genova, oppure Torino. Ricordiamo come Giorgia Meloni, leader di Fratelli d’Italia, ma anche lo stesso ex ministro dell’interno Matteo Salvini si siano battuti contro l’introduzione del reato di tortura perché, secondo loro, impediva agli agenti di svolgere il loro “lavoro”. 

Detenuti sul tetto del carcere di Poggioreale, a Napoli, 8 marzo 2020. (Salvatore Laporta, Kontrolab/LightRocket/Getty Images)

Come è possibile che una strage che nel marzo 2020 sia passata senza grossi clamori in un silenzio pressoché totale da parte di stampa, intellettuali e commentatori sempre pronti ad urlare allo scandalo se durante un corteo viene fatta scritta su un muro? Sarà che pure il valore delle morti sia il risultato di un rapporto di classe? E che se a morire sono sottoproletari, a volte stranieri, a nessuno interessa più di tanto? A che pro scrivere articoli per difendere della teppaglia? A che pro esporsi?

A proposito del silenzio assordante che avvolge le strutture carcerarie anche da noi in Regione basta ricordare l’episodio di alcune settimane fa in cui un detenuto nel carcere di Trento si è dato fuoco per protesta.

Dopo mesi in cui il ministro Bonafede ha parlato di morti per overdose il muro omertoso negli ultimi mesi ha iniziato a crollare grazie alle testimonianze di alcuni detenuti nell’agosto scorso e in particolare grazie alla denuncia pubblica di 5 detenuti testimoni dei fatti che hanno portato alla morte di Salvatore Piscitelli. Possiamo solo immaginare le pressioni e le violenze psicologiche a cui i 5 saranno adesso sottoposti. Sta a noi fare in modo che non si sentano soli, scriviamo loro lettere e cartoline. Rompiamo il muro del silenzio.

Protesta al carcere di San Vittore di Milano – 8 marzo 2020

A fine novembre 5 persone detenute nel carcere di Ascoli hanno scritto un esposto alla Procura di Ancona. In questo atto, con grande coraggio, hanno riportato quanto realmente accaduto a marzo nel carcere di Modena e di Ascoli in seguito alle rivolte, in relazione ai pestaggi, agli spari e a alla morte di Salvatore Piscitelli. Il 10 dicembre sono stati trasferiti nel carcere di Modena. La scelta stessa di questo trasferimento è subito apparsa una forte intimidazione agli occhi di chi, sin da marzo, non aveva creduto alla narrazione delle morti per overdose”, fossero essi/e parenti o solidali, seppur tra loro sconosciuti/e. Le condizioni di detenzione in cui hanno tenuto i 5 ragazzi a Modena sono state altrettanto intimidatorie: in isolamento (sanitario), con divieto di incontro tra loro, in celle lisce con vetri rotti, senza possibilità di fare spesa e di ottenere accredito dei versamenti in tempi utili per poter fare la spesa, senza i loro vestiti e con coperte consegnate bagnate qualora richieste. Immediatamente, all’esterno, si è attivata un’eterogenea rete di solidarietà, costituita da parenti e solidali. La solidarietà messa in campo si è mossa su più fronti: sostegno legale, saluti sotto le mura del carcere, lettere, mail di pressione alla direzione del carcere, sollecitazioni ai garanti regionale e nazionale.
Varie testate giornalistiche, a distanza di 9 mesi dal massacro avvenuto nel carcere modenese, hanno riportato i fatti, o si sono trovate costrette a farlo, data la forza della voce dei 5 detenuti e la determinazione di parenti e solidali in loro sostegno. La verità è scomoda da dire e da sostenere, infatti
non in tutti i casi è stata riportata per quello che è o è stata detta parzialmente. In un caso, invece, un giornalista è stato licenziato per l’articolo scritto. Molti giornali e media ufficiali, a marzo, avevano riportato senza se e senza ma la voce dei carcerieri: i 14 morti durante le rivolte di marzo, 9 dei quali deceduti a Modena o in trasferimento dal carcere di quella città, erano morti per overdose a loro dire. Ma dei pestaggi e degli spari nessuno aveva parlato. A detta del carcere di Modena, gli interrogatori dei 5 uomini che hanno fatto l’esposto sarebbero dovuti avvenire lunedì. La realtà è stata diversa: sin da venerdì 18 il procuratore ha svolto gli interrogatori. A questi sono seguiti trasferimenti in differenti carceri. L’intento, ancora una volta, è la frammentazione e
l’isolamento. Al momento si conoscono le destinazioni di 4 dei 5 detenuti. Tutti loro, dopo l’isolamento effettuato a Modena, verranno sottoposti a nuovo isolamento nelle rispettive destinazioni. Una cosa è chiara: la forza e il coraggio di queste 5 persone vanno sostenuti con forza. La solidarietà, nelle sue molteplici forme, va portata avanti per ridurre l’effetto di questa frammentazione. Lanciamo un forte invito a scrivere a tutti loro! Non lasciamoli soli: una lettera, una cartolina, un telegramma! Spezziamo l’isolamento e rafforziamo la solidarietà. Di seguito gli indirizzi, ad ora conosciuti, delle nuove destinazioni:

Claudio Cipriani
C.C. Parma, Strada Burla 57, 43122 Parma

Ferruccio Bianco
C.C. Reggio Emilia, Via Luigi Settembrini 8, 42123 Reggio Emilia

Francesco D’angelo
C.C. Ferrara, Via Arginone 327, 40122 Ferrara

Mattia Pelloni
C.C. Ancona Montacuto, Via Montecavallo 73, 60100 Ancona


Due familiari dei cinque detenuti che hanno deciso di denunciare – e che ora si trovano isolati in cella liscia nel carcere di Modena – raccontano questa storia, terribilmente personale, terribilmente comune a tante altre, troppo spesso dimenticate

SE LE MURA DELLE CARCERI SONO ALTE,

SE CON LA DISPERSIONE PROVANO A DIVIDERE 

CHI ALZA LA VOCE INSIEME, LA SOLIDARIETA’ LE SUPERA E CI TIENE UNITE/i

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[Storia di classe] 30 anni dalla morte di Michael Nothdurfter. Storia di un guerrigliero sudtirolese.

Ci sono storie che sanno mettere in discussione le categorie con cui siamo abituati a leggere la realtà. In Afghanistan, come in Iraq o Palestina la Resistenza alle aggressioni occidentali è sempre stata squalificata come terrorismo. Un termine assolutamente non neutro ma che viene appiccicato dalla politica, dai media e dai tribunali a seconda degli interessi economici e politici in ballo. Così come l’assassinio a sangue freddo di uno scienziato in Iran operato dal Mossad non ha trovato la condanna della comunità internazionale allo stesso tempo anche la Resistenza palestinese appena sfocia in una forma organizzata e armata viene subito catalogata come terroristica. Riguardo all’Afghanistan è notizia degli ultimi tempi che decine di soldati australiani impegnati nella missione di pace occidentale sono sotto inchiesta per torture, omicidi arbitrari nei confronti della popolazione civile. Ci sono anche foto in cui sventolavano bandiere con svastiche. Come catalogare azioni del genere? Non è forse terrorismo? Così come le torture ad Abu Ghraib o a Guantanamo? E l’occupazione israeliana della Palestina, le torture ai prigionieri, i bombardamenti al fosforo bianco su Gaza non sono forse pratiche terroristiche? 

La definizione del significato delle parole è il risultato di un rapporto di forza fra classi sociali. I media non fanno che confermare tale rapporto, se possibile, amplificandolo.

Sono passati 30 anni dall’assassinio di Michael. Pensiamo che ricordarlo e mantenere viva la sua memoria sia il minimo che possiamo fare. Lui ha pagato con la vita l’urgenza morale di ribellarsi alle ingiustizie che vedeva con i propri occhi. A distanza di 30 anni le ingiustizie che lui vedeva e che lo hanno spinto a lottare non sono scomparse anzi, sono drasticamente peggiorate. Non possiamo abbassare la guardia.

La storia di Michael Nothdurfter è la storia di un terrorista. Almeno così veniva definito dai media e dalla “legittima” classe politica boliviana e internazionale. Perchè stupirsi? Anche i partigiani italiani erano banditi così come i partigiani dell’Affiche Rouge francese, bollati come criminali dai nazisti. E’ una storia che ci insegna come le categorie della giustizia e della legalità camminino spesso su binari diametralmente opposte, spesso incompatibili. Nella storia forzare la legge e violarla è sempre stata una necessità per gli oppressi, per i poveri, per gli sfruttati. Ancora oggi, anche in Italia dove ci troviamo di fronte a dispositivi legislativi sempre più repressivi come il Decreto Sicurezza voluto da Salvini e dai 5 stelle, è così. L’obiettivo è sempre mantenere condizioni di privilegio per i ricchi e di sfruttamento per i “dannati della terra.”

All’alba del 5 dicembre 1990 a La Paz un reparto speciale della polizia irrompe in un appartamento in cui sono presenti sei guerriglieri che da oltre 5 mesi tengono in ostaggio il direttore della Coca-Cola boliviana. Nella sparatoria muoiono tre guerriglieri e viene ucciso anche l’ostaggio. Tra i morti vi è il Comandante Gonzalo: Michael Nothdurfter di Bolzano, ex seminarista dei Gesuiti, il quale attraverso la propria esperienza personale in Bolivia, l’osservazione dell’estrema povertà e delle disuguaglianze presenti nel Paese, giunse, attraverso la teologia della liberazione, ad abbracciare gli ideali rivoluzionari di Marx e Che Guevara.

Un paese in cui nel 1967 morì Ernesto Che Guevara, il rivoluzionario argentino caduto mentre cercava di diffondere il contagio rivoluzionario che solo pochi anni prima aveva permesso la vittoria del socialismo a Cuba.

A Bolzano nel 1980, dopo la maturità classica presso i francescani (foto di Ludwig Thalheimer). Presa dal libro di Cagnan, Il comandante Gonzalo va alla guerra.

Mentre suona la chitarra a Sucre in Bolivia 1984. (foto di O. Nothdurfter presa dal libro di Cagnan)

Dopo aver passato, per motivi di studio, un anno a Londra ed un altro in Olanda, a Rosendaal, Nothdurfter giunse in Bolivia nel corso del 1982, a 22 anni. Qui entrò a studiare in un istituzione dei Gesuiti. La sua sensibilità umana e politica lo portò presto ad avvicinarsi al marxismo, come scrisse in una lettera al fratello del dicembre 1982:

«La mia opzione politica è un opzione per il marxismo. Marx ha dato al mondo dei lavoratori se non una soluzione, perlomeno un compito e una speranza. […] So bene che al giorno d’oggi marxismo di per se stesso non significa nulla: lo spettro dei suoi significati è troppo ampio. Io concordo in parte con questa definizione: il marxismo è la via maestra per risolvere le straordinarie ingiustizie sociali che costituiscono la fonte principale dell’oppressione. E questo non con alcuni cerotti, ma con un cambiamento radicale dell’attuale sistema»

La condizione di privilegio – rispetto al resto del popolo boliviano – da lui vissuta fra i Gesuiti divenne presto insopportabile e dopo circa due anni decise di uscire ed andare a vivere a pieno i propri ideali, cercando una strada che gli permettesse di vivere con coerenza la propria passione politica. Entrò all’Università di La Paz, prendendo parte alle lotte degli studenti.

1983. Michael insieme all’amico bolzanino Ludwig Thalheimer a Tarabuco, Bolivia. (Foto presa dal libro di Cagnan)

1984. Michael mentre aiuta alcuni disabili a Sucre, Bolivia. (Foto presa dal libro di Cagnan)

Il marzo 1985 la rivista cattolica altoatesina Dafür, pubblicò un suo scritto, in cui emerge la sua consapevolezza in relazione a un certo paternalismo occidentale ipocrita nei confronti del cosiddetto “Terzo mondo”, disposto a dare finti aiuti utili solo a mascherare la volontà politica di mantenere i Paesi poveri e succubi:

«Primo mondo. Primo! Non farmi ridere! Ti riempi di armi nucleari e fai morire di fame milioni di persone. Ci strappi le nostre ricchezze con la forza e ci ributti i tuoi rifiuti tramite la Caritas e la Misereor, donazioni di grano o sostegno di regimi militari. Hai distrutto le nostre antiche culture e ci hai imposto un Dio che tu chiami con molta eleganza Gesù Cristo, che però non è altro che oro, denaro, dollaro».

Michael nel 1989 a La Paz (foto di O. Nothdurfter). Presa dal libro di Cagnan

Gli anni seguenti furono segnati da una sua progressiva maturazione politica che lo portò ad abbracciare la necessità di organizzare la guerriglia, unico mezzo per riportare giustizia.

La Paz, 12 maggio 1990

«Credo di trovarmi a un bivio. Dinanzi a me si parano due cammini: uno porta alle soluzioni accomodanti, l’altro rappresenta la strada del guerriero che vive ogni cosa come una sfida. In realtà, a me non resta che accettarla. L’unica questione ancora aperta è sino a dove potrò arrivare, nella strada che Don Juan (personaggio di un opera di Castaneda) chiama la via alla conoscenza, Marx indica come la via al comunismo, il Che considera come la costruzione dell’uomo nuovo e Gesù la ricerca del regno di Dio.»

Michael divorava libri e nel periodo caratterizzato dalla caduta dei regimi comunisti e di ubriacatura liberalcapitalista non potevano mancare i testi di Fukuyama sulla cosiddetta “fine della storia”. Ecco le sue interessanti riflessioni al riguardo:

«Ho letto l’articolo “La fine della storia” di Fukuyama. Li si vede come si può fare virtù della propria stupidità: la semplificazione come metodo, per un mondo da sogna senza più storia che è poi il mondo di oggi, il regno della materialità. La difesa primitiva di una democrazia occidentale che si crede eterna. Ci si dimentica, tra l’altro, che Hitler -prototipo dell’assolutismo- giunse al potere grazie alla sistematica manipolazione delle masse. Si sostiene che l’altro grande nemico delle democrazia è stato il comunismo-stalinismo, e di nuoo ci si dimentica che furono proprio i comunisti a combattere con maggiore forza le truppe nazifasciste, e non i democratici Stati Uniti d’America.»

Arrivò così alla formazione del gruppo guerrigliero CNPZ con cui progettò il sequestro di Jorge Lonsdale, uno dei principali responsabili del gruppo Coca-Cola in Bolivia. Durante i giorni del sequestro tenne un diario in cui annotava i propri stati d’animo, le proprie sensazioni, le proprie riflessioni:

4 giugno 1990

«Domani è il D-day. Se non ci saranno problemi dell’ultim’ora sequestreremo Mamani (Lonsdale, il capo della Coca-cola in Bolivia). Inizia una nuova tappa del nostro cammino; inzia anche un nuovo corso, nel quale i nostri avversari saranno un Impero, una classe oligarchica, un governo di destra, forze repressive che possono contare su migliaia di effettivi, mezzi di comunicazione che perlopiù sono schierati con il sistema ecc. Dalla nostra parte c’è per schierata l’opinione pubblica nazionale, gli aymarà, i quechua, le organizzazioni popolari, i partiti rivoluzionari, e altri ancora. […] Siamo preparati per una simile impresa? Sono preparato io? So di dover confidare nella mia piccola forza, senza cadere nell’ingenuità di una facile vittoria. Lo ripeto per l’ennesima volta: siamo dinnanzi a una sfida senza eguali e l’unica cosa che desidero è dedicarmi al 100% a questa lotta, a questa battaglia che prima di me hanno combattuto i migliori guerrieri. La rivoluzione (socialista), oggi come ieri, è un evento sociale straordinario. E’ come abbracciare il mondo, in un gesto di creazione che rompe con le inezie della nostra esistenza moderna. Sul piano personale sto arrivando al punto in cui il passato (la mia storia personale) si allontana sempre più, tanto che mi è difficile ripensare ai tempi trascorsi».

L’11 giugno 1990 i rivoluzionari della Commission Néstor Paz Zamora (CNPZ), il gruppo di cui faceva parte Michael Nothdurfter, decidono di sequestrare Jorge Lonsdale, uno dei principali manager della multinazionale Coca-Cola in Bolivia.

Il giornale Ultima Hora del 26 novembre 1990 annuncia per la prima volta il gruppo del CNPZ. Fra le foto segnaletiche il primo in alto è Nothdurfter (foto presa dal libro di Cagnan)

Il diario proseguiva annotando riflessioni, paure, considerazioni, reazioni pubbliche all’azione, i conflitti interni al CNPZ, le tensioni fra compagni.

Il 27 agosto Michael scriveva:

«Poco a poco sto imparando a capire cosa rappresenta la vita di un guerriero. Una vita senza riposo, una vita che va da una battaglia all’altra. Una vita senza pace. Una vita piena di sacrifici, di disincanto, di disillusioni. Una vita da cani. E’ tuttavia la vita più attraente, più bella, più preziosa.»

Volantino diffuso dalla polizia boliviana con il nome storpiato “Miguel Northufster” e la falsa identità di “Martin Kesner Lopez” (foto presa dal libro di Cagnan)

Nello stesso periodo scrisse una lettera ai genitori a Bolzano, forse già consapevole che presto sarebbe arrivato allo scontro frontale con le autorità boliviane, ed uno dei destini più probabili era la morte. Una lettera in cui Michael, che da anni era a contatto con la povertà e le peggiori ingiustizie, tentò di spiegare delle scelte così lontane dalla vita dei genitori e dal benessere economico della realtà sudtirolese. L’esperienza all’estero lo aveva trasformato, come scrisse lui «da molto tempo ormai, io non sono più un bolzanino, l’Inghilterra e l’Olanda significano per me solo una parte del mio passato; oggi io sono un boliviano, un latinoamericano o se preferite, un cittadino del mondo». Proseguiva così:

«So che per voi deve essere difficile comprendermi. […] Mamma mi chiede da tempo di scriverle delle mie attività […] Sinora ho sempre ignorato questa richiesta, perché so quanto sarebbe difficile per voi accettare che io abbia scelto volontariamente un’esistenza labile e insicura, inaccettabile per gli standard europei. […] Da sei mesi non frequento più l’Università, soprattutto per motivi id sicurezza. Malgrado ciò posso dire che sto imparando sempre di più. In una discussione con i minatori, magari, o con i contadini […] Nel 1986 sono entrato in un partito rivoluzionario. Per un anno ho frequentato l’Università, scritto volantini, fatto le barricate, conosciuto sulla mia pelle la repressione poliziesca. Nel 1987 sono poi uscito dal partito, per creare assieme ad altri dissidenti una nuova organizzazione politica che si è unita con quella che oltre vent’anni prima aveva fondato Ernesto Che Guevara. […] Dopo la guerra fredda arriva la calda “pax capitalista” […] la pace dei ricchi che hanno sempre di più e dei poveri che hanno sempre di meno. […] La principale questione ora è l’alternativa. Ieri, tutti coloro che premevano per una svolta dicevano chiaro e tondo socialismo. Il cosiddetto socialismo reale è però in crisi profonda, e ora troppi gioicono per la presunta fine del comunismo. In questa logica però, non dovrebbe più esistere un solo cristiano, perlomeno dai tempi dell’Inquisizione. […] So di non essere stato un buon figlio per voi. Posso anche immaginare che il contenuto di questa lettera vi possa far preoccupare, ma dovete sapere che io faccio ciò che devo fare. Non pretendo che voi mi comprendiate, ma dovete capire che io agisco secondo coscienza. […] Avrei preferito tacere, ma credo di esservi debitore della verità. E la verità è che la passione e l’amore per il mondo mi spinge all’azione. Anche con il richio di commettere degli errori».

Come scritto all’inizio, il 5 dicembre 1990 le forze speciali boliviane misero fine alla vita di Michael e degli altri guerriglieri che come lui, misero in gioco la propria vita, nel tentativo di avviare un percorso rivoluzionario in grado di unire giustizia sociale e libertà.

La casa della calle Saavedra utilizzata come nascondiglio per il sequestro Lonsdale (foto di O. Nothdurfter). Foto presa dal libro di Cagnan.

“Sono una porta che parla” Anonimi hanno tracciato sull’ingresso secondario della casa di calle Saavedra, una scritta per ricordare il massacro a sangue freddo dei rivoluzionari avvenuto il 5 dicembre 1990. (foto presa dal liro di Cagnan)

La tomba di Michael Nothdurfter nel cimitero di La Paz . Ricordato ancora oggi dai suoi compagni e compagne. (foto di O. Nothdurfter). Foto presa dal libro di Cagnan.

Ricordarlo è il minimo. A maggior ragione per il fatto che anche i recenti fatti che hanno interessato la Bolivia, con il colpo di Stato nei confronti di Evo Morales ed alle violenze provocate dall’estrema destra razizsta e fascista del Paese, confermano come i tentacoli del capitalismo sono in costante agguato, nel tentativo di depredare risorse dai paesi più poveri e vulnerabili. La Bolivia infatti è il secondo paese al mondo per riserve di litio, il minerale fondamentale per le batterie, su cui multinazionali statunitensi ed europee hanno grande interesse a mettere le mani e assumerne il controllo.

Particolarmente vergognoso il modo con cui i media occidentali, fra cui anche gli italiani Repubblica e Corriere della Sera (per citare i due esempi più eclatanti), hanno trattato il colpo di Stato del novembre 2019 contro Morales, simile al modo con cui hanno tratttato la situazione del Venezuela appoggiando il fantoccio filoamericano Guaidò. Un atteggiamento sfacciatamente filogolpista , rivendicato anche da miliardari come Elon Musk, che ci ricorda come i valori e le idee per cui Nothdurfter è caduto oggi siano più validi che mai. Ma soprattutto come siano ben lontani dall’essere attuati. Un atteggiamento che ci ricorda il ruolo di propaganda mistificatoria svolto dai grandi gruppi editoriali del Paese. Continue reading

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[Carcere Trento] Detenuto si dà fuoco in cella per protesta

Da quando è iniziata la pandemia i detenuti delle carceri italiane hanno pagato un prezzo altissimo. Ricordiamo i 13 detenuti morti durante le rivolte a marzo. Una strage avvenuta nel pressoché totale silenzio e nella totale indifferenza del ministro della Giustizia Bonafede e dei vertici dell’amministrazione penitenziaria, i quali solo a fatica hanno ritenuto di dover rendere conto di ciò che è accaduto sotto la loro diretta responsabilità. E se lo hanno fatto, in ogni caso non hanno mancato di autoassolversi di fronte alla morte di 13 vite “minori”, tossici, immigrati, ladri, dannati. L’ennesima conferma – ma non ne avevamo certo bisogno- di come la giustizia sia un rapporto di classe e dove la vita di un proletario, per di più detenuto, non vale la messa in discussione delle posizioni di potere acquisite.

In seguito alle rivolte contro i detenuti ci furono feroci rappresaglie ad opera della polizia penitenziaria, come successo ad esempio nel carcere campano di Santa Maria Capua Vetere. In seguito a tali pestaggi -paragonati alla Diaz di Genova- l’ex ministro dell’Interno Salvini corse a dare solidarietà agli agenti accusati di aver commesso torture nei confronti dei prigionieri, oltre a chiedere misure più dure nei confronti dei rivoltosi, mentre di deputati del partito fascistoide Fratelli d’Italia chiese di dare un premio agli agenti sotto accusa. Sempre il partito di Giorgia Meloni non perse l’occasione -poteva essercene una migliore?- per protestare contro l’introduzione del reato di tortura. Si sa, i secondini altrimenti, non sono liberi di “operare”.

13 morti. Una carneficina che riporta ai tempi bui delle stragi ordite dal generale Dalla Chiesa contro i i prigionieri ad Alessandria nel 1974 in cui 6 detenuti furono assassinati e oltre 15 feriti.

Siamo in un paese in cui l’indifferenza nei confronti di ciò che accade nelle carceri è dilagante, favorita anche dal veleno forcaiolo che negli ultimi anni, grazie a movimenti come 5 stelle e LEGA ed alle loro espressioni giornalistiche e giudiziarie, ha disumanizzato i prigionieri, privandoli di dignità, relegati in piccole celle costantemente sovraffollate. Sulla pelle dei prigionieri si consumano i banchetti elettorali degli sciacalli più voraci. Esemplare da questo punto di vista l’arresto dell’ex militante dei PAC (Proletari armati per il comunismo) Cesare Battisti, esibito come un trofeo da parte del ministro della giustizia Bonafede e dell’allora ministro dell’Inetrno Salvini. L’accanimento politico e mediatico contro il 65enne è continuato negli anni successivi, con decisioni arbitrarie, linciaggi mediatici nel momento in cui Battisti richiedeva di poter cucinare da solo in cella per motivi di salute, ecc.

Nel carcere di Spini di Gardolo, a Trento, negli ultimi anni non sono mancati i suicidi, i tentati suicidi, i casi di autolesionismo. Tutto ciò in una situazione in cui il consumo di psicofarmaci è quotidiano e favorito in ogni modo. Ricordiamo, come circa due anni fa, in seguito all’ennesimo suicidio i detenuti esasperati furono protagonisti di una rivolta per cui circa 80 di loro sono stati rinviati a giudizio.

Detenuti nel carcere di Spini di Gardolo (Trento)

In seguito all’epidemia, la sospensione o la limitazione dei colloqui ha avuto un peso enorme sullo stato di salute psico-fisico dei detenuti, già provati dalle difficili condizioni di detenzione.

Uno degli ultimi fatti di cui si è avuto notizia dal carcere di Trento è il fatto che il 13 novembre un detenuto, dopo aver visto rifiutata la consegna di alcuni effetti personali portati dalla moglie, ha dato fuoco alla propria cella e si è dato fuoco. E’ stato portato via in ambulanza.

Oltre a ciò nel carcere di Trento:

-La posta è bloccata in entrata e in uscita

-i pacchi non entrano

-l’amministrazione non dà informazioni sui contagi

-I positivi vengono sbattuti vengono sbattuti nelle celle di isolamento punitivo o trasferiti in altre carceri

-da settimane i colloqui con i famigliari sono completamente sospesi

-Per due settimane non si sono visti medici e solo dopo una protesta con le battiture si è presentato il personale sanitario

-chi dovrebbe essere seguito con trattamenti medici specifici viene solo imbottito di psicofarmaci

A tutto ciò si aggiunge il fatto che i magistrati di sorveglianza continuano a non concedere misure alternative a chi ha requisiti per accedervi contribuendo così ad esasperare la situazione e portando molti detenuti alle estreme conseguenze (almeno 3 i casi detenuti suicidati negli ultimi anni coe conseguenza a tali rifiuti).

Rompere il silenzio riguardo a ciò che succede nel carcere di Spini è fondamentale. Rompere l’isolamento fra dentro e fuori le mura.

Nel corso di alcuni saluti fuori dalle mura del carcere di Spini la voce e la protesta dei detenuti è stata raccolta dai compagni e dalle compagne che l’hanno portata in città nel corso di un presidio in piazza d’Arogno a Trento. Qui sotto il volantino che pubblicizzava l’iniziativa.

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[Storia di classe] Un frammento della Resistenza antinazista delle donne sovietiche

La memoria legata alla seconda guerra mondiale, in Italia come nel resto dell’Europa occidentale, tende a dimenticare l’orrore di cui si resero responsabili gli invasori nazifascisti sul fronte orientale, il cui obiettivo era di fare letteralmente terra bruciata di una popolazione che condensava l’essenza di ciò che veniva combattuto da loro: il comunismo e gli slavi, considerati inferiori e contro cui non furono risparmiate le azioni più infami e criminali.

L’invasione dell’Unione Sovietica, iniziata il 22 giugno 1941 iniziò con una serie impressionante di vittorie della Wehrmacht che lasciavano presagire i più foschi scenari in un momento storico in cui gli esiti della guerra dipendevano unicamente dalla capacità di resistenza dell’Armata Rossa ed in generale della popolazione sovietica, totalmente mobilitata contro l’invasore. Nei circa 2 anni precedenti le armate di Hitler avevano vinto con una facilità disarmante gli eserciti di mezza europa e sembrava che anche l’URSS nel giro di poche settimane dovesse capitolare.

Non è stato così e grazie all’incredibile resistenza sovietica e degli antifascisti di tutta Europa è stata scritta un’altra storia.

Centinaia sono i libri scritti sull’epopea di Stalingrado e sul fronte orientale ma lo spazio dedicato al ruolo delle donne in quell’immenso movimento di resistenza popolare non è mai restituito in modo abbastanza esauriente alla memoria collettiva.

Tiratrici scelte sovietiche nell’Armata Rossa

Furono migliaia i sudtirolesi di madrelingua tedesca che parteciparono fin dall’inizio alla campagna sul fronte orientale con la Wehrmacht e dalla lettera scritta il 23 settembre 1941 da uno di loro – Franz Heinz Oberkofler- alla sorella Anna residente a Gratzen in Luttach in Val Pusteria, si evince il ruolo che le donne in Russia ebbero nella Resistenza. Una lettera scritta da un convinto nazista, il cui contenuto, contro le sue intenzioni, tratteggia la fierezza, esaltando la forza di queste combattenti, ciò che alla fine le portò a vincere sulle orde naziste:

Ora che abbiamo messo alle strette questi cani, tanto che non ci possono più sfuggire, si comincia a vederne delle belle! Ieri, per esempio, abbiamo avuto un combattimento con battaglioni, formati da donne. Bisogna vedere, con che astuzia raffinata, combattono queste puttane! Sono quasi pegio degli uomini. Lanciando dei potenti hurrà, si precipitarono sopra di noi, per sfondare le file della fanteria, che dovevano proteggere coi carri armati. Sembrava, che queste 400 furie urlanti volessero dire, assalendoci: «Se gli uomini non vengono ci siamo noi!» Finora non ho mai vissuto una giornata così interessante come ieri. Noi le lasciammo uscire per circa 100 metri dal bosco, poi venne l’ordine di fare fuoco. Aveste dovuto vedere che strage! In un quarto d’ora nessuno ha più lanciato un hurrà; si vedevano ammonticchiate a centinaia. Più della metà apparteneva ormai alla schiera di quelle fortunate, che non sentiranno mai più cantare il cuculo in primavera, il rimanente venne fatto prigioniero. Abbiamo anche avuto un bel lavoro, per alleggerire delle armi quelle sgualdrine. Quasi tutte avevano pronte nelle tasche delle granate a mano; ma erano proprio attrezzate a puntino. Naturalmente ho partecipato anch’io al controllo al sequestro delle armi. Era un vero divertimento! Non ve n’è stata una, che abbia sperso una lacrima, ci guardavano anzi sfacciatamente negli occhi, come se ci volessero divorare. Ho pensato per tutta questa notte allo strano carattere di questo popolo.”

Lettera presa dal libro di Aldo Giannuli: Dalla Russia a Mussolini 1939-1943. Hitler, Stalin e la disfatta all’est nei rapporti delle spie del regime, p. 152.

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[Processo Brennero] Condannati i compagni e le compagne

CONDANNE PER LA MANIFESTAZIONE DEL BRENNERO

La Questura ordina, la procura esegue, il giudice condanna.

Il 16 novembre 2020 presso il Tribunale di Bolzano, come ormai di consueto militarizzato con decine di poliziotti, carabinieri e celerini e questurini di tutti i tipi, sono state pronunciate le condanne contro 61 compagni e compagne imputati per aver partecipato alla manifestazione contro la costruzione del muro antimigranti al Brennero il 7 maggio 2016.

Militarizzazione del Tribunale di Bolzano in occasione della sentenza per il primo troncone del processo del Brennero. 16.11.2020

Come abbiamo già scritto, la procura bolzanina, nelle persone di Andrea Sacchetti e Igor Secco, dopo aver chiesto, come se fosse fare la lista della spesa e in una perfetta rappresentazione pratica di applicazione del diritto penale del nemico, oltre 330 anni di carcere per i compagni/e imputati nel processo per “Devastazione e saccheggio” ne aveva chiesti altri 85 per compagni e compagne imputati di reati più “lievi” ovvero interruzione di pubblico servizio, radunata sediziosa e travisamento.

Di fatto per ognuno veniva richiesto il massimo della pena possibile, prefigurando una sorta di reato collettivo, nell’evidente intento politico di intimidire e colpire chi, di fronte alle ingiustizie più inaccettabili, aveva deciso che fosse venuto il momento di dire basta.

I compagni e le compagne sono stati/e condannati/e a pene comprese in gran parte fra i 7 mesi ed i 10 mesi di arresto o reclusione per un totale di circa 37 anni di carcere.

Vogliono illuderci che la cosiddetta “giustizia” esercitata nelle aule dei Tribunali sia “neutra”, in cui uomini imparziali decidono sulla vita, e spesso sulla morte, di uomini e donne.

Nessun luogo come il Tribunale di Bolzano dimostra come ciò sia ben lontano dalla realtà che vorrebbero farci credere, il cui Procuratore generale Gianluca Bramante, amico dell’ex magistrato Luca Palamara (quest’ultimo cacciato dalla magistratura in seguito alla scoperta del sistema di influenze con cui condizionava, per non dire decideva, la nomina di procuratori e altri uomini di potere all’interno dei Tribunali di tutta Italia), dalle chat che sono state rese pubbliche, emerge come fosse protagonista di una lotta di potere all’interno del Tribunale di Bolzano avendo affermato come, appena insediatosi nei suoi uffici, aveva “decapitato gli uomini di Tarfusser”, l’ex procuratore capo a Bolzano.

Potere, influenze, ideologia, interessi economici determinano, all’oscuro della conoscenza della totalità della popolazione, le decisioni di chi decide sul bene più prezioso di ogni essere umano: la libertà. 

Certo non potevamo aspettarci da chi applica la legge, comprensione di nessun tipo nei confronti di chi intende cambiare radicalmente una società costruita su guerre, sfruttamento indiscriminato del lavoro e dell’ambiente. Mai come oggi però occorre rafforzare la solidarietà nei confronti degli imputati condannati, in un momento storico in cui settori di potere, da personaggi come Piercamillo Davigo a Bonomi di Confindustria, cercano di trarre profitto da una situazione di emergenza e che vede le possibilità di organizzazione e protesta, ridotte per decreto.

Certo siamo in un Paese in cui, come recentemente ricordato, i torturatori e i responsabili delle sevizie inflitte ai manifestanti del G8 di Genova fanno carriera all’interno della polizia mentre chi manifesta viene condannato, o meglio, perseguitato con pene fuori da ogni logica, come quelle richieste da Sacchetti e Secco per il processo del Brennero. A proposito di “neutralità”.

Dopo aver allestito un grottesco teatro con la militarizzazione del Tribunale portata avanti per anni, la Procura di Bolzano, dopo aver ripetuto in aula le dichiarazioni dei funzionari delle questure, veri e propri consulenti della Procura, doveva portare a casa un risultato per non apparire ridicola. E chi se ne importa se il delirante disegno accusatorio di Sacchetti-Secco non teneva in minima considerazione ciò che è successo realmente in quella giornata ma aveva l’esclusivo intento di assegnare più anni possibili di carcere, inventando la realtà, all’occorrenza.

Evidentemente la pressione era molta, visto che mai come oggi, per chi è tenuto a garantire il mantenimento dello Status quo, è importante togliere di mezzo ed intimidire chi si ribella e chi si organizza per resistere agli attacchi sempre più violenti contro i lavoratori, immigrati, proletari e la parte più povera della società.

Gli imputati del processo del Brennero, di fatto condannati per non essere rimasti fermi a farsi massacrare di botte dalle cariche della celere, vanno difesi, perché non si sono girati dall’altra parte mentre uomini e donne morivano e rischiavano di morire passando una frontiera. Non sono rimasti indifferenti mentre le politiche migratorie europee determinavano la morte di centinaia e migliaia di persone, nei deserti, nel Mediterraneo, alle frontiere.

I condannati di oggi, come molti condannati del passato e inevitabilmente, del futuro, vanno difesi per aver saputo mettersi in gioco, contro la consacrazione del privilegio e della disuguaglianza che avviene attraverso muri antimigranti, missioni militari, dispositivi di controllo e decreti sicurezza come quello voluto da Lega e 5 stelle e confermato dal Pd.

Vanno difesi perché hanno saputo rompere l’indifferenza in modo concreto. In un Paese come l’Italia dove storicamente e attualmente (vedi omicidio Cucchi per citare un caso recente) i depistaggi all’interno delle Questure o nelle stazioni dei Carabinieri o le violenze commesse all’interno delle carceri sono la norma, essere condannati per aver cercato di rompere il circolo vizioso della passività di fronte alle ingiustizie cui ci vorrebbero abituati è una medaglia al merito.

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