[Revisionismo storico-Bolzano] L’operazione Foibe ed i suoi effetti

Dal 2004, anno di istituzione della giornata del ricordo per iniziativa della destra post-fascista, ad oggi il 10 febbraio si conferma come una giornata di revisionismo storico in cui le istituzioni della Repubblica italiana hanno fatto propria una certa propaganda neofascista, costruita su menzogne e falsificazioni puntualmente riprese dai media e da politici digiuni da ogni conoscenza storica minima. Negli ultimi 15 anni sono numerosi i casi di criminali di guerra repubblichini alleati dei nazisti che sono stati decorati con medaglie dal Presidente della Repubblica ed oramai nel corso delle celebrazioni istituzionali sono pochi coloro che si indignano nel vedere le bandiere della X Mas sventolare. Una giornata in cui si tenta di riscrivere la storia, dove anche i fascisti possono mettere in piedi una narrazione vittimista. La cosiddetta sinistra ha lasciato accadere tutto ciò per un misto di ignoranza, mancanza di vitamine, perdita di memoria storica e subalternità alla destra.

Non si tratta certo – come è evidente – di negare il fatto che un certo numero di italiani, in gran parte fascisti, collaborazionisti della Wehrmacht o appartenenti alla borghesia istriana, sia stato ucciso ed oggetto di vendette covate durante i decenni di oppressione fascista prima e nazifascista poi. Non si tratta certo di negare come, all’interno di una cornice storica esasperata dall’odio etnico e razziale propagandato dai regimi nazifascisti, possano essere accaduti degli eccessi nelle vendette compiute contro la popolazione italiana, spesso assimilata tout court ai fascisti, come era nelle intenzioni di Mussolini.

Si tratta di inserire i fatti accaduti all’interno di un contesto storico preciso, che va raccontato, tutto. Va raccontata la violenta politica di snazionalizzazione perpetrata dal fascismo in una terra in cui storicamente vivevano numerosi gruppi etnici e che alterò l’equilibrio esistente alimentando odio e risentimento che esplose non appena ne ebbe l’occasione, con le prime vendette verificatesi dopo l’8 settembre 1943. Vanno raccontati i deliri razzisti ed gli orrendi crimini compiuti dagli ustascia di Ante Pavelic, sostenuto da Hitler e Mussolini. Va raccontata la feroce occupazione tedesca e italiana dei Balcani. Vanno raccontati i lager gestiti dagli italiani come quelli di Gonars e Arbe.

Anche in Alto Adige, anno dopo anno, il pressapochismo con cui si affrontano i fatti relativi al confine orientale assume toni a dir poco grotteschi e preoccupanti.

Se a Bolzano come altrove, da anni la cosiddetta giornata del ricordo (anche se sarebbe meglio definirla giornata delle amnesie) è un occasione di mobilitazione per i neofascisti di CasaPound e per una parte politica che ha interesse a delegittimare e infangare la Resistenza antifascista per ricostruirsi una sorta di legittimità politica, va detto come anche i cosiddetti democratici si siano distinti per dichiarazioni assurde e fuori da ogni logica e buon senso. Primo fra tutti il sindaco di Bolzano Renzo Caramaschi il quale nel corso delle celebrazioni del 2019 arrivò a dire come non vi fosse nessuna differenza fra le Foibe ed Auschwitz. Una stupidaggine che si commenta da sola.

Lo stesso sindaco ha recentemente affermato come siano stati messi a bilancio dal Comune di Bolzano 60 mila euro per la costruzione di un memoriale sulle passeggiate del Talvera, dove c’è giù una lapide che ricorda gli esuli istriani. Nell’articolo sull’Alto Adige che annuncia tale stanziamento, in un’imbarazzante capriola il giornalista mette le mani avanti e dice come il muro del Lager di via Resia ed il memoriale in progetto sul Talvera non siano certo connessi dal medesimo male, essendo la Shoah unica nella “incancellabile assolutezza del suo orrore” ma tuttavia – precisa il cronista – essi sarebbero “ugualmente collegati in quanto accomunati dall’essere conseguenza dei totalitarismi”. Ed eccoci nuovamente al tentativo di mettere sullo stesso piano comunismo e nazismo, il cosiddetto antitotalitarismo, un paradigma spesso utilizzato come cavallo di troia per riabilitare il fascismo che “ha fatto anche cose buone” e per mistificare e confondere i piani di analisi dei fenomeni storici, ribaltando spesso cause e conseguenze, come si deduce dall’articolo del giornalista altoatesino. Relativamente alle insidie del cosiddetto antitotalitarismo  rinviamo alle riflessioni di Filippo Focardi.

A testimoniare la faciloneria con cui si parla del tema ricordiamo anche come sul giornale locale Alto Adige del 10 febbraio dello stesso anno una foto dei massacri operati dai fascisti italiani in Slovenia venne invece attribuita, in un’operazione orwelliana, ai partigiani di Tito. Ma il caso dei falsi fotografici relativi alle vicende delle Foibe è un altro aspetto scandaloso dell’operazione di revisionismo, che è stata approfondita in modo adeguato qui.

Articolo pubblicato sull’Alto Adige del 10 febbraio 2019 in cui, a corredo di una conferenza sulla vicenda delle foibe , viene associata una foto di una strage compiuta dagli italiani contro la popolazione slovena

La foto che testimonia i crimini di guerra italiani presa da un archivio sloveno

Alcuni anni fa, nello stesso capoluogo altoatesino, nel quartiere Don Bosco, una via è stata intitolata a Norma Cossetto sulla cui figura, strumentalizzata per i fini più abietti, è stato girato Rosso Istria, il primo film successivo al 1942 in cui le truppe naziste arrivano a salvare la situazione e a fare giustizia. Un film di propaganda e pieno zeppo di falsità, imbarazzante sotto ogni punto di vista che si accompagna bene al precedente scandaloso Il cuore nel pozzo, voluto da Maurizio Gasparri, altro film di propaganda revanscista e nazionalista. Nella stessa via il Comune di Bolzano ha posto una stele su cui vi è scritta la motivazione con cui nel 2005 il Presidente della Repubblica Ciampi, su proposta di alcuni deputati di Alleanza Nazionale, concesse alla Cossetto la medaglia d’oro al merito civile:

Giovane studentessa istriana, catturata ed imprigionata da partigiani slavi, veniva lungamente seviziata e violentata dai suoi carcerieri e poi barbaramente gettata in una foiba. Luminosa testimonianza di coraggio ed amor patrio”.

Il passaggio intitolato a Norma Cossetto a Bolzano

La vicenda della Cossetto, figlia di un importante gerarca fascista italiana ma anche lei convinta sostenitrice del regime mussoliniano, chiamata in alcuni deliri di esponenti della destra e giornalisti di area neofascista come Fausto Biloslavo come la “Anna Frank italiana”, è oggetto di esagerazioni, falsità ripetute e incrostatesi nel corso degli anni. Dicerie ripetute senza nessuna verifica e prese per vere come atto di fede dettato dalla necessità per gli eredi del fascismo di avere una propria martire, vittima della “barbarie slavocomunista”, come ebbe a dire anche il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, che riprese così un lessico appartenente alla propaganda fascista del tempo.

Ad ogni modo, lungi da noi approfondire qui il marasma di bugie e invenzioni costruite riguardo alla vicenda di Norma Cossetto, per una sua conoscenza che vada oltre le falsità ripetute compulsivamente ogni anno rinviamo ad un’attenta lettura della seguente inchiesta del gruppo di lavoro Nicoletta Bourbaki:

1/Gli incontrollati fantasy su Norma Cossetto, 1a parte | Una kolossale foiba nell’acqua: il film Rosso Istria

2/ Gli incontrollati fantasy su Norma Cossetto, 2a parte | Cosa sappiamo davvero di questa storia?

3/Gli incontrollati fantasy su Norma Cossetto, 3a parte | Leggende metropolitane e ricatti morali. Con un appello agli storici: rialzate la testa!

Di pari passo con i tentativi di riscrivere la storia, dipingendo gli italiani come vittime all’interno di un conflitto che era stato determinato proprio dallo Stato fascista italiano, vi è stato però nel corso degli anni un serio lavoro di ricerca e documentazione che ha smascherato punto per punto le menzogne di cui tale giornata è prospera. Un lavoro che sta dando i suoi frutti.

Per primi vanno ricordati i lavori fondamentali dei ricercatori del Friuli Venezia-Giulia Alessandra Kersevan, Claudia Cernigoi e Sandi Volk che da subito hanno girato l’Italia in lungo in largo -subendo intimidazioni e aggressioni da parte neofascista- per spiegare i crimini del fascismo e dell’occupante nazifascista, sconosciuti ai più, che ebbero come logica conseguenza le vendette partigiane successive all’8 settembre 1943 e poi dopo la fine della guerra. Nel febbraio 2020 a Verona, città amministrata dall’estrema destra, la giunta comunale non ha concesso una sala comunale in cui doveva tenersi una conferenza dal titolo Storia del Confine Orientale. Esodo Istriano e dintorni, tenuta dallo storico triestino Volk Un lavoro coraggioso e fondamentale il loro, a maggior ragione perchè avvenuto in una situazione ostile per chi si ostinava – e si ostina tuttora – a non accettare in silenzio una verità di stato palesemente costruita su una memorialistica nostalgica e su mistificazioni inaccettabili sotto ogni punto di vista.

Il lavoro degli storici friulani ha fornito la base alla redazione dell’ultimo testo in ordine di tempo che si pone il compito di togliere le vicende del confine orientale dalle grinfie della propaganda nazionalista e spiegare le complesse vicende ad un pubblico più ampio e spesso digiuno da tali conoscenze: E allora le Foibe? Pubblicato per Laterza da Eric Gobetti sta riscontrando un certo successo.

Ritornando all’Alto Adige negli ultimi giorni il quotidiano locale di lingua italiana ha pubblicato due articoli che raccontano le vicende relative all’esodo istriano. In un primo articolo, pubblicato il 7 febbraio, lo storico Giorgio Mezzalira spiega come già durante il fascismo il regime favorì il trasferimento di professionisti, impiegati di alto livello e dirigenti istriani in Alto Adige, considerati adatti alle condizioni locali della Provincia grazie all’esperienza maturata in un’altra regione caratterizzata dalla convivenza di più popoli, come l’Istria appunto. Anche nel dopoguerra, in seguito alla sconfitta del nazifascismo ed alla fuga di migliaia di italiani dall’Istria, il Governo di Degasperi vide nel trasferimento in Provincia degli esuli un’opportunità di rafforzare l’elemento italiano. Ma chi erano questi esuli? In un articolo del consigliere provinciale Riccardo Dello Sbarba pubblicato sullo stesso giornale il 9 febbraio 2021 emerge come fra gli esuli una parte significativa era composta da elementi della classe dirigente locale. Oscar Benussi fu viceprefetto a Spalato dal 1941 al 1943 (va ricordato come l’Esercito italiani in quelle zone fu responsabile di crimini efferati) e poi prefetto della Repubblica di Salò a Treviso fino allla fine della guerra. Egli divenne il punto di riferimento per molti altri esuli che giunsero a Bolzano fra cui vengono ricordati altri personaggi compromessi con il regime che aveva oppresso per decenni la popolazione slava: Vittorio Karpati, vicequestore di Fiume-Rijeka fino al 1945 che nel dopoguerra ricoprì poi lo stesso ruolo nella Questura di Bolzano, l’avvocato Antonio Vio che fu podestà della stessa città dal 1924, il deputato Ossianich, trasferito invece a Merano. Giunse in Provincia anche Ruggero Benussi, figlio di Oscar, il quale durante la guerra fu volontario repubblichino nell’esercito di Salò, dove aveva comandato una speciale squadra di parà dalmati alle dirette dipendenze dell’Esercito nazista, scappando per poco alle fucilazioni die partigiani. A Trieste si era presto riciclato con gli angloamericani dove venne poi assunto come segretario particolare dal direttore delle Acciaierie di Bolzano. Negli anni successivi a Bolzano egli fu poi esponente di spicco del partito neofascista Movimento Sociale Italiano (MSI). Da Pola-Pula giunse il giudice Radnich e numerosi esponenti della borghesia italiana istriana -medici, avvocati, farmacisti, notai, albergatori, funzionari pubblici, impiegati, ingegneri- che con ogni probabilità in seguito alla fine dei privilegi concessi loro dal regime fascista, temevano rappresaglie o l’esproprio dei propri beni da parte dei partigiani comunisti. Lo stesso articolo riporta come in Alto Adige giunsero in massa – per ovvi motivi – Carabinieri ed ufficiali dell’Esercito, i quali scappavano dai tribunali popolari jugoslavi che gli avrebbero con ogni probabilità processati in quanto collaboratori della Wehrmacht nonché difensori armati di un regime che aveva oppresso per decenni la popolazione istriana, in particolare quella slava ma anche gli italiani non sottomessi al regime. Oltre a queste categorie, obiettivi sensibili di un notevole risentimento da parte della popolazione slava e antifascista, la paura di rappresaglie indiscriminate che di fatto non accaddero nelle dimensioni paventate, coinvolse però anche operai e proletari che rimasero coinvolti nell’esodo del secondo dopoguerra.

Come affermò lo storico Claudio Pavone la Resistenza fu un intreccio di tre guerre: guerra di liberazione nazionale dall’occupante straniero, guerra civile contro i fascisti e guerra di classe contro la classe dirigente e la borghesia italiana che aveva visto i propri patrimoni aumentare nel corso del Ventennio. Nel caso dei fatti accaduti sul confine orientale ciò appare in modo evidente in un contesto reso ancora più gravido di tensioni a causa delle politiche di discriminazione etnica prodotte dal regime che stroncarono la possibilità di convivenza delle popolazioni che da secoli condividevano la stessa terra.

Mai come oggi dobbiamo ricordare i crimini di guerra compiuti dall’Esercito italiano nei Balcani e nel corso della guerra coloniale in Etiopia, come in quella di Spagna. Se certamente non può esistere memoria condivisa con chi ancora oggi – fuori e dentro le istituzioni – rivendica apertamente la barbarie del nazifascismo, non si può arretrare di un millimetro riguardo alla necessità di studiare e far conoscere la storia in modo completo, rispedendo al mittente i tentativi di chi vuole utilizzarla per ricostruirsi una verginità politica o addirittura atteggiarsi a idealisti perdenti. 

Per approfondire indichiamo di seguito una bibliografia minima, video e siti utili

BIBLIOGRAFIA:

REVISIONISMO DI STATO E AMNESIE DELLA REPUBBLICA Atti del Convegno: Foibe: La verità. Contro il revisionismo storico Sesto San Giovanni (MI), 9 febbraio 2008. Kappavu: Udine.

Centro studi per la scuola pubblica. REVISIONISMO STORICO e terre di confine. Kappavu: Udine.

Claudia Cernigoi. Operazione Foibe tra storia e mito. Kappavu: Udine.

Claudia Cernigoi. “OPERAZIONE PLUTONE”. Le inchieste sulle foibe triestine. Kappavu: Udine.

Davide Conti. L’occupazione italiana dei Blacani. Crimini di guerra e mito della Brava gente 1940-1943. ODRADEK.

Alessandra Kersevan. UN CAMPO DI CONCENTRAMENTO FASCISTA. Gonars 1942-1943. Kappavu: Udine.

Alessandra Kersevan. Lager italiani. Pulizia etnica e campi di concentramento fascisti per civili jugoslavi 1941-1943. Editore Nutrimenti: Udine, 2008.

Tone Ferenc, Pavel Kodrič, Si ammazza troppo poco: condannati a morte, ostaggi, passati per le armi nella provincia di Lubiana; 1941–1943. Società degli scrittori della storia della Lotta di Liberazione, 1999

Eric Gobetti. Alleati del nemico. L’occupazione italiana in Jugoslavia (1941-1943). Laterza, 2013

M. Gombač e D. Mattiussi. La deportazione dei civili sloveni e croati nei campi di concentramento italiani. 1942-1943. I campi del confine orientale. Centro isontino di ricerca e documentazione storica e sociale L. Gasparini, 2004.

Gianni Oliva. “Si ammazza troppo poco”, Mondadori, Milano, 2006.

Joze Pirijevec. Foibe. Una storia d’Italia. Einaudi.

Federico Tenca Montini. FENOMENOLOGIA DI UN MARTIROLOGIO MEDIATICO. Le foibe nella rappresentazione pubblica dagli anni Novanta ad oggi. Kappavu: Udine.

LA FOIBA DEI MIRACOLI – Indagine sul mito dei “sopravvissuti”. Kappavu: Udine.

Piero Purini. Metamorfosi etniche. I cambiamenti di popolazione a Trieste, Gorizia, Fiume e in Istria. 1914-1975. Kappavu: Udine.

AA.VV. Da Sanremo alle Foibe. Spunti di riflessione storica e culturale sullo spettacolo “Magazzino 18”. Kappavu: Udine.

 

VIDEO:

Fascist Legacy – a proposito dei crimini di guerra italiani nei Balcani

SITOGRAFIA:

E allora le Foibe? Un’intervista a Piero Purich apparsa su Salto.bz il 10 febbraio 2021

La storia intorno alle Foibe di Nicoletta Bourbaki

Pillole di storia sul confine orientale

Coordinamento nazionale per la Jugoslavia

diecifebbraio.info

#Foibe o #Esodo? «Frequently Asked Questions» per il #GiornodelRicordo

Un intervento dello storico triestino Claudio Venza a Radio Blackout di Torino

Posted in General, Internazionalismo, Libri, Storia di classe | Tagged , , , , , , , , | Comments Off on [Revisionismo storico-Bolzano] L’operazione Foibe ed i suoi effetti

[Carovita in Alto Adige] Voglio andare a casa, la casa non c’è. Una riflessione.

Voglio andare a casa, la casa non c’è. E se c’è, costa troppo.

Abitare in una delle città più care d’Italia non è cosa per tuttx. Come non a tuttx è riservata quella condizione di benessere e l’alta qualità di vita diventata quasi il brand commerciale della regione. Questo lo sappiamo da un pò, ma le prospettive tutt’altro che rosee date da un presente al limite della distopia, ci prospettano un futuro dove difficilmente #andràtuttobene. E dove, probabilmente la forbice fra chi può e chi non può continuerà ad ampliarsi.

In un tempo quindi dove “stare a casa” è diventato un imperativo categorico, diventa doveroso soffermarsi e ragionare sull’abitare, sulle condizioni di un mercato immobiliare che in Alto Adige vale oro per chi specula sugli affitti e che pesa invece come un macigno sulle tasche di proletari e proletarie, di sfruttati e sfruttate. La casa costa troppo e in molti casi consuma anche metà del reddito. Le poche briciole guadagnate vanno via così, fra affitti esorbitanti e caro spesa. In una delle regioni più ricche d’italia la ricerca di una casa diventa per tantx una tragica epopea, e mentre più di 15.000 appartamenti restano vuoti, le città continuano ad ingrandirsi al ritmo di riqualificazioni e speculazioni edilizie. Se però ai nostri occhi è evidente la cacciata del povero dal centro città come nel caso del progetto Benko, meno evidenti sono le storie di chi si barcamena nella ricerca di una casa fra caparre esorbitanti, credenziali irraggiungibili e padroni arroganti e pretenziosi. Nel frattempo, gli stipendi non si alzano, il precariato diventa normalità ma gli affitti salgono e proliferano i grandi proprietari come i nostrani Tosolini e Podini che letteralmente continuano ad avere le mani sulla città. Certo potremo continuare a pensare che a “salvarci” ci sarà sempre il sistema di welfare e l’edilizia sociale. Ma che ruolo hanno i sussidi, le somme a fondo perduto se non quello di prestare il fianco agli interessi dei proprietari e dei costruttori? Che ruolo ha il guinzaglio dell’assistenzialismo se non quello di addomesticarci facendoci accettare lo strozzinaggio degli affittuari? Emblematica la notizia di pochi giorni fà: una donna disoccupata che nel meranese rischia di finire per strada insieme alla sua famiglia. Lavoratrice del settore gastronomico, altra punta di diamante della regione, che dopo aver perso il lavoro durante l’ultima fra le tante ormai sistematiche crisi, perderà anche la casa a causa del mancato rinnovo del contratto di locazione. Uno sfratto imminente, nessun contratto di lavoro, poche prospettive, tranne una: il dormitorio. Di dormitori, strutture per senza tetto e soluzioni tampone ne abbiamo sentito parlare molto. Centinaia di senza casa, alcuni lavoratori, troppo poco “bianchi” per meritare una casa in un sistema tossico dove il baluardo dell’integrazione e della meritocrazia rivela giorno dopo giorno violenze e discriminazioni. Come ogni inverno, l’emergenza dei senza tetto ha colto nuovamente di sorpresa politici, società civile e “cristiani caritatevoli”, in prima linea a tappare i buchi di un sistema che crea e poi espelle da se stesso gli ultimi degli ultimi, cacciati progressivamente dal tessuto urbano a suon di sgomberi e retate. Una guerra urbana al povero dove continua a venire inscenata la tiritera dell’assistenza, della raccolta di beni e oggetti che immancabilmente e periodicamente poi vengono sottratti e gettati durante gli sgomberi di polizia con la complicità della Seab. 100 coperte però non fanno per forza una casa. Dormitori e strutture non sono una casa, ma luoghi che infantilizzano, imprigionano e sviliscono. Con sguardo nostalgico leggiamo di vecchie pratiche di lotta, di sospensione degli affitti, di occupazioni collettive e di resistenza urbana solidale e attiva e autogestita. E’ però in in questa città di ricchi che ci opprime e ci deruba che dobbiamo e abbisogniamo di alternative. E’ in questo mostro d’asfalto che dobbiamo trovare nuove pratiche di riappropriazione di spazi, di autorganizzazione e di autodeterminazione. Perchè non solo la casa, ma anche la città è di chi la abita non di chi la consuma, la compra e la vende impoverendo tuttx gli altri.

Messaggi contro la speculazione immobiliare lasciati sul cantiere Benko in centro storico a Bolzano

“Benko devasta e saccheggia la tua città” Proteste a Bolzano contro la costruzione del Kaufhaus di Benko, progetto favorito e appoggiato da tutte le principali forze politiche e legittimato da un referendum farsesco.

A proposito di Benko, avevamo scritto anche al seguente link.

Altri messaggi lasciati sul cantiere Benko a Bolzano, emblema della privatizzazione dei centri storici e della trasformazione delle città in spazi-vetrina per ricchi

Posted in Critica sociale, General | Tagged , , , , , , | Comments Off on [Carovita in Alto Adige] Voglio andare a casa, la casa non c’è. Una riflessione.

[Repressione] Violenze della polizia contro i lavoratori in sciopero a Piacenza

Da molti anni il sindacato SICOBAS è in prima linea nelle lotte dei lavoratori, in particolare fra gli operai della logistica. Lunghi e difficili scioperi, picchetti, formazione politica e sindacale fra i proletari dei magazzini, in gran parte di origine straniera, ha permesso di trasformare la situazione in molti luoghi di lavoro, combattendo forme di schiavismo ed assenza totale di diritti che nella democratica Italia degli anni 2000 si diffondevano a macchia d’olio fra i capannoni della pianura padana.

Un disegno di ZeroCalcare per gli operai della logistica piacentini

Un sindacato combattivo e tenace che fa il lavoro che ogni sindacato degno di tal nome dovrebbe fare: stare fra gli sfruttati, rivendicare condizioni di lavoro migliori, costruire solidarietà e sviluppare una coscienza di classe internazionalista che sappia rispedire al mittente le provocazioni padronali e dei loro tirapiedi politici interessati a innescare una guerra fra poveri.

Fra il silenzio pressoché totale dei principali media nazionali la repressione nei confronti dei lavoratori è feroce. Cariche della celere contro gli scioperanti, centinaia di operai denunciati e sotto processo a Modena per i picchetti. Va ricordato inoltre come una provocazione della polizia politica (leggi DIGOS) tentò di incastrare il portavoce nazionale del sindacato, Aldo Milani.

Pochi giorni fa, nella notte fra il 29 ed il 30 gennaio, durante uno sciopero di fronte ai cancelli della multinazionale FedEx-TNT di Piacenza i reparti celere della polizia hanno attaccato duramente i lavoratori in sciopero, caricando e sparando numerosi candelotti di gas lacrimogeno provocando ustioni e gravi contusioni. Gli operai in sciopero non si sono fatti intimidire e sono rimasti al loro posto; decisi a difendere la propria dignità e dimostrando con i fatti che è possibile organizzarsi e lottare, nonostante la repressione e complice silenzio della cosiddetta “società civile”.

I reparti celere attaccano i lavoratori in lotta

Reparti celere contro gli scioperanti

I lavoratori stavano protestando contro l’intenzione della multinazionale americana di licenziare 650 lavoratori nell’ambito di un più generale piano di tagli del personale che a livello europeo, ha annunciato la stessa multinazionale del settore logistico, prevede il taglio di 6.300 posti di lavoro.

Per avere un racconto diretto di ciò che è avvenuto davanti ai cancelli di Piacenza ascoltate l’intervento fatto a Radio Onda d’urto al seguente link.

Riprendiamo un comunicato stampa scritto dal sindacato SICOBAS, riguardo alle violenze di cui la polizia italiana si è resa responsabile contro un picchetto di lavoratori in sciopero a Piacenza. Un’azione inaccettabile che conferma il loro ruolo di difesa degli interessi padronali e delle multinazionali americane intenzionate a promuovere anche in Italia condizioni lavorative di sfruttamento della manodopera.

La lotta dei lavoratori della logistica è la lotta di tutti i proletari. MASSIMA SOLIDARIETA’

COMUNICATO STAMPA

Nella notte fra lunedi e martedi violento pestaggio dei lavoratori FedEx-TNT da parte dei reparti celere.

Gli operai presidiavano pacificamente i cancelli della multinazionale statunitense per protestare contro l’annunciata volontà di eliminare 650 lavoratori.

Per la città di Piacenza, già duramente colpita dalla recessione dovuta al Covid-19, un colpo non sostenibille.

Sebbene gli oltre 300 operai presenti fossero del tutto pacifici, intorno alle 22:30 la polizia ha attaccato il presidio con lancio di lacrimogeni CS (vietati dalle convenzioni internazionali) e con violente cariche dei lavoratori rimasti storditi a terra.

Diversi operai hanno riportato ematomi evidenti al cranio e tagli dovuti al meccanismo esplodente dei lacrimogeni. Numerose anche le ustioni, di cui purtroppo molte ai volti.

Questa logica di gestione delle emergenze sociali quali problemi di ordine pubblico è del tutto inaccettabile per un paese civile.

Prefettura e questura dovrebbero preoccuparsi di non permettere alle multinazionali americane di umiliare e sbattere in mezzo alla strada i cittadini della loro città, piuttosto che di operare come loro guardie private.

Gli operai sono tornati davanti ai cancelli senza paura, e continueranno la loro lotta sino ad ottenere le opportune garanzie.

COORDINAMENTO PROVINCIALE S.I. COBAS

Posted in Critica sociale, General | Tagged , , , | Comments Off on [Repressione] Violenze della polizia contro i lavoratori in sciopero a Piacenza

[Strage nelle carceri marzo 2020] Una lettera dal carcere di Rieti

Con il passare del tempo stanno emergendo testimonianze sempre più agghiaccianti relative a ciò che è successo nelle carceri italiane nel marzo 2020. Sebbene la gravità rappresentata dalla morte di 13 persone (il ministro Bonafede affermò come fossero morti tutti di overdose) sarebbe stata di per sé sufficiente per suscitare un moto di rabbia e indignazione nel Paese, lo Stato d’eccezione conseguente alla pandemia ha messo in secondo piano la morte di 13 uomini, evidentemente considerati poco importanti e per cui non valeva la pena di fare nemmeno una distratta interrogazione parlamentare. Anzi, la solidarietà verso i prigionieri è stata criminalizzata al punto che ad esempio un PM di Bologna ha messo in piedi per l’occasione un’assurda, ma altresì preoccupante inchiesta “antiterrorismo” contro gli anarchici bolognesi mettendo sotto accusa la loro mobilitazione solidale con i prigionieri in lotta. L’ennesima operazione di criminalizzazione del dissenso che lo stesso Pm D’Ambruoso insieme ai Carabinieri, aveva definito di carattere preventivo. Un’operazione di psicopolizia insomma.

La protesta dei detenuti al carcere di San Vittore a Milano

A 20 dai fatti del G8 di Genova e dalle torture praticate dalla polizia nella caserma di Bolzaneto ed alla scuola Diaz si conferma come all’interno dello Stato italiano esistano sempre più spazi in cui le istituzioni agiscono al di fuori ogni vincolo legale. In particolare ciò avviene nelle carceri, luogo per eccellenza in cui vige l’arbitrarietà più totale, ma anche nei Centri di identificazione ed espulsione (CIE). In ogni caso militanti antagonisti, sindacalisti di base, carcerati e immigrati costituiscono gli obiettivi principali della violenza di Stato: essi rappresentano un “nemico interno” contro cui, all’interno di una cornice che garantisce impunità e protezione ai responsabili di violenze e repressione, tutto è permesso.

Dopo le rivolte del marzo 2020, nei primi mesi, il timore di subire rappresaglie da parte dell’amministrazione penitenziaria o degli stessi secondini, aveva impedito che gran parte delle testimonianze uscisse ma il passare del tempo, unito alla solidarietà dall’esterno ed al coraggio di alcuni detenuti che hanno avuto la forza di rompere il muro del silenzio e della paura, sta facendo scricchiolare il muro dell’indifferenza, e particolari sempre più agghiaccianti stanno emergendo.

Appare sempre più chiaro come i giorni dopo la rivolta la polizia penitenziaria abbia messo in atto una vera e propria rappresaglia su scala nazionale contro rivoltosi ed in generali i carcerati. Anche la puntata della trasmissione Report trasmessa il 18 gennaio 2021 su Rai3 dimostra come i familiari dei detenuti -non necessariamente coinvolti nelle rivolte- fossero al corrente fin da subito della mattanza in atto nelle carceri.

Nel carcere di Santa Maria Capua Vetere così come in quello di Foggia le squadrette di secondini hanno massacrato i detenuti praticando di fatto estese forme di tortura attraverso una sistematica violenza fisica e psicologica. Ricordiamo come Matteo Salvini della Lega e Giorgia Meloni di Fratelli d’Italia diedero subito la propria solidarietà ai secondini indagati per i pestaggi e le torture inflitte ai detenuti; infatti furono proprio loro fra i più strenui avversari dell’introduzione del reato di tortura nell’ordinamento giuridico italiano che a loro dire “avrebbe impedito alle forze dell’ordine di lavorare”.

Un ulteriore tassello che va ad aggiungere conferme alle drammatiche vicende nelle carceri post-rivolta è costituito da una lettera anonima scritta dal carcere di Rieti nel giugno 2020 che racconta la rivolta avvenuta anche lì e la successiva vendetta dei secondini.

Ma ciò che più vi voglio raccontare sono i giorni della rivolta, il perché e i soprusi subiti. Gli amici lasciati morire e i morti, e i feriti, e di come hanno provato a piegarci anche nell’animo. Abbiamo iniziato la rivolta per la solidarietà verso gli altri detenuti e per i nostri diritti negati senza motivo o almeno senza rassicurazioni ma per una semplice imposizione di ignoranza da parte delle istituzioni e della direzione carceraria. Era il 9 marzo. Prima della chiusura abbiamo sfondato telecamere e cancelli del carcere senza toccare uno solo degli assistenti, anzi dando loro la possibilità di scappare. Abbiamo preso il controllo del carcere arrivando fino sopra l’edificio, abbiamo contrattato con le istituzioni a lungo perché ci garantissero risposte, rassicurazioni, diritti, infine abbiamo deciso, dopo diverse ore, di restituire il carcere e il controllo alle istituzioni col patto di raggiungere un intesa e che non ci fosse fatto nulla, come noi non avevamo fatto a loro fisicamente. Siamo rientrati nelle celle di nostra volontà restituendo il carcere. Alcuni di noi si sono feriti durante la rivolta, altri hanno avuto accesso a farmaci pericolosi come il metadone che era in una cassaforte nell’infermeria con le chiavi attaccate, chiavi che se fossero state tolte avrebbero salvato vite. Ma non è bastato tutto questo, nel giorno a seguire e nei mesi fino a oggi abbiamo passato e ho visto ogni genere di sopruso, abuso di potere. Per cominciare la sera stessa chi è stato male per le medicine non è stato subito portato all’ospedale e infatti i 4 morti lo sono perché dopo che noi li abbiamo consegnati ai dottori e istituzioni finché ricevessero assistenza. Hanno subito un primo soccorso e sono stati riportati a morire in una cella soli e in preda ai dolori, abbandonati come la spazzatura. Che solo il giorno successivo chi era sopravvissuto ha ricevuto assistenza ed è stato portato in ospedale, chi non ce l’ha fatta, non ce l’ha fatta perché è stato lasciato morire senza un motivo o perché forse ancora non se ne aveva uno per farlo vivere. Con la speranza di cancellare tutto, di nascondere ciò che era successo……..Comunque per noi che invece eravamo lì nei giorni a seguire non è stato facile dopo aver portato via i cadaveri il giorno successivo, trascinati come immondizia in un sacco, e ciò lo dico perché l’ho visto con i miei occhi dalla cella,sono saliti i celerini, le squadrette carcerarie. Sono entrati cella per cella, ci hanno spogliato chi più chi meno e ci hanno fatto uscire con la forza, messi divisi in delle stanze e uno alla volta passavamo per un corridoio di sbirri che ci prendevano a calci,schiaffi e manganellate; per i più sfortunati tutto ciò è durato quasi una settimana tra perquisizioni, botte, parolacce, ci dicevano “merde, testa bassa!” “vermi” e quando l’alzavi per dispetto venivi colpito ancora più forte. Ricordo che per due giorni non passò neanche da mangiare e prima di cinque non avevamo potuto contattare neanche i nostri familiari. Io stesso sono stato in una cella allagata, bagno rotto dalle perquisizioni, nella merda più totale che c’era nella cella ho dormito in una palude senza coperte o zozze e bagnate; per tutti quei giorni ho provato a gridare, lamentarmi ma o mi veniva detto: “è quello che meriti merda” o venivo picchiato dalle squadre di celerini. Sono stato fortunato perché ho visto gente trascinata fuori senza denti o svenuta per le percosse, ho urlato a chi lo faceva per prendere anche la mia parte ma fortuna e caso sono ancora qua, altri, invece, non ci sono o sono stati trasferiti lontano e i più sfortunati hanno preso altre botte all’arrivo di un altro istituto. Abbiamo subito tutti in quei giorni, alcuni meno, altri più. Ci hanno tolto o volevano toglierci la dignità, ma voglio dirvi una cosa, non ce l’hanno fatta perché anche in quei giorni ci davamo manforte, c’erano risate, c’era la voglia di alzare la testa anche se ci veniva spinta giù con la forza, di guardare anche se ci veniva detto di non farlo, non ci siamo arresi mai e siamo ancora qua con la voglia di vivere e di ridere ma con la consapevolezza e il ricordo di ciò che è stato e degli amici persi e dei torti subiti in nome della loro giustizia che giustizia non è, ad oggi ci troviamo chiusi 20 ore su 24, 2 ore alla mattina 2 dopo pranzo, non ci sono attività ricreative così biblioteca, palestra, niente. Beh ci sarebbe tanto da dire ma ho cercato di esprimere il più come potevo. Ora vi saluto e vi ringrazio…..”.

Teniamo alta l’attenzione sull’evolversi della situazione per i detenuti, costruiamo la solidarietà per Mattia Palloni, Claudio Cipriani, Ferruccio Bianco, Francesco D’Angelo e Cavazza Belmonte che hanno avuto il coraggio e la forza di denunciare i drammatici fatti accaduti nel carcere di Modena.

Posted in Critica sociale, General | Tagged , , , | Comments Off on [Strage nelle carceri marzo 2020] Una lettera dal carcere di Rieti

[Innsbruck] Aggressione della polizia austriaca contro manifestazione antirazzista

Sabato 30 gennaio 2021 a Innsbruck si è tenuta una manifestazione contro i respingimenti – avvenuti di recente anche contro minorenni – e le espulsioni. Da molto tempo nella città tirolese ed in generale in Austria è in corso una mobilitazione solidale con i richiedenti asilo, in cui compagni ma anche uomini e donne sensibili alla situazione di chi è costretto a fuggire per cercare condizioni di vita migliori, si organizzano per rompere l’indifferenza con cui avvengono espulsioni e respingimenti, atti burocratici che possono segnare la distanza fra vita e morte di molte persone.

Come scriveva Franz Kafka: Le catene dell’umanità sofferente sono fatte di carta protocollo.

I muri di Innsbruck parlano

Ricordiamo inoltre come 5 anni fa l’Austria valutasse la costruzione di un muro antimigranti al passo del Brennero contro cui il 7 maggio 2016 centinaia di uomini e donne manifestarono venendo duramente repressi dalla polizia italiana. Per quella giornata 63 compagni/e sono stati condannati a pene fra i 7 e 12 mesi mentre nel prossimo mese di aprile arriverà la sentenza contro altri 63 compagni/e accusati del reato di devastazione e saccheggio per cui la Procura di Bolzano, nello specifico il magistrato Andrea Sacchetti, all’interno di un disegno accusatorio evidentemente politico e totalmente estraneo alla realtà dei fatti verificatosi nella giornata, richiedono un totale di 338 anni di carcere. Imbeccato dagli uffici politici delle Questure di mezza Italia il novello Torquemada rappresentante dell’accusa esegue, intenzionato, con tali folli e sproporzionate accuse, ad intimidire alcune decine di compagni e compagne che di fronte alle stragi nel Mediterraneo ed ai morti sui passi alpini, non volevano assistere passivamente e quindi in modo complice, alla costruzione dell’ennesimo muro che avrebbe determinato altri morti e altra disperazione. Alcune decine di uomini e donne che, in particolare nei tempi pandemici odierni, dove le disuguaglianze economiche crescono sempre più e le ingiustizie di ogni tipo aumentano, di certo non rimarrebbero a subire passivamente gli attacchi sempre più spregiudicati di miliardari, industriali, speculatori ed in generale di chi sta cercando di far pagare la crisi ai proletari.

Dietro al motto Grenzen töten – le frontiere uccidono oltre 600 manifestanti per le strade di Innsbruck hanno denunciato come le politiche strutturali dell’Unione Europea sono alla base dell’aumento di profughi e quindi di morti nel Mediterraneo ma anche sui passi alpini. Per ricordare che l’emigrazione ed il flusso di profughi in arrivo nel ricco occidente non può essere slegato dalle politiche economiche neocoloniali contro i paesi più poveri e instabili.

Lo striscione di apertura della manifestazione: Lo stato austriaco uccide (dalla pagina twitter autonome antifa wien)

(dalla pagina twitter autonome antifa wien)

Combattere le cause dell’emigrazione non i profughi (dalla pagina twitter autonome antifa wien)

La manifestazione è stata chiamata sulla base del seguente testo:

Nel Mar Mediterraneo, nelle foreste della Bosnia come a Moria su Lesbo – il regime militarizzato di confine europeo provoca sofferenze inimmaginabili. Le persone in cerca di rifugio in Europa vengono fermate ai confini. A molte persone non viene nemmeno data la possibilità di fare una richiesta di asilo. Tramite azioni illegali vengono riportati lontani dalla frontiera per essere abbandonati senza un tetto, a soffrire il freddo.

L’Europa collabora con stati dittatoriali ed agenzie private, come ad esempio Frontex, per imporre queste pratiche razziste.

Superiamo il pensiero nazionalista: Permettiamo vie di fuga sicure! Apriamo i confini! Di spazio ne abbiamo!

Il disprezzo per l’umanità di questa politica di frontiera razzista, si manifesta non solo ai confini esterni dell’Europa, ma anche al suo interno, dove le persone sono spesso costrette a passare mesi e mesi nei centri di identificazione ed espulsione.

Questi centri che sembrano delle carceri, sono in condizioni inaccettabili.

Un esempio concreto di tutto questo è il centro di espulsione di Bürgelkopf in Tirolo. Qui in montagna, in completo isolamento, a 1250m d’altitudine vengono detenuti ca. 90 rifugiati. L’obiettivo di questa struttura è l’isolamento dei rifugiati, portarli all’esasperazione per per poi costringerli all’ “uscita volontaria dal paese”. Bürgelkopf e tutti gli altri lager devono chiudere subito! Organizziamoci per offrire un appoggio solidale, creiamo per esempio possibilità di alloggi decentralizzati per rifugiati!

Lo stato austriaco continua tuttora con le espulsioni – nonostante l’epidemia! Negli ultimi mesi oltre alle molteplici espulsioni individuali ci sono state varie espulsioni effettuate con voli charter diretti in Russia, Nigeria e Afghanistan. Questi paesi sono governati da dittatori, vengono perpetrati crimini contro l’umanità e c’è guerra.

A tutto questo noi dobbiamo rispondere! La resistenza contro le espulsioni è possibile e urgentemente necessaria! L’Europa da centinaia di anni trae profitto dallo sfruttamento e dalle guerre nel sud globale. L’ideologia razzista e la perseveranza delle strutture economiche coloniali devono essere interrotte.

È ora di costruire una società libera – un’altro mondo è possibile!

Durante la manifestazione la polizia tirolese, come al solito presente in massa in numeri del tutto sproporzionati, con la scusa che le norme anti COVID non sarebbero rispettate, ha attaccato con violenza il corteo con spray al peperoncino, aggredendo i manifestanti. È intervenuto adirittura il ministro dell’interno austriaco Karl Nehammer dell’ÖVP che ha immancabilmente rovesciato la realtà dipingendo i manifestanti come “i violenti” che avrebbero attaccato gli agenti, cosa fra l’altro palesemente falsa come dimostrano anche diversi video caricati in rete.

In tutto sembra sono 5 i manifestanti arrestati, numerosi i contusi per via dell’aggressione poliziesca mentre altri 25 sono stati fermati.

Massima solidarietà agli arrestati ed ai fermati. 

Aggressione della polizia contro un manifestante (foto Michael Bonvalot)

 

La polizia scioglie il corteo (dalla pagina twitter autonome antifa wien)

Il criminale utilizzo di spray al peperoncino contro manifestanti (foto Michael Bonvalot)

Manifestante fermato (foto Michael Bonvalot)

 

Posted in Antirazzismo, General, Iniziative, Internazionalismo, Oltre il Brennero | Tagged , , , , , , | Comments Off on [Innsbruck] Aggressione della polizia austriaca contro manifestazione antirazzista

[Storia di classe-Bolzano] La brevissima storia del Nautilus occupato

A volte, riflettendo a distanza di anni sulle esperienze vissute, ci si accorge meglio del loro valore e della necessità di raccontarle affinché non vadano perdute. Storie che dovrebbero essere narrate dai protagonisti e non lasciate alle righe di cronaca del giornale locale. Storie da ricordare per la generosità di chi ne è stato protagonista, disinteressato ad ogni forma di guadagno: sia in termini di notorietà e presenzialismo sui giornali che di opportunismo politico. Una di queste, sconosciuta pressoché a tutti, eccetto i diretti protagonisti, è quella del Nautilus occupato di via Mendola. Chi legge storcerà il naso: un’ occupazione a Bolzano? Quando mai? In effetti non ha lasciato grandi tracce nella città eppure un tentativo c’è stato e merita di essere ricordato, se non altro perchè avvenuto in una città in cui nulla del genere, dopo l’esperienza dell’ex monopolio nel 1979, era mai accaduto.

Agli inizi degli anni 2000 a Bolzano, nei garage del quartiere Don Bosco, fra sale prove di gruppi punk e salette prese in affitto un gruppo di amici avvicinatosi nel frattempo a correnti di pensiero che spaziavano dall’anarchia al comunismo, iniziò a fantasticare sempre più sulla possibilità di occupare uno spazio in città. Ogni anno alle scuole superiori si facevano lunghe autogestioni in cui le scuole venivano riprese dagli studenti con seminari autogestiti ma anche sane partite a calcio nei corridoi, cineforum, discussioni su politica, droga, ecc. Manifestazioni oceaniche con migliaia di studenti – italiani e tedeschi – attraversavano la città contro la riforma della ministra dell’Istruzione Moratti. Ci furono anche diversi tentativi di occupazione come all’Istituto Tecnico Commerciale “Cesare Battisti” di via Cadorna o in altri licei. Qualcuno di noi era passato per l’esperienza del G8 di Genova e per le varie mobilitazioni del movimento contro la globalizzazione che allora i giornalisti chiamavano “No Global”; ci si trovava ai prati del Talvera e si iniziava ad uscire dalla città per andare a concerti in spazi occupati e/o autogestiti a Bologna. In Sudtirolo non mancavano – in spazi come il Papperlapapp oppure l’isola a Fiè – concerti che coinvolgevano giovani punk provenienti da tutta la provincia tanto che ci si stupiva sempre nel vedere il movimento che c’era nelle valli, a noi cittadini assai poco conosciute. A Bolzano si erano tenute diverse iniziative e fra le altre cose fra il 2003 e 2004 si era fatto un corteo spontaneo per la città che aveva visto partecipare un centinaio di giovani e giovanissimi contro la chiusura del centro giovanile Isola di Fiè, chiuso improvvisamente agli inizi del 2004. Uno spazio importante in cui negli anni erano stati organizzati Punk-HC memorabili e la cui chiusura suscitò la rabbia di tutto il Sudtirolo underground.

Fra il 2002 ed il 2003 gli anarchici di Rovereto avevano fatto inoltre diverse occupazioni negli stabili abbandonati della cittadina. Alcuni da Bolzano erano scesi e lì avevano potuto sentire l’aria di autogestione e di libertà che vi si respirava. Uno spazio in cui finalmente si poteva discutere liberamente ed esprimere la propria rabbia ed il proprio disprezzo verso un sistema costruito su guerre e sfruttamento che proprio in quel periodo fra l’altro iniziava l’ennesima guerra democratica ossia la criminale invasione dell’Iraq, che seguiva quella iniziata due anni prima, in Afghanistan.

Si iniziò così a riflettere sulla possibilità di prendersi uno spazio anche a Bolzano; una città a dir poco ostile in cui sembrava azzardato anche solo pensare di fare una scelta del genere. Eppure l’alchimia si trovò e, incontro dopo incontro, dopo aver valutato diversi posti possibili si arrivò a trovarne uno, in una zona della “Bolzano bene”; un edificio di proprietà del costruttore immobiliare Tosolini, forse l’immobiliarista più grande della Provincia. Per noi, che volevamo denunciare la vergogna della speculazione immobiliare, gli affitti da strozzinaggio, i costi delle case insostenibili era il posto perfetto con il proprietario perfetto. Volevamo costruire uno spazio completamente libero da ogni condizionamento dell’onnipresente potere provinciale e dei suoi assessorati,  in cui mettere davvero in discussione la realtà in cui vivevamo, in modo diretto, senza mediazioni.

Circa una 30ina di giovani e giovanissimi compagni, di madrelingua italiana e tedesca, almeno la metà minorenni (i più “vecchi” avevano 20 anni), punk e ribelli di ogni tipo, un pomeriggio del 18 giugno 2004 si diede così appuntamento al parco di via Roen per andare poi verso l’edificio prescelto.

In una città come Bolzano, dove era assente qualsiasi tipo di movimento o collettivo, arrivammo a organizzare l’azione in modo autonomo, tutti eravamo alla prima esperienza di occupazione e l’unico accorgimento che avevamo preso nei giorni precedenti era stato il recupero abusivo, nella discarica della zona industriale, di alcuni materassi su cui avremmo dovuto dormire nelle notti di occupazione. Oltre ai materassi avevamo con noi sacchi a pelo, alcune scope per pulire per terra, uno stereo ma soprattutto diverse casse di birra, l’aspetto a cui avevamo badato con più attenzione.

Dal parco di via Roen il gruppone partì quindi verso via Mendola ed entrò attraverso la porta principale che di fatto era stata trovata aperta. Entrammo nella casa ed a distanza di anni chi scrive ricorda ancora perfettamente  l’entusiasmo, la gioia, un lasso di tempo in cui vi era la sensazione che si stesse vivendo in modo pieno, appagante. Chi si mise subito a pulire, chi a barricare la porta principale con materassi e bastoni, chi si aprì la lattina di birra per brindare alla prima occupazione di Bolzano, al Nautilus occupato. Nella gioia del momento lasciammo una piccola porta laterale aperta, senza barricarla, forse con l’idea che la polizia non l’avrebbe vista e che in ogni caso non sarebbe entrata immediatamente.

La prima occupazione, ma forse anche la più breve della storia. Dopo nemmeno un’ora una coppia di poliziotti probabilmente allertati dai vicini, sfondò proprio la porta che avevamo lasciato sguarnita, uno di loro con la pistola spianata. Presi completamente di sorpresa alcuni si lanciarono dalla finestra al piano terra e si dispersero nelle campagne mentre invece circa una ventina rimase bloccata in casa. Arrivarono poi le camionette che portarono gli occupanti nella Questura di via Marconi dove vennero notificate le denunce a 19 compagni/e di cui 13 minorenni.

Il volantino -mai distribuito- che era stato scritto per presentare l’occupazione alla città

Non si arrivò nemmeno a mettere fuori lo striscione dal balcone, dove vi era scritto Nautilus occupato con il simbolo delle occupazioni. I volantini preparati per presentare l’occupazione alla città non vennero mai distribuiti e nelle settimane e mesi successivi ci ritrovammo per tentare di riorganizzare l’offensiva ma per vari motivi non fu possibile.

Dalla Tageszeitung, giugno 2004

La notizia del tentativo di occupazione apparve sui giornali e nei giorni seguenti sulla casa, i cui ingressi al piano terra nel frattempo erano stati murati per impedire una nuova occupazione, apparvero delle scritte dei nazi/fasci bolzanini con tanto di svastiche e minacce. Ricordiamo che solo pochi mesi prima, nel novembre 2003, un giovane trentino di Pergine, Luca Tomaselli, era morto in seguito ad un brutale pestaggio subito da alcuni naziskin di Bolzano.

Il volantino distribuito in città dopo lo sgombero

L’occupazione del Nautilus fu una scintilla che avrebbe potuto attecchire, forse un sogno interrotto bruscamente che non ha avuto modo di continuare. Un attimo che ha lasciato nel cuore di chi vi ha partecipato – e di chi scrive – la sensazione che solo attraverso la lotta e la creazione di rotture con la normalità quotidiana si possano vivere pienamente, nel presente, gli ideali per cui lottiamo. Rendendoli così vivi e operanti nella realtà, non ridotti a sterili enunciazioni per dotti letterati.

Un messaggio nella bottiglia che aspetta ancora di essere raccolto.

Il Nautilus oggi, abbandonato come ieri

Posted in General, Storia di classe, Storia locale | Tagged , , , | Comments Off on [Storia di classe-Bolzano] La brevissima storia del Nautilus occupato

[Bolzano/Violenza di genere] La solidarietà contro la solitudine

Nel marzo 2019 in via Claudia Augusta a Bolzano, M. C., una donna che aveva già denunciato le violenze del marito e che da poco tempo viveva in una comunità protetta, venne raggiunta e accoltellata davanti alla figlia con colpi al collo, al volto e all’addome. Come riporta l’associazione GEA “A causa dell’aggressione è rimasta a lungo tra la vita e la morte, il suo corpo stava collassando. Eppure ce l’ha fatta per sé e per le tre figlie. Uscita dall’ospedale, è stata in istituto di riabilitazione fino all’estate 2019. E solo a quel punto si è riunita alle sue figlie e da allora vive in alloggi protetti”.

Un tentato femminicidio che sarebbe andato ad aggiungersi ad una lunga serie di delitti dello stesso tipo avvenuti in Provincia di Bolzano negli ultimi anni. Oltre alle donne uccise nel corso degli Ottanta dal serial killer Marco Bergamo, negli ultimi anni ricordiamo almeno i nomi di Svetla Fileva, donna bulgara 30enne assassinata a coltellate nel 2012 da un giovane sudtirolese. Nel 2017 in Viale Europa a Bolzano una donna marocchina venne accoltellata 5 volte dal proprio marito. Altre 5 uccise in Alto Adige nel corso del 2018: Monika Gruber, Nicoleta Caciula, Rita Passarotti, Alexandra Riffeser, Magdalena Oberhollenzer. Nei primi giorni del lockdown 2020 venne uccisa ad Appiano Barbara Rauch, da un uomo che da tempo la perseguitava. Sono solo alcuni dei nomi che dovremmo sempre tenere a mente per dare un volto alle aride cifre statistiche che ci raccontano come, solo in Italia, nel corso del 2018 siano state 133 le donne uccise, mentre 111 furono nel 2019. E troppi nomi, volti, li dimentichiamo, colpevolmente. Non si contano poi i casi di violenze domestiche ai danni di donne, spesso costrette a tacere per mancanza di possibilità economiche e concrete vie di fuga. Una realtà in gran parte sommersa che svela come la “famiglia” si trasformi spesso in un incubo capace di rendere la vita in casa un inferno da cui è difficile scappare, senza rischiare feroci vendette da parte del marito o fidanzato.

Bolzano e l’Alto Adige in generale si conferma come sia affatto l’isola felice che gli indicatori economici spesso descrivono.

Ma tornando al tentato femminicidio di via Claudia Augusta l’uomo autore del tentato assassinio è stato nel frattempo liberato in attesa dell’esito del processo e ciò ha evidentemente contribuito ad accrescere la paura della donna. Negli ultimi mesi del 2020 è partito il processo e qualcosa si è mosso nella parte della società più sensibile e determinata a reagire contro tali ingiustizie strutturali. L’associazione bolzanina GEA-per la solidarietà femminile contro la violenza ha organizzato dei presidi davanti al Tribunale di Bolzano per far sentire ad M.C. e con lei a tutte le donne nella sia situazione, il calore della solidarietà.

Il manifesto che ha pubblicizzato il presidio di solidarietà ad M.C. di fronte al Tribunale di Bolzano

Una presenza fondamentale in un periodo, quello del processo, che non è affatto sinonimo di giustizia ma spesso diventa un momento in cui il dolore aumenta e in cui la maggioranza delle persone si trovano sole di fronte all’imponente, glaciale ed asettica macchina amministrativa della Giustizia. Quante volte ad esempio un processo contro gli stupratori si è trasformato in un processo contro le stuprate? Ricordiamo le domande che ad esempio l’avvocato dei carabinieri autori delle violenze sessuali ai danni di due turiste a Firenze un paio di anni fa, fece loro durante l’udienza. Domande umilianti che intendevano rovesciare le responsabilità della violenza.

Troppo spesso inoltre, dopo lo spegnimento dei riflettori mediatici chi ha subito una violenza da parte del proprio partner si ritrova sola, con energie e risorse, morali ed economiche, limitate, ad affrontare un processo che invece di energie e resistenza ne richiede tanta.

Alcuni dei tanti cartelli esposti durante i presidi di solidarietà

É proprio in momenti del genere che si vede l’importanza di tradurre le idee in azione reale, fisica, costruendo la solidarietà là dove ci vorrebbero soli, isolati, incapaci di organizzarci. Un’azione che rompe la virtualità e l’isolamento telematico in cui ci vorrebbero confinati che riesce con la sua apparente semplicità, a rompere la tragica normalità di oppressione, prepotenze e sopraffazione che molte vivono con disperata rassegnazione. Un presidio con un significato che va al di là delle prima impressioni ed i cui effetti si riverberano fra chi ne ha abbastanza di stare in silenzio.

Durante i cortei femministi si urla uno slogan bellissimo che si applica perfettamente alla situazione di M.C. ed alla mobilitazione in corso a Bolzano: Siamo il grido altissimo e feroce di tutte quelle donne che più non hanno voce. Ecco forse da sola M.C. non ce l’avrebbe fatta e solo la solidarietà e la voglia di lottare di alcuni solidale e complici ha permesso a lei di riottenere la voce.

foto presa dal web di una manifestazione femminista

La presenza solidale di fronte al Tribunale di alcune decine di donne e uomini con cartelli, striscioni densi di significati e non di generiche parole d’ordine, oltre a dare forza alla donna colpita dimostra al “quasi assassino” come la questione non sia affatto privata ma che al contrario riguarda tutti coloro che odiano ingiustizie e sopraffazione. La presenza solidale fuori dal Tribunale racconta che alcune persone hanno deciso di non voltarsi dall’altra parte. Là dove avrebbe potuto esserci disperazione e solitudine hanno dimostrato che è possibile costruire solidarietà reale, al di là delle frasi fatte, spesso stucchevoli, recitate nelle ricorrenze ufficiali. Come hanno scritto in un comunicato le organizzatrici della prima manifestazione di ottobre la differenza fra realtà e retorica è profonda: “Certo, è stata posizionata una panchina rossa nel luogo in cui M.C. è stata aggredita. Ma a lei non serve né interessa. Vive nella paura. Non comprende perché lei e le bambine debbano vivere in protezione e il suo aggressore è libero. M.C. la proteggiamo noi. Chiediamo protezione per lei e attenzione per tutte le donne, non per il 25 novembre, non per l’8 marzo, tutti i giorni”.

M.C. la proteggiamo noi

Ancora una volta grazie alle donne, anche in una città spesso ostile e fredda come Bolzano, c’è un cuore che batte ed un’altra piccola crepa nel muro dell’indifferenza si apre, è tempo di farlo crollare.

Foto da una presidio solidale con M.C. di fronte al Tribunale di Bolzano

Cartelli solidali con M.C…Non sei sola

Striscione di alcune/i compagne/i. solidali e complici. “Contro la violenza del patriarcato e la cultura dello stupro. Non sei sola. Solidarietà, complicità e azione diretta.”

Nell’udienza di martedì 12 gennaio, a causa delle manifestazioni di fronte al Tribunale, la difesa dell’uomo ha chiesto un nuovo rinvio. La Cassazione deciderà se il processo deve proseguire a Bolzano o in un’altra corte. Secondo l’avvocato Nicola Nettis l’uomo “non sarebbe sereno” con le manifestazioni di solidarietà alla donna davanti al tribunale e la presenza delle associazioni potrebbe secondo loro influenzare le scelte dei giudici. Siamo felici di sapere che un briciolo, seppur piccolo, della paura e del dolore che lui ha inflitto per lungo tempo torni indietro ma non si può fare a meno di constatare la vigliaccheria di un uomo che finchè spadroneggiava fra le mura di casa si sentiva un uomo forte, un padre-padrone, mentre ora che la sua miseria viene allo scoperto di fronte agli occhi di tutti, inizia a tremare.

Ad ogni modo egli stia pure tranquillo, così come l’avvocato Nettis: il processo potrebbe anche essere – nell’eventualità più folle, assurda e ingiustificata – trasferito nell’angolo più sperduto d’Italia ma ormai la scintilla è partita e sappino che la solidarietà non conosce confini e in ogni dove ci sono donne, compagne e compagni disposti a proteggere ed abbracciare M. e la sua sete di giustizia, che è anche la nostra. Alla prossima. NON SEI SOLA.

Posted in Critica sociale, General | Tagged , , , , | Comments Off on [Bolzano/Violenza di genere] La solidarietà contro la solitudine

[Revisionismo storico] I “lager partigiani” secondo Ettore Frangipane

Nel testo Tesi di filosofia della storia, Walter Benjamin metteva in guardia contro un nemico dotato del potere inaudito di modificare il corso stesso della storia passata: «Neppure i morti saranno al sicuro dal nemico, se vince. E questo nemico non ha smesso di vincere». Se ciò apparve già vero nell’immediato dopoguerra, con i partigiani perseguitati ed i nazifascisti graziati e subito liberi di organizzarsi, si conferma sempre di più negli ultimi anni, con leader politici che ammiccano in modo sempre più esplicito al fascismo ed alla sua eredità politica, banalizzando oppure rivendicando apertamente le tragedie del passato, con l’assessore all’Istruzione del Veneto Elena Donazzan che utilizza la propria posizione per legittimare e rivalutare il fascismo ed il suo corollario razzista ed imperialista. 

Sul quotidiano Alto Adige del 10 gennaio 2021 il giornalista Ettore Frangipane si è esibito nell’ennesimo capitolo di revisionismo storico a buon mercato che ormai in Italia da diversi anni trova fortuna fra gli editori.

Ma prima di parlare della sua ultima “fatica” facciamo un passo indietro di alcuni anni. In un articolo pubblicato sullo stesso giornale il 30 settembre 2012 lo stesso autore scrisse un testo in cui, parlando delle “vittime” sudtirolesi della seconda guerra mondiale, raccontava dei 33 corregionali arruolati nell’Esercito nazista che vennero uccisi in un attentato compiuto dai Gruppi di azione patriottica (GAP) romani in via Rasella. Secondo il giornalista sportivo improvvisatosi storico l’attentato venne “ordito da partigiani che non si autodenunciarono, come gli occupanti tedeschi pretendevano”. Le solite balle senza fondamento ripetute da anni ma che evidentemente sono sempre buone per chi, come Frangipane ha interessa a calunniare la Resistenza. Per chi volesse approfondire la pluriennale querelle mediatica e antipartigiana relativa all’azione di via Rasella consigliamo di approfondire al seguente link.   Mentre invece chi volesse approfondire e conoscere meglio i meccanismi  politici e mediatici che hanno portato, nel corso egli anni, alla costruzione di vere e proprie mistificazioni di Stato riguardo alle vicende del confine orientale,  con  il sindaco di Bolzano Caramaschi che affermò come non vi fosse differenza fra i morti nelle Foibe ed i morti ad Auschwitz e con il giornale Alto Adige che pubblicò la foto di crimini di guerra fascisti descrivendola come commessa invece dai partigiani ai danni di “innocenti italiani”, consigliamo la lettura del seguente testo.

 

Pezzo dell’articolo pubblicato sull’Alto Adige nel 2012 in cui Frangipane espone la sua teoria su via Rasella

In seguito alla pubblicazione dell’articolo sopraccitato, il 6 ottobre 2012 il presidente della sezione ANPI di Bolzano lo riprese affermando come gli argomenti di Frangipane fossero pressoché gli stessi utilizzati dai nazisti nella propria autodifesa (ad ogni modo si può dare credito a chi uccise 10 persone per ogni tedesco?). Imperterrito nella propria linea antipartigiana Frangipane rispose definendo un’azione di lotta contro l’invasore che stava deportando nei lager migliaia di ebrei e dissidenti politici come gratuita e dissennata:

Alto Adige 6 ottobre 2012

Ma arriviamo a oggi, nel suo ultimo articolo, apparso sul quotidiano locale di lingua italiana edito da Athesia il 10 gennaio 2021, Frangipane si ostina a seguire un filone antipartigiano, questa volta però fa di più: lo estende fino alla guerra di Corea. Ma andiamo con ordine.

Dal suo articolo intitolato Dal lager partigiano alla guerra di Corea apprendiamo come Gian Luigi Ragazzoni, in seguito farmacista a Collalbo sul Renon, fu un milite della Repubblica Sociale Italiana (RSI), lo Stato fantoccio costruito da Mussolini grazie al sostegno delle truppe naziste. Egli, bersagliere appena ventenne, venne fatto prigioniero dai partigiani, forse una formazione garibaldina, e trasferito in un campo per prigionieri di guerra a Bogli nella zona di Piacenza dove alcuni fascisti furono fucilati, fra cui un certo caporale Illustri, un repubblichino che in precedenza era stato -nientepopodimenoche- insignito della medaglia d’oro nella guerra di Etiopia, durante la quale vennero commessi innumerevoli crimini di guerra da parte delle truppe italiane. Avvisiamo subito il lettore che a questo punto entriamo in una delle tante leggende dai contorni confusi, esagerati e spesso inventati, creati ad arte dal revisionismo neofascista nel dopoguerra alla Giorgio Pisanò, per infangare e calunniare la Resistenza; un ambito in cui non si capisce dove inizia la realtà e dove la fiction. Un revisionismo ed una falsificazione storica sistematicamente ripresi da giornali e riviste che hanno interesse a delegittimare la Resistenza ed in generale chi prese le armi o semplicemente decise di lottare come poteva contro i nazifascisti. Giampaolo Pansa in uno dei suoi romanzi travestiti da libri storici, racconta del «Gulag di Bogli» mentre invece Frangipane lo definisce addirittura Lager. I partigiani gestivano dei lager? Che fonti utilizza Frangipane per affermare tali mostruosità e falsità? Perchè usa un termine che riferito a quel periodo storico ha un significato ben preciso? Vi è la volontà nemmeno troppo strisciante di equiparare i caduti al servizio di Hitler ed i partigiani morti per la libertà? Vi è la volontà di mettere sullo stesso piano vittime e carnefici? Vi è la volontà di calunniare i partigiani descrivendoli come torturatori e assassini? La risposta è ovvia.

Frangipane cita testualmente “Bastonature, bruciature ai piedi con legni roventi, immersione della testa nell’acqua gelata”: nei confronti di chi? Chi raccontò tali fatti? Lo stesso Ragazzoni affermò che tale destino non gli venne riservato in quanto militare di leva. Liberato in seguito dai nazisti alleati della RSI, Ragazzoni rientrò fra i repubblichini e poi Frangipane fa un errore di scrittura affermando che fu liberato dagli Alleati, senza però dire se prima venne arrestato.

Alcuni anni dopo Ragazzoni, poi entrato nell’Accademia militare di Modena, collaborò alla guerra anticomunista degli Stati Uniti comandati dal generale Usa Mac Arthur, destituito poi perchè troppo guerrafondaio, conosciuto fra l’altro per aver proposto di usare la bomba atomica contro la Cina. A questo punto la narrazione di Frangipane si fa confusa, parla di Ravagnani senza spiegare chi sia (ma probabilmente si riferisce a Ragazzoni), non si capisce bene cosa ci stanno a fare lì degli italiani. Sono al servizio della potenza imperialista americana? Intendono evitare l’effetto domino comunista e preservare la propria zona d’influenza in Asia? Allora come per le missioni militari di oggi furono li per difendere importanti interessi economici e non certo per ideali. Ed anche qui Frangipane non risparmia allusioni antipartigiane senza fornire alcun fondamento scrivendo: “L’incendio dell’ospedale (ad opera di partigiani nordcoreani?)”.

E poi conclude citando il suo probabile riferimento giornalistico ovvero Montanelli, sì proprio colui che ancora in tempi recenti, ricordava con nostalgia i bei tempi andati come la propria partecipazione alla guerra di Etiopia durante la quale aveva sposato una bambina etiope sfruttandola sessualmente, anzi stuprandola, come fecero moltissimi soldati italiani. Poi ovviamente ricorda come gli italiani, ça va sans dire, furono ringraziati da tutte le parti in causa: Corea del Sud e USA da una parte e Cina con Corea del Nord dall’altra. Insomma, alla fine gli italiani sono sempre brava gente, senza responsabilità di alcun tipo, al di là del bene e del male.

È incredibile come in così poche righe Frangipane sia riuscito a condensare tanti luoghi comuni su alcune delle pagine più tragiche e difficili della storia recente. Come abbiamo visto è un vizietto che si porta dietro da diversi anni ed oggi è più importante che mai lottare contro tali mistificazioni e grossolane semplificazioni su cui prospera in definitiva il revanscismo e revisionismo neofascista, quel filone letterario bene impersonato da personaggi appartenenti ai settori della borghesia più retrograda e reazionaria come Bruno Vespa (a proposito del suo ultimo libro-spazzatura consigliamo il seguente link) che da anni campano riproponendo libri in cui viene raccontata una storia immaginaria del fascismo e del neofascismo non supportata da fonti e documenti di alcun tipo ma su dicerie e chiacchere da bar. Una narrazione che prende forza in testi del genere, privi di  contestualizzazione e di ogni carattere critico e riflessivo, che hanno l’obiettivo implicito di infangare chi ha combattuto per la libertà.

Primo Levi nell’introduzione de I sommersi e i salvati scirveva: “La memoria umana è uno strumento meraviglioso ma fallace” Sta a noi mantenerla viva e difenderla dagli attacchi, dalle calunnie e dalla banalità del calunniatore di turno. 

Consigliamo inoltre alla redazione dell’Alto Adige di spendere qualche euro in più nell’assunzione di un correttore di bozze ed a Frangipane di studiare almeno un pò prima di scrivere su fatti che dimostra ampiamente di non conoscere. Che lasci spazio ad altri, almeno un minimo competenti e informati.

Sotto potete leggere il penoso articolo di Frangipane, giudicate voi.

Posted in Critica sociale, General, Internazionalismo, Storia di classe | Tagged , , , , | Comments Off on [Revisionismo storico] I “lager partigiani” secondo Ettore Frangipane

[Bolzano – Scuole Gianni Rodari] Fuori l’Esercito e la guerra dalla scuola

Oggi come ieri la guerra è sempre stata legata a doppio filo con la propaganda, con l’esigenza di giustificare agli occhi della popolazione l’immenso spreco di risorse sociali ed economiche che viene destinato all’Esercito, un apparato mastodontico che assorbe immense risorse che potrebbero e dovrebbero essere destinate a scuole ed ospedali, per esempio. Un apparato che recluta i propri membri fra le parti più povere della popolazione e che costruisce uomini incapaci di pensare, trasformati in strumenti di oppressione. Una struttura parassitaria che soprattutto oggi, in tempi di pandemia da COVID, richiede per il suo mantenimento una spesa insostenibile a livello di armamenti e mantenimento di missioni militari di guerra all’estero.

Durante la seconda guerra mondiale le classi degli asili così come delle  scuole elementari intrattenevano una corrispondenza con i soldati al fronte impegnati nei vari teatri di guerra in cui erano impegnate le truppe italiane: Grecia, Albania, Russia, ecc. Una corrispondenza il cui scopo era finalizzato a familiarizzare i bambini alla guerra e alle armi per farli abituare al contatto con i soldati impegnati nella realizzazione del cosiddetto Impero. Occorreva convincerli fin da piccoli che la guerra in corso era giusta e che il tributo di sangue pagato era necessario per difendere la civiltà europea dal pericolo del comunismo giudaico.

Se il periodo storico è cambiato, il rischio che la scuola torni ad essere esclusivamente un luogo di trasmissione dell’ideologia dominante è concreto e reale e sono purtroppo molti i tentativi dell’Esercito di entrare, in vari modi, nelle scuole.

Da un articolo pubblicato sull’Alto Adige del 3 gennaio 2021 si apprende che la maestra Alfonsina Pepe della scuola elementare Gianni Rodari di Bolzano ha avuto la trovata, nel 2020, di iniziare una corrispondenza fra la 4a classe in cui insegna ed i soldati dell’Esercito italiano ad Erbil, in Iraq, impegnati in una missione militare – e perciò profumatamente pagati – denominata Prima Parthica / Inherent Resolve e che ufficialmente dovrebbe servire per contrastare lo Stato Islamico in Siria e Iraq. 20 anni di “missioni per la pace” occidentali che hanno devastato e destabilizzato il Medio Oriente ci hanno dimostrato come tali presenze non siano affatto il risultato di attività filantropiche.

La realtà dice che lo Stato islamico è stato combattuto dalle YPG/YPJ curdo-siriane, poi abbandonate al massacro di fronte all’arrivo delle truppe turche di Erdogan, vero alleato di ISIS e NATO. In Iraq, nella zona in cui sono impegnate le truppe italiane operano numerose aziende italiane: da Eni a Saipem, passando per Bonatti, Renco, Trevi e molte altre. Sono in gioco gli interessi milionari di numerose imprese italiane, altro che pace nel mondo.

Se ci fosse stata la volontà politica di contrastare ISIS si sarebbe fatto attraverso il supporto di chi li combatteva realmente e non sostenendo le politiche criminali di Erdogan, come è stato fatto da UE e NATO, cosa denunciata in piazza decine di volte dai compagni e dalle compagne a Bolzano.

Ricordiamo che l’Italia con le sue forze armate prese parte nel 2004 alla coalizione internazionale che ha contribuito a distruggere l’indipendenza dell’Iraq per appropriarsi delle sue risorse economiche. Nella fattispecie il Petrolio ed il Gas che abbondano nel sottosuolo del Paese mediorientale e su cui hanno messo mano aziende come appunto ENI e altre multinazionali.

Ricordiamo che in Iraq i soldati della coalizione occidentale si sono resi responsabili di efferati crimini di guerra e torture ai danni della Resistenza, documentati anche dall’attività di Wikileaks per cui Julian Assange – per cui oggi è stata negata l’estradizione – sta pagando con la detenzione da 10 anni circa. In Afghanistan, altro teatro di guerra in cui i soldati italiani sono impegnati da 20 anni, recentemente è emerso come i soldati australiani abbiano torturato e ucciso per divertimento decine di civili.

In un momento storico come quello che stiamo attraversando potevano essere moltissimi i destinatari di un progetto analogo; ad esempio gli alunni che frequentano le scuole in un paese in guerra oppure i medici e infermieri volontari di Emergency impegnati in Afghanistan senza ottenere alcun guadagno o gli stessi operatori impegnati in condizioni difficilissime negli ospedali o nelle case di riposo.

Articolo pubblicato sul giornale Alto Adige il 3 gennaio 2021 riguardante l’iniziativa congiunta fra la maestra delle scuole “Gianni Rodari” di Bolzano e l’Esercito italiano

Non conosciamo la maestra Alfonsina Pepe e non sappiamo se la sua iniziativa sia soltanto il risultato di una gravissima ingenuità e ignoranza oppure se dietro vi sia una volontà di fare una certa propaganda. Di certo sarebbe opportuno sapere cosa è stato raccontato ai bambini nell’ambito della “bella iniziativa” (!!!) come è stata definita dal giornale locale Alto Adige il cui articolo sembra scritto da un funzionario del Ministero della Difesa.

Ancora più paradossale che un’iniziativa di propaganda del genere avvenga in una scuola intitolata allo scrittore e pedagogo Gianni Rodari che nella sua opera affrontava in modo costante la necessità di contrastare in ogni modo derive autoritarie o militariste della società, di cui ricordiamo una sua – oggi più che mai attuale – filastrocca. Consigliamo alla maestra Pepe di andarsi a rileggere chi era Rodari.

PROMEMORIA

 

Ci sono cose da fare ogni giorno:

lavarsi, studiare, giocare

preparare la tavola,

a mezzogiorno.

Ci sono cose da fare di notte:

chiudere gli occhi, dormire,

avere sogni da sognare,

orecchie per sentire.

Ci sono cose da non fare mai,

né di giorno né di notte

né per mare né per terra:

per esempio, LA GUERRA.

Posted in Critica sociale, General | Tagged , , , , , , | Comments Off on [Bolzano – Scuole Gianni Rodari] Fuori l’Esercito e la guerra dalla scuola

Un ricordo di Agitu

Ho accolto la notizia della morte di Agitu con incredulità, come tutti. Dopo aver letto la notizia su una testata online ho atteso di vedere confermato il fatto da altre fonti nella speranza che si trattasse di un errore. Il primo pensiero è corso alle minacce, agli insulti razzisti ed all’aggressione che poco tempo prima aveva subito ma a fatica ritenevo possibile che la situazione fosse degenerata a tal punto da sfociare in un assassinio. Il passare delle ore ha presto svelato come l’autore del suo assassinio fosse un uomo del Ghana che lavorava per lei.

Quando avevo saputo, alcuni anni prima, che nella val dei Mocheni in Trentino, era stata aperta una fattoria per fare prodotti a base di latte di capra da parte di una donna etiope laureata in Sociologia, mi ero subito ripromesso di andare a trovarla per conoscerla, un proposito condiviso anche con alcuni amici. Ero curioso di conoscere un progetto avviato con coraggio in un contesto sociale certamente non facile e per di più da una donna africana e nera. Avevo letto di come lei in passato fosse stata costretta a lasciare l’Etiopia in seguito alle minacce ricevute per aver partecipato alle lotte dei contadini contro l’accaparramento delle terre da parte delle multinazionali; un fenomeno altresì noto come landgrabbing.

Lei infatti dopo essersi laureata a Trento, tornò in Etiopia arricchita della propria esperienza europea, per contribuire a riallacciare i fili della lotta contro i tentacoli del capitalismo occidentale ed asiatico, impegnato a rubare migliaia di ettari di terreno ai parchi nazionali ma soprattutto a piccoli contadini per imporre coltivazioni intensive – con ingente spreco delle già scarse risorse idriche – di canna da zucchero, olio di palma, tulipani, mais (quest’ultimo per produrre sacchetti biodegradabili invece che per l’alimentazione locale) destinati all’esportazione dove i contadini e le contadine etiopi, ipersfruttati/e e sottopagati/e, erano poi costretti a stravolgere le proprie abitudini e lavorare in ambienti malsani, in luoghi e terreni in cui venivano utilizzati pesticidi e prodotti chimici illegali in Europa ma che potevano essere utilizzati se chi ne subiva gli effetti malefici erano i proletari etiopi. Lo slogan spesso abusato dell’ «aiutiamoli a casa loro» si traduce nella realtà del «rendiamoli schiavi a casa loro».

L’esperienza di Agitu in Trentino in periodi così diversi (dagli anni degli studi a Sociologia nei primi anni 2000 fino agli anni successivi al 2010 dopo il ritorno dall’Etiopia) le aveva permesso di vivere e sperimentare sulla propria pelle il radicale cambio di clima politico e sociale e la pesante intolleranza verso gli stranieri fomentata in ultima battuta con la campagna elettorale del 2018 che aveva visto la Lega di Salvini e altri partiti di estrema destra cavalcare e fomentare paure e odio verso gli stranieri, sdoganando i peggiori insulti e le peggiori azioni razziste, anche in Trentino, dove la situazione non era tuttavia facile per lei.

Agitu aveva una preparazione storica e politica che le permetteva di difendersi a muso duro dalle menzogne propagandate sui social o sui media ed attraverso rapporti reali aveva saputo costruire una fitta rete di rapporti e amicizie in tutta la Regione.

Dopo le minacce che aveva subito da parte di un vicino avevo deciso di scrivergli una lettera di solidarietà. Una lettera vera, non una email. Sì, con carta, penna e francobollo. Ho pensato che fosse un gesto più bello, meno freddo e asettico di una mail. Le avevo scritto dell’importanza della solidarietà, di non farsi intimorire, di andare avanti nonostante le difficoltà, che le nostre idee fossero più forti di tutto. Mi aveva fatto sorridere come in un’intervista successiva aveva parlato dell’estesa solidarietà ricevuta dicendo che c’era anche chi, non pratico di tecnologia, le aveva scritto una lettera di carta. Immaginavo si riferisse alla mia lettera, visto che nel 2018 credo pochi ricorrano ancora a tale mezzo per comunicare.

La prima volta che avevo avuto la possibilità di fare due chiacchere con lei era stato durante un mercatino di Natale a Egna, dopo che l’avevo riconosciuta dietro a una bancarella. Un’oretta circa in cui avevamo parlato di politica e in cui convenivamo come fosse insopportabile la narrazione che veniva fatta dell’immigrazione, su tutti i fronti. Da una parte la becera retorica leghista e fascistoide, dall’altro una retorica pietista e pseudo caritatevole incapace di individuare le cause materiali che spingevano migliaia di uomini e donne a lasciare la propria terra e che andava a rinforzare chi sproloquiava di invasione. Cause precise contro cui lottare con lucidità e intelligenza. Ci eravamo incontrati un altro paio di volte, sempre a margine del suo lavoro. E avevamo poi concordato di sentirci per registrare un’intervista durante la trasmissione Malaerba su Radio Tandem, cosa che eravamo poi riusciti a fare.

Forse per via degli studi comuni avevo subito fiutato la tua formazione marxista e infatti i termini che usavamo erano gli stessi: “classe” “sfruttati” “proletari” ecc. Ricordo ancora con un sorriso il nome con cui avevi chiamato un gatto che avevi ai tempi dell’Università: Lenin.

La tua stessa storia personale era un esempio di come fosse possibile raccontare l’immigrazione in un altro modo, con un’altra forza, capace di annichilire e spazzare via con un soffio le idiozie e menzogne razziste.

I giornali nazionali e internazionali parlano di te come un simbolo di integrazione, una parola abusata che non significa nulla, e convenivamo anche in ciò. Integrazione con chi? Su che basi?

Mi sarebbe piaciuto fare altre chiaccherate, magari organizzare una serata per parlare dal vivo di landgrabbing e della necessità di collegare il tema dell’immigrazione alle guerre e allo sfruttamento di cui anche le aziende multinazionali ed i governi italiani sono complici.

Sei stata uccisa da un uomo che avevi cercato di aiutare come potevi con tutte le contraddizioni e difficoltà del caso, sembra per uno stipendio arretrato ancora non pagato e ciò rende tutto ancora di più difficile comprensione se non altro per il fatto che ciò porta la vicenda su un piano strettamente materiale che stride di fronte a ciò che, spesso in modo indipendente dalla tua volontà, avevi finito con il rappresentare in quanto donna africana nera e “libera in un mondo di schiavi” come scritto su uno striscione apposto sul tuo negozio a Trento. Una combinazione di elementi che fa saltare il banco ad ogni farabutto razzista che campa sul risentimento, sull’ignoranza e sulla paura.

Nel difficile momento storico che stiamo vivendo e che vivremo la tua perdita pesa e peserà come una montagna, ci mancherà soprattutto ciò che avresti fatto in futuro. Ma di certo posso assicurarti che continueremo a lottare contro le ingiustizie che tu stessa denunciavi, senza girare la testa dall’altra parte, assumendoci le nostre responsabilità.

Enzo

Posted in Antirazzismo, Critica sociale, Internazionalismo, Malaerba, Oltre il Brennero | Tagged , , , , , | Comments Off on Un ricordo di Agitu