Apprendiamo dal sito ilrovescio.info dell’ennesimo tentativo della Procura di Trento di ricorrere ai reati associativi per togliere dalla circolazione compagni e compagne che da anni lottano sul territorio contro – fra le altre cose – progetti di devastazione ambientale come il Bypass ferroviario, parte integrante del Treno Alta Velocità (TAV). Ma più in generale, come ben spiegato nel comunicato, ad essere sotto attacco è la campagna di solidarietà per il prigioniero Alfredo Cospito (tuttora al 41 bis) e ogni lotta che intenda “condizionare l’azione dello Stato”. Mentre la realtà che viviamo assomiglia sempre più alla distopia descritta da George Orwell in 1984, diventa sempre più urgente costruire solidarietà, rilanciare le lotte contro le miserie del presente e del futuro che lorsignori ci hanno apparecchiato. Una realtà in cui le guerre – per procura o meno – si moltiplicano, in cui l’ambiente è un argomento usato come spot dalle aree progressiste e in cui la repressione, in un periodo storico privo di conflittualità sociale, continua in modo ossessivo a perseguitare chi lotta e chi si organizza per resistere alle ingiustizie prodotte dal capitalismo in tutti i suoi tentacoli.
Di seguito riportiamo il comunicato dei compagni di Trento e Rovereto:
Ennesima inchiesta per 270 bis in Trentino: richieste (e non concesse) 12 misure cautelari
Nel mese di aprile scorso, i PM Raimondi e Ognibene avevano chiesto 9 misure cautelari in carcere e 3 divieti di dimora a Trento e a Rovereto per altrettanti compagni e compagne. Dal momento che il GIP ha rigettato le richieste, la Procura ha fatto ricorso: di qui la notifica ad alcuni indagati e indagate dell’udienza del riesame, fissata per il 1° agosto e rinviata al 12 settembre per difetto di notifica agli altri indagati. Questa ennesima inchiesta per «associazione sovversiva con finalità di terrorismo» – chiamata, per quel che si capisce, «Diana» – è stata aperta nel 2019, ma prende le mosse da un procedimento per «apologia del terrorismo» avviato dalla Procura di Brescia (in merito a un testo uscito sulla pubblicazione anarchica “Beznachalie”) e passato alla Procura di Trento. L’inchiesta trentina si è estesa poi a ritroso fino al 2013, anno in cui è uscito il primo numero di “Beznachalie”.
Procedendo in una direzione che assomiglia sempre di più a quella delle “leggi scellerate” con cui a fine Ottocento il governo francese aveva dichiarato “malfattori” gli anarchici in quanto tali, questa nuova inchiesta mira innanzitutto a considerare espressione di un «sodalizio terroristico» «l’ideazione, la predisposizione, la redazione, la stampa e la diffusione, anche con strumenti informatici e telematici, delle pubblicazioni denominate “Beznachalie”, “I giorni e le notti”, “Dietro le quinte”, nonché del sito web www.ilrovescio.info». I «luoghi di concertazione del programma criminoso, di raccolta e gestione fondi, di appoggio logistico e ricovero dei sodali» sarebbero gli spazi anarchici “El Tavan” di Trento e “La nave dei folli” di Rovereto, nonché alcune case private.
I «reati-scopo» di tale «sodalizio» sarebbero la contraffazione di documenti per favorire la «clandestinità ovvero la latitanza dei compartecipi», la realizzazione di attentati, l’organizzazione di manifestazioni non autorizzate e violente, la «imposizione e diffusione delle proprie idee politiche di destabilizzazione con violenza e intimidazione anche nei confronti di aziende private».
Nello specifico, si tratta dei documenti falsi per cui Agnese e Stecco sono stati condannati a 2 anni e Rupert a 1 anno e 10 mesi nel processo «Renata»; di quelli trovati a Juan in occasione del suo arresto (per cui Agnese è stata condannata a 2 anni nel primo grado della “operazione senza nome”); del «sostegno operativo» alla latitanza di Juan (per cui Manu è stato condannato a 10 mesi dopo esser stato detenuto per oltre un anno); delle azioni dirette contro il tribunale di sorveglianza di Trento (avvenuta nel 2014 e per cui Juan è stato condannato a 3 anni e 6 mesi nel primo grado dell’“operazione senza nome”), contro la sede della Lega di Villorba (Treviso) del 2018 (per cui Juan è stato condannato a 28 anni in primo grado e a 14 in secondo grado) e contro un Frecciargento a Bolzano nel 2015 (un tentato incendio che i PM vorrebbero attribuire a un compagno in base alle tracce di DNA rinvenute sull’ordigno incendiario, e per cui si indaga per «atto con finalità di terrorismo»); la manifestazione al Brennero del 2016 contro le frontiere (per la quale, in due diversi tronconi processuali, sono stati distribuiti in appello oltre 130 anni di carcere); il tentativo di leggere in una radio commerciale un comunicato contro la strage avvenuta nelle carceri nella primavera del 2020 (per cui Massimo è stato condannato a 1 anno e 1 mese nel primo grado dell’“operazione senza nome”); il tentativo di bloccare una trivella del TAV a Trento nel gennaio del 2022 (per cui esiste un altro procedimento penale in corso). A parte l’episodio del Frecciargento, quindi, si tratta di fatti già oggetto di altri processi o procedimenti. L’intento della Procura è quello di riutilizzare gli stessi episodi per giustificare quel 270 bis sempre caduto nelle inchieste precedenti. Intento che raggiunge i contorni di una vera e propria metafisica della repressione: i reati-scopo esprimono e sostanziano l’associazione sovversiva, la quale, però, nella sua dimensione «ontologica» (proprio così), prescinde dai singoli atti. Puro intelletto terroristico (per questo la centralità delle pubblicazioni), il quale, anche quando non si traduce in atti di eversione, comunque li istiga o ne fa l’apologia.
L’aspetto più pericoloso – oltre all’attacco alle pubblicazioni in quanto tali – è senz’altro la definizione di «terrorismo» impiegata da DIGOS e PM: «intimidire la popolazione e costringere i poteri pubblici a compiere o astenersi dal compiere un qualsiasi atto». Si tratta dell’ormai noto art. 270 sexies, introdotto dal “pacchetto Pisanu” nel 2005. Come è già stato detto e ridetto, «intimidire la popolazione» è un’attività che caratterizza lo Stato e non certo gli anarchici, mentre «costringere i poteri pubblici a compiere o astenersi dal compiere un qualsiasi atto» è quello che si prefigge ogni lotta. Fermare il TAV non è forse costringere governo e RFI ad astenersi dal realizzare l’opera? Bloccare un porto non è forse voler costringere il governo a ritirare il green pass oppure a non inviare armi in Ucraina? L’eventuale esplosione di rabbia sociale contro l’abolizione del reddito di cittadinanza non avrebbe lo scopo di costringere il governo ad astenersi dall’applicare dei provvedimenti già presi? E pretendere che un compagno esca dal 41 bis?
Benché questa definizione di «terrorismo» recepisca – con una formulazione ancora più generica e più adattabile – una definizione-quadro adottata in ambito europeo, l’Italia è l’unico Paese in cui essa viene sistematicamente usata contro il movimento anarchico (e non solo, come vedremo). L’estensione quantitativa e qualitativa del suo uso è un chiaro indicatore di ciò da cui non si può più prescindere: siamo in guerra.
Sul piano generale
Solo negli ultimi due mesi, ci sono state notifiche d’inchieste, anche con perquisizioni e talvolta misure cautelari, a Milano, Trieste, Bologna, Potenza, Torino, Palermo e Perugia. Al di là dei singoli episodi contestati, è evidente che la Direzione Nazionale Antimafia e Antiterrorismo sta facendo il giro delle Procure con un messaggio esplicito: «Toglieteli di torno, con qualsiasi pretesto». Ma altrettanto evidente è il salto qualitativo: per un compagno è stata chiesta la misura cautelare in carcere per un intervento fatto durante un corteo contro il 41 bis a Torino; le inchieste di Bologna e di Potenza dicono chiaro e tondo che la campagna in solidarietà con Alfredo è di per sé «terroristica» in quanto vuole costringere lo Stato a compiere un atto che non vuole compiere: revocargli il 41 bis. Che tale intento venga perseguìto scrivendo sui muri, affiggendo striscioni, danneggiando una qualche multinazionale, interrompendo una messa, salendo su di una gru, incendiando dei cassonetti in mezzo alla strada o dei furgoni di una ditta implicata nel business penitenziario è in fondo secondario. Infatti a Perugia si è di recente aperta un’indagine per «istigazione alla violenza e apologia del terrorismo» per un lenzuolo con una scritta in solidarietà ad Alfredo e contro il 41 bis. La stessa logica viene applicata ben al di là dell’ambito anarchico. Infatti un paio di settimane fa alcuni militanti di “Antudo” sono stati perquisiti e indagati per «apologia del terrorismo» e per «atto con finalità di terrorismo» per aver pubblicato sul loro sito un video e un comunicato di rivendicazione relativi ad un’azione contro Leonardo-Finmeccanica. Colpire il maggior produttore di armi italiano non significa forse voler costringere lo Stato ad astenersi dal portare avanti le sue politiche di guerra? E chi diffonde le ragioni di tali pratiche di lotta non compie, per ciò stesso, apologia del terrorismo? Non serve certo un disegno per capire dove porta una tale logica inquisitoriale.
Sul piano locale
Si tratta almeno della quinta inchiesta per «associazione sovversiva con finalità di terrorismo» contro compagne e compagni in Trentino in meno di vent’anni, parlando di quelle di cui siamo a conoscenza in quanto notificate agli indagati. Se a questo aggiungiamo lo stillicidio di processi e condanne per altri reati, i compagni in carcere, ai domiciliari o uccel di bosco, le sorveglianze speciali e il fatto che alcuni compagni e compagne passano da una misura all’altra senza soluzione di continuità praticamente dal 2019, l’operazione «Diana» persegue e prosegue una strategia specifica: farla finita con la presenza anarchica in Trentino, le sue idee, le lotte che esprime o di cui è parte, i suoi spazi, le sue pubblicazioni. E non ci sembra un caso, ad esempio, che mentre sono cominciati a Trento sia i lavori per il TAV sia blocchi e contestazioni, in un’inchiesta per «terrorismo» venga inserita un’iniziativa pubblica di contrasto a una trivella e si vada a ripescare, grazie all’uso poliziesco-giudiziario della genetica, il tentato incendio di un Frecciargento avvenuto il 25 aprile del 2015. (Visto che a DIGOS e PM dà così fastidio che si pubblichino i comunicati di rivendicazione, queste le parole diffuse all’epoca dagli anonimi sabotatori: «In ricordo dei sabotaggi partigiani. Libertà per i compagni in carcere. Ciao Guccio. Non sempre la fortuna aiuta gli audaci»). Tra l’altro, il primo tentativo (fallito) di applicare il 270 sexies è stato quello della Procura di Torino nei confronti dei compagni e della compagna arrestati e condannati per l’azione incendiaria contro il cantiere chiomontino del TAV nel 2014 (il cosiddetto processo del «compressore»).
La morale dell’obbedienza
Negli stessi giorni in cui veniva notificata l’inchiesta «Diana» (con cui volevano sequestrare in carcere e togliere dalle lotte ben 12 compagni e compagne), i PM Raimondi e Ognibene ponevano sotto sequestro giudiziario una porzione del cantiere TAV a Trento Nord (senza che questo fermasse il prosieguo dei lavori complessivi). Un provvedimento interno a un’indagine per «disastro ambientale» – per ora nei confronti dell’amministratore delegato e di un altro responsabile di RFI – aperta in seguito all’esposto fatto da alcuni No Tav. Benché i lavori del TAV continuino tutt’attorno, il sequestro di alcune aree inquinate dall’ex Sloi e dall’ex Carbochimica (in particolare a causa del piombo tetraetile e di vari solventi chimici) e la realtà di un possibile avvelenamento di massa che diventa «ipotesi di reato» hanno sbugiardato le continue rassicurazioni di RFI e le palesi complicità di Provincia e Comune di Trento. Gli stessi magistrati che riconoscono formalmente la fondatezza degli allarmi contro il TAV, colpiscono chi da quegli allarmi trae la logica conseguenza sul piano etico e pratico: costringere con l’azione governo e imprese a non realizzare l’opera. Qual è la morale della storia? A noi sembra questa: se di fronte a un disastro ambientale si fa appello alla magistratura si è dei «cittadini»; se ci si organizza per bloccare o peggio ancora sabotare i mezzi del disastro si è «terroristi» – di più: si è «terroristi» anche se si difendono o soltanto si diffondono le ragioni dell’azione diretta. Si chiama morale dell’obbedienza.
Dal nostro lato della barricata, ogni giorno di obbedienza, ogni giorno di pace sociale è un giorno in più di guerra e di repressione.
anarchiche e anarchici di Trento e Rovereto