[Bolzano] Manifestazione studentesca venerdì 16 aprile al Talvera

Venerdì 16 aprile sulle passeggiate del Talvera, sul lato di Theiner, il gruppo di studenti Opposizione studentesca ha organizzato, dalle ore 16, una manifestazione per contestare gli effetti disastrosi che la Didattica a distanza (DAD) sta avendo sull’insegnamento e in generale sull’apprendimento e l’esperienza scolastica degli studenti. Adesso parlano i diretti interessati.

Tuttavia, come giustamente sottolineano gli studenti, la crisi della scuola non è certamente iniziata in anni recenti: essa è un processo maturato nel corso degli anni, con il susseguirsi di riforme che hanno svuotato la scuola, appiattendola sulle necessità del mercato del lavoro e della produttività piuttosto che sulla formazione di un pensiero critico.

L’ultimo anno scolastico, caratterizzato dall’ampio utilizzo della DAD ha evdenziato e amplificato le disuguaglianze fra studenti. Ma il futuro degli studenti è nelle loro mani, ed è soltanto scendendo in piazza, lottando e contestando che essi potranno riprendersi ciò che gli spetta e far tornare la scuola un luogo di confronto e crescita anziché uno spazio in cui si assimilano in modo acritico i principi funzionali al mercato del lavoro.

Sosteniamo la giusta lotta degli studenti. Siamo realisti, vogliamo l’impossibile.

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[Bolzano] Un centinaio di solidali per Ambra – rompere il silenzio

Sabato 10 aprile sui prati del Talvera a Bolzano si è svolta una mobilitazione solidale per ricordare Ambra Berti, ragazza bolzanina di appena 28 anni morta in circostanze non chiare nel carcere di Spini di Gardolo il 14 marzo.

Almeno un centinaio di persone, parenti, amici e solidali hanno partecipato ad una giornata che aveva l’obiettivo di rompere il silenzio e la cinica indifferenza nei confronti dell’ennesima morte di carcere. Moltissime le persone che si sono fermate per prendere un volantino, parlare, capire, ascoltare, fra cui molti che l’abbruttimento del carcere nel corso della loro vita lo hanno conosciuto e vissuto sulla propria pelle.

Ambra veniva da una storia personale difficilissima ed alcune testimonianze dal carcere raccontano delle sue crescenti difficoltà all’interno del pentenziario trentino. La detenzione, la lontananza dai propri figli e affetti, la solitudine e il disinteresse colposo della responsabile sanitaria riguardo alla sua situazione, lasciano pensare come si tratti di una fine annunciata che sarebbe stato possibile evitare.

La sua morte ed il totale disinteresse che la sua fine ha trovato fra i media locali stride con la morbosa attenzione e sollecitudine con cui giornalisti e direttori di quotidiani locali hanno seguito – e seguono – per mesi il caso di Benno Neumair rispetto al quale il direttore dell’Alto Adige Alberto Faustini è arrivato addirittura a scrivere un’editoriale in cui denunciava la mancata trasmissione, da parte della magistratura, di informazioni ai cronisti locali. Lo stesso interesse evidentemente non ha riscontrato la morte di Ambra: la sua condizione di “dannata” per mille motivi e la sua fine, risucchiata nel buco nero del sistema carcerario italiano, non si prestava a narrazioni da film giallo in grado di appassionare il lettore e far vendere copie. Parlare di Ambra avrebbe significato affrontare l’indecente situazione delle carceri italiane, avrebbe significato evidenziare gravi responsabilità istituzionali ed il significato stesso che tale pena aveva per una giovane donna di 28 anni e madre di due figli. Insomma, una morte di carcere tutto sommato considerata di routine non poteva certo competere o rubare spazio al caso Neumair.

E anche qui emergono le implicazioni di classe che rispecchiano il diverso interesse che le due vicende riscuotono fra media, commentatori, opinionisti e tuttologi.

Ritornando al presidio, dalle 15 alle 17 circa sono stati fatti diversi interventi in cui si sono denunciate le responsabilità dell’amministrazione penitenziaria e dell’area sanitaria interna al carcere. È stata ribadita l’importanza di rompere l’isolamento fra interno ed esterno e di costruire solidarietà laddove le autorità vorrebbero che prosperasse solo solitudine e disperazione. Il carcere infatti causa ogni anno decine di suicidi e ancora più morti per mancanza di cure adeguate. Oltre a ciò l’abuso del consumo di psicofarmaci è favorito, anzi fomentato dalle amministrazioni carcerarie per mantenere dormienti i detenuti.

Il volantino distribuito durante il presidio

Dalle 17 alle 18.30 circa il presidio si è spostato sotto le mura del carcere di via Dante dove, fra una canzone e l’altra, sono stati salutati i detenuti che hanno risposto calorosamente facendo battiture. È stato spiegato loro il motivo della presenza sotto le mura: l’assurda fine di Ambra e la necessità di spezzare l’assordante silenzio di direttrice e autorità al riguardo. Ma si è parlato anche dell’importanza di rompere l’isolamento fra dentro e fuori le mura e lottare per evitare che il carcere continui ad essere un buco nero che risucchia la parte più povera e marginale della società e dove vige l’arbitrarietà più totale. Si sono ricordati i 14 morti durante le rivolte nelle carceri italiane nel marzo 2020 e le feroci rappresaglie dei secondini con sanguinosi pestaggi e torture diffuse contro i rivoltosi.

È stata una giornata positiva che ha saputo da una parte creare un momento di ricordo per Ambra oltre che di confronto riguardo alla necessità di organizzarsi per impedire che altre vite vengano spezzate dagli ingranaggi carcerari, dall’altro ha portato un po’ di calore e solidarietà nell’angolo più dimenticato e nascosto dell’Alto Adige, lontano dal clichè legato alla provincia più ricca d’Italia, così come la stessa storia di Ambra è lontana anni luce dalla retorica che dipinge la nostra provincia come un’isola felice. Una finzione buona solo per uno spot pubblicitario.

Essere in piazza per Ambra era il minimo da fare. Basta morti di carcere. Basta carcere. Rompiamo l’indifferenza e l’isolamento.

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[Carcere] Doppia manifestazione per Ambra sabato 10/4 a Bolzano

Se giornali e autorità speravano che la morte di Ambra venisse accolta nel silenzio e nella cinica indifferenza dei più, hanno sbagliato i loro conti. Nella consapevolezza che solo la solidarietà e la mobilitazione dal basso riesce a scalfire il muro di omertà che spesso circonda le strutture carcerarie, per sabato 10 aprile a Bolzano sono state organizzate due manifestazioni per ricordare Ambra, una giovane ragazza di Bolzano morta in circostanze ancora misteriose nel penitenziario di Spini di Gardolo, e per pretendere immediata chiarezza su ciò che le è accaduto all’interno delle mura. Allo stesso tempo un occasione per ricordare le decine di persone che ogni anno si tolgono la vita o che muoiono per mancanza di cure nelle carceri italiane. Per ricordare anche i 13 morti durante le rivolte carcerarie del marzo 2020 e per denunciare le responsabilità delle autorità nella feroce rappresaglia a colpi di pestaggi contro i detenuti che ne è seguita. Perché nessuno muoia più di carcere.

Per chi volesse contribuire economicamente per sostenere la famiglia di Ambra e le spese relative al funerale, segnaliamo la raccolta fondi aperta da alcuni suoi amici, che potete trovare al seguente link .

Riportiamo di seguito testo e volantino di chiamata delle manifestazioni per Ambra a Bolzano:

Sabato 10 Aprile doppia manifestazione.

—15:00 prati del talvera (lato Thainer) presidio in memoria di Ambra, perché di carcere non debba morire più nessunx.

—17:00 saluto solidale con i detenuti, sotto le mura del carcere di Bolzano (lato talvera).

Le due manifestazioni sono state comunicate in questura, per dare la possibilità a tuttx di partecipare, anche a chi risiede fuori provincia.

AMBRA E’ STATA UCCISA DAL CARCERE

Domenica 14 marzo nel carcere di Spini di Gardolo è morta una ragazza di Bolzano di appena 28 anni. Si chiamava Ambra Berti.

Nel comunicare la sua morte ai famigliari le autorità carcerarie hanno parlato di “cause naturali” nonostante la detenuta fosse stata portata da alcune ore in infermeria, quindi teoricamente sotto controllo del personale sanitario.

Nessuno fino ad ora ha spiegato la morte di una donna giovane fisicamente sana, madre di due figli, senza problemi di salute.

Di certo sappiamo come – a causa delle misure prese contro la pandemia – nell’ultimo anno le difficoltà e le sofferenze per le detenute ed i detenuti siano state amplificate dalla mancanza di contatto umano con i propri affetti. A ciò si aggiunge il rifiuto dei magistrati di sorveglianza di concedere ad Ambra, come a molti altri detenuti che avrebbero avuto i requisiti per accedervi, misure di pena alternative alla detenzione.

Sappiamo anche come ogni morte in carcere sia una morte di carcere e come essa sia strutturale all’istituzione carceraria, dove l’abuso del consumo di psicofarmaci, i suicidi, così come i decessi per la mancanza di cure adeguate e controlli medici, siano all’ordine del giorno.

La tragica morte di Ambra è stata del tutto ignorata dai media, complici nel tentativo di far passare in silenzio l’ennesima morte nel carcere di Spini.

Rompiamo l’indifferenza. Non si può morire così.

Pretendiamo di sapere ciò che è successo ad Ambra.

Il silenzio della responsabile sanitaria del carcere di Spini di Gardolo è un silenzio complice e omertoso come quello della direttrice del carcere di Trento e Bolzano, che dopo l’ennesima morte di una persona sotto la sua responsabilità, non ha ancora trovato modo di lasciare alcuna dichiarazione pubblica sull’accaduto.

Rompiamo l’isolamento in cui vorrebbero confinare detenuti e detenute.

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[Carcere] Ambra è stata uccisa dal carcere – Presidio solidale a Spini

Domenica 14 marzo nel carcere di Spini di Gardolo è morta, in circostanze ancora da chiarire, una ragazza di Bolzano di soli 28 anni. Si chiamava Ambra, ed era madre di due figli.

La notizia – come spesso accade quando si apprende di persone morte fra le mura dei penitenziari a meno che non ci siano delle rivolte – è stata accolta nella pressoché generale indifferenza. Si sa solo che, secondo quanto riportato dalla testata online IlDolomiti, la Procura ha disposto gli accertamenti medico-legali di routine per capire ciò che è accaduto. Al di là di cosa possa emergere da tali “accertamenti” è evidente come la sua morte sia strutturale ad un’istituzione totale che – soprattutto in tempi di pandemia – fa esasperare contraddizioni e malessere di chi è detenuto e privato dei propri contatti diretti con amici e parenti. Sappiamo che Ambra veniva da una storia personale molto difficile e che nell’ultimo periodo era particolarmente provata per la sua condizione. Una cosa non difficile da immaginare e comprendere, in un luogo di sofferenza dove ogni malessere viene “risolto” con abbondanti prescrizioni di psicofarmaci, punizioni e dove nell’ultimo anno i contatti sociali erano stati annullati o limitati.

La sua carcerazione, così come la sua morte, sono la tragica dimostrazione di come il carcere sia un’istituzione riservata ai poveri, a chi non può permettersi avvocati di fiducia oppure a chi non ha una casa in cui eventualmente scontare la pena.

Secondo Ristretti orizzonti solo nel 2020 ci sono state 154 morti (mancate insufficienti cure, ecc.) nelle carceri italiane e 61 suicidi, il numero più alto dell’ultimo ventennio. Nel 2021 sono già 32 i morti e almeno 7 i suicidi.

Invitiamo tutti e tutte a partecipare al presidio che ci sarà sabato 3 aprile dalle ore 16 sotto le mura del carcere di Spini di Gardolo per rompere il silenzio e l’indifferenza intorno alla morte di Ambra. Per sapere cosa è successo, smascherare le responsabilità di chi non è intervenuto e per denunciare le condizioni di detenuti e detenute che negli ultimi anni nel carcere trentino più volte si sono suicidati mentre numerosi altri sono stati i tentativi non riusciti.

Per ricordarla e per far sentire a chi soffre dietro le sbarre che non sono soli e sole. Perchè le morti in carcere non sono mai “casuali” o “naturali”.

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Quei fiori per Mara. Un ricordo di Sante Notarnicola

Un ricordo di Sante Notarnicola, operaio, bandito, poeta, rivoluzionario

Appena ho saputo della morte di Sante sono ritornato alle bellissime ed intense giornate trascorse insieme fra Trento e Bolzano nel maggio 2014. Nonostante siano passati quasi sette anni ho un ricordo piuttosto nitido di un incontro che porterò sempre nel cuore.

A Trento con i compagni avevamo organizzato una serie di iniziative sul tema del carcere “D’ogni dove rinchiusi si sta male” e chi meglio di Sante, con le sue poesie e la sua esperienza, avrebbe potuto concludere il ciclo?

Dopo aver chiesto il suo contatto a dei compagni bolognesi lo chiamai e lui fu subito disponibile e curioso di salire in una zona d’Italia che non conosceva direttamente anche se negli anni in cui era dietro al bancone del Pub Mutenye di via del Pratello aveva conosciuto numerosi studenti universitari di Trento e Bolzano fuori sede a Bologna.

Lo andai a prendere alla stazione dei treni di Trento in tarda mattinata e non nascondo che provavo una certa emozione nell’incontrare un compagno che rappresentava un pezzo di storia del movimento rivoluzionario e di classe di questo Paese: pugliese di Castellaneta aveva vissuto sulla propria pelle la discriminazione che i piemontesi riservavano ai terroni immigrati come lui, si era formato al Banfo la IX sezione torinese del PCI a Barriera di Milano dove aveva imparato che essere comunisti è l’unico modo per essere uomini. Qui partecipò ai primi scioperi, alle lotte contro i provocatori fascisti e i crumiri, le uscite in notturna nelle periferie torinesi a scrivere sui muri “W lo sciopero abbasso Valletta”. Da militante di base aveva vissuto il trauma del rapporto Krusceev sui crimini di Stalin al XX congresso del PCUS che, come scrisse lui “Fu una legnata per molti compagni e ne portammo i segni per parecchio tempo […] fu come un accoltellamento alla schiena”. E poi alcuni anni dopo gli scontri di piazza Statuto, l’insoddisfazione per l’involuzione riformista ed accomodante del PCI che lo portò, insieme ad altri proletari ed in un epoca in cui al di fuori del partito non c’era nulla, ad attaccare il capitale attraverso rapine che via via si fecero sempre più audaci e che lo portarono, nel 1967, all’arresto insieme al resto della cosiddetta Banda Cavallero. Una vicenda che venne poi raccontata in modo macchiettistico dal regista Carlo Lizzani nel film Banditi a Milano. Riuscì poi a trasformare il carcere in un terreno di lotta e privo della libertà attraversò da protagonista le mobilitazioni che anche in Italia si diffusero con il ’68. I suoi incontri con i detenuti in carcere riflettevano la conflittualità sociale sempre più aspra che attraversava il Paese: dagli anarchici arrestati dopo le bombe fasciste del 25 aprile 1969 alla strage di piazza Fontana ed alla successiva nuova ondata di arresti di anarchici con la seguente morte di Pino Pinelli. Gli anni dopo ebbe importanti rapporti con Lotta Continua riuscendo a porre all’esterno il problema del proletariato prigioniero, fino ai rapporti con i militanti delle varie organizzazioni della lotta armata. Diventò col tempo un punto di riferimento delle lotte dei prigionieri contro il carcere, impegnandosi a costruire solidarietà e coscienza politica lì dove secondo le intenzioni dei carcerieri avrebbero dovuto prevalere la rassegnazione e l’egoismo. Al processo d’appello del dicembre 1971 a Milano dichiarò:

Voi continuerete a imprigionare tutti coloro che vi danno fastidio o sono un pericolo per il vostro disordine costituito. Voi getterete in carcere i pacifisti, gli obiettori di coscienza, noi li aiuteremo a superare le asprezze e le privazioni di questa vita e di questo ambiente. I detenuti comuni, gli sbandati, i ribelli senza speranza, noi ve li ritorneremo con una coscienza rivoluzionaria. Questo è il mio impegno, questo è il vostro errore. Voi credete di aver vinto e invece, anche con me, avete già perso la battaglia.

Dopo aver caricato la sua valigetta in auto, lo portai a bere una birretta in piazza Duomo, che ammirò estasiato. Seduti a un tavolino a lato della piazza iniziammo a chiaccherare del passato e del presente. Riguardo a Trento non aveva grandi ricordi, nemmeno in relazione all’eco delle lotte degli studenti di Sociologia che sul finire degli anni Sessanta attraversavano la città. Il primo fatto che gli venne in mente fu la “gogna” che il 30 luglio 1970 gli operai della Ignis fecero fare ai due fascisti del Movimento Sociale Italiano Gastone del Piccolo e Andrea Mitolo, trovati con un ascia nella borsa, dopo che un gruppo di mazzieri missini aveva aggredito ed accoltellato gli operai in sciopero. Oltre a ciò naturalmente il suo pensiero andò a Margherita Cagol Mara, fondatrice e dirigente delle Brigate Rosse, uccisa durante uno scontro con i carabinieri a Cascina Spiotta, nel giugno 1975. A pranzo mangiammo in un ristorante del centro, prese della carne cruda non mancando di raccontare come fosse un piatto che a suo tempo mangiava spesso nelle trattorie frequentate dagli operai della Fiat. Non nascondeva il suo stupore per essere – negli ultimi anni – invitato sempre più spesso a raccontare la propria esperienza in spazi anarchici, lui che ci aveva tenuto a dirmi subito come fosse stalinista, una definizione che per lui significava grande rigore politico e morale. Certamente a rendergli simpatici gli anarchici giocò il fatto che essi erano e sono, se non gli unici, fra i pochissimi che lottano contro l’istituzione carceraria. E lui, che dopo la sua liberazione in via del Pratello era di casa, aveva avuto modo di conoscere alcuni compagni mentre facevano dei presidi solidali con i giovanissimi detenuti del carcere minorile presente nella via.

Il pomeriggio mi chiese di accompagnarlo al cimitero di Trento, voleva portare un fiore sulla tomba di Mara. Mi aveva già accennato a questo suo desiderio durante il nostro colloquio telefonico e perciò nei giorni precedenti mi ero già portato al cimitero per cercare la sua tomba in modo da andare a “colpo sicuro”. Non nascondo una certa emozione nel rievocare un momento di cui ho ancora l’immagine nitida davanti agli occhi. Nel baracchino vicino aveva comprato un mazzo di fiori rossi, non ricordo bene quali, e dopo aver raggiunto la sua tomba, posò i fiori sulla lapide di Margherita Curcio Cagol su cui c’è scritto Chi dona la sua vita la salva. Rimase alcuni momenti in silenzio, raccolto, io ero molto emozionato, sentendomi a tratti inadeguato, di fronte a questo intenso incontro, seppure virtuale, di due persone appartenenti a due diverse generazioni, che avevano dato tutto nella propria scelta di ribellarsi e lottare. Mi disse che nei lunghi anni di carcere il discorso capitava spesso su Mara e ciò che emergeva sempre era il grande rispetto che lei, capace di organizzare l’evasione del proprio marito e compagno Renato, aveva saputo guadagnarsi in un ambiente in ogni caso non facile per una donna che si dimostrò capace di trovare sintesi ed equilibrio fra le varie anime e tendenze dell’organizzazione. Subito dopo aver appreso della sua morte, Sante, all’epoca detenuto nel carcere di massima sicurezza sull’isola di Favignana, gli dedicò la poesia A Mara:

Fu scarno il commiato dei compagni / poi colonne di piombo a lacerarti / insinuare negli animi deboli una fragilità ch’è patrimonio tutto borghese / la nostra prece ha sfumature diverse / nella mente precisi gli obiettivi / e nel cuore resta fissa la generosità tua che / a braccia spalancate tutto hai dato sotto un cielo chiaro di giugno.

La tomba di Margherita Cagol al cimitero di Trento

Dopo aver riposato a casa e letto alcune pagine del libro Il sistema periodico di Primo Levi che aveva con sè, la sera andammo allo spazio anarchico El Tavan, gremito di compagni e compagne, per la presentazione della sua raccolta di poesie nel libro L’anima e il muro. Iniziò la serata spiazzando un po’ tutti, ringraziando dell’invito ma rivendicando ancora di essere stalinista, cresciuto alla scuola del Banfo. Durante la serata vennero lette, con accompagnamento musicale, alcune sue poesie prese dalla raccolta L’anima e il muro, una cosa che lo commosse. Rimanemmo diverse ore a chiaccherare in una di quelle serate che vorresti non finissero mai.

Sante a Trento

Il giorno dopo replicammo la serata anche a Bolzano, in una biblioteca locale ancora una volta affollatissima, per ascoltare la testimonianza di un compagno sempre in prima linea nelle lotte più dure e importanti che avevano attraversato le carceri italiane del secondo dopoguerra. Finita la serata, mentre tornavamo alla macchina per rientrare a Trento, passammo vicino a un monumento dedicato al carabiniere ucciso dai nazisti Salvo d’Acquisto, una cosa che gli fece riaffiorare un momento della sua lunga detenzione e scoppiò a ridere ricordando un aneddoto che purtroppo non ricordo più, a differenza della sua bellissima risata.

Decise poi di passare un altro giorno con noi ed il giorno seguente insieme a Lucia andammo sul monte Bondone per pranzo in un rifugio gestito da compagni: ricordo il suo sguardo meravigliato dalla bellezza della montagna e delle cime ancora innevate, ringraziando per il “regalo che gli avevamo fatto”. Mi meravigliò il fatto che fosse juventino, la squadra degli Agnelli e glielo dissi: mi raccontò così che si trattava di una scelta legata alla sua condizione di emigrato del Sud, una specie di reazione contro i torinesi di Torino, legati alla squadra granata e mai troppo benevoli con i terroni.

Senza rischio di cadere nelle retorica a buon mercato, in quei pochi giorni passati con lui la cosa che ricordò con maggior affetto è proprio la forte carica umana che portava con sé. Un compagno premuroso, attento agli aspetti emotivi che la lotta politica porta con sè, un compagno che si prendeva cura degli altri, di chi si trovava ancora in carcere, e che aveva un amore viscerale per i libri, consigliandone diversi che ho poi puntualmente letto, capace di ascoltare con grande umiltà, senza fare pesare il proprio immenso bagaglio di esperienze. Ricordo ancora con affetto e stupore la sua chiamata dopo la manifestazione contro il muro antimigranti e le frontiere al Brennero, il 7 maggio 2016, in cui chiedeva come stavamo domandando aggiornamenti sulla situazione. Pensa Sante, adesso per quella manifestazione la procura di Bolzano, dopo aver già regalato alcune decine di anni di galera, chiede oltre 330 anni di carcere per 63 compagni/e. E mi viene in mente una delle tue poesie che amo di più La nostalgia e la memoria che parla della generazione che correva compatta da papà Cervi a consolarlo, a consolarsi, degli operai perseguitati da Scelba e da Valletta, di tutti quelli che nella storia, nonostante le peggiori porcate e infamie commesse obbedendo zelanti alla legge, la passano sempre liscia. Tanti compagni/e rischiano di pagare un prezzo altissimo per non essersi girati dall’altra parte mentre migliaia di persone morivano – e muoiono – in mare o sui passi alpini, contro cui volevano militarizzare un confine con muro annesso. La cosiddetta società, soprattutto oggi, fatica a capire cosa abbia spinto, in passato come oggi, centinaia e migliaia di persone a rischiare la propria libertà per difendere quella altrui. Il motivo, ieri come oggi, è lo stesso che hai descritto in – Comunismo – un’altra tua bellissima poesia: É l’inno all’amore di sempre: per l’uomo sfruttato, inchiodato, calpestato che finalmente dall’officina e dalla prigione alza l’arma e la fronte.

Ciao Sante, grazie. Un brindisi a te

Enzo

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[Lavoro-Bolzano] A proposito del trasferimento del Centro Carni Aspiag

I LAVORATORI NON SONO CARNE DA MACELLO

Già da anni si vociferava di un possibile trasferimento del Centro Carni Aspiag di Bolzano. Ora per il centinaio di lavoratori vi sono impiegati e per le loro famiglie i timori si fanno sempre più concreti.

Attualmente è ancora in vigore il blocco dei licenziamenti ma a partire dal 1 aprile il rischio di rimanere a casa sarà molto alto, come lo sarà probabilmente per moltissimi altri lavoratori e lavoratrici nel resto della penisola.

Mentre la critica alla globalizzazione nel corso del tempo è stata storpiata e inglobata malamente nell’ideologia sovranista, ancora una volta l’evidenza dei fatti ci spinge a ripetere: il nostro nemico è il padrone e la questione è di classe. Non è una questione di ristabilire la sovranità di uno Stato ma di abbattere il sistema capitalistico.

Non è più necessario spostare la produzione nei cosiddetti paesi in via di sviluppo per avere la libertà di sfruttare i lavortori e di massimizzare il profitto sulla loro pelle. Prendendo ad esempio il caso Aspiag di Bolzano, vediamo che è sufficiente spostare la produzione a meno di 300 km, a Monselice. La zona di pianura compresa tra Veneto e Lombardia è nota per le numerose cooperative alle quali grandi aziende si appoggiano per scaricare quel fardello che sono i lavoratori per i padroni ma è anche stata e continua ad essere teatro di lotte determinate condotte dai lavoratori della logistica e in una di queste venne ammazzato da un servo obbediente Abd el Salam nel 2016.

Questo sistema di appalto (che vede coinvolte non solo cooperative in realtà ma anche altre aziende di servizi) permette all’azienda appaltatrice di avere le “mani pulite” continuando a lucrare sulla forza lavoro ingaggiando qualche scagnozzo intermediario cui spetta il lavoro sporco e che a sua volta trasforma lo sfruttamento in profitto.

Si trovano in questa situazione gli operai della logistica Aspiag (assunti da una ditta appaltatrice) di Padova e di Noventa di Piave, i quali -o meglio alcuni di quali- sotto ricatto dell’azienda, devono scegliere se accettare il trasferimento a circa 100 km dal loro attuale posto di lavoro e nuovi massacranti turni o se perdere il posto di lavoro.

Causa comune delle preoccupazioni dei lavoratori Aspiag bolzanini e veneti è Agrologic, nuovo centro logistico sorto a Monselice dove si concentreranno diverse attività. Un polo agroalimentare da oltre 300 mln di euro e 320.000 metri quadrati di superfice per un presentato come innovativo ed ecologico ma che è in realtà un enorme blocco di cemento dedicato alle attività di una filiera che è tra le più inquinanti. Proprio grazie alla costruzione di Agrologic nel 2018 Monselice è risultato il decimo tra i comuni italiani che hanno consumato più suolo e terzo tra i comuni veneti per territorio cementificato.

Le reazioni dei lavoratori e dei sindacati tra Bolzano e Padova-Noventa sul Piave sono state molto diverse: a Bolzano, conoscendo il livello di connivenza della CGIL e puntando sull’isolamento dei lavoratori, i padroni non si sono nemmeno degnati di aprire un tavolo delle trattative per il momento. In Veneto i sindacati in rappresentanza sono CGIL e AdI Cobas. La CGIL, dopo qualche trattativa e qualche briciola, ha lestamente firmato un’accordo di massima, incassando i ringraziamenti e i complimenti di Aspiag che non per niente ha “invitato” i lavoratori a farsi rappresentare dalla CGIL stessa. Molti lavoratori però, consapevoli del ruolo della CGIL di facilitatrice nell’applicazione di queste infami politiche antioperaie, hanno deciso insieme ai Cobas di continuare a lottare per difendere i loro interessi e le loro necessità attraverso scioperi e iniziative pubbliche di fronte ai punti vendita invitando al boicottaggio dei supermercati Despar.

Nello spirito di solidarietà tra i lavoratori e con la consapevolezza che solo uniti si vince, riprendiamo una parte di un comunicato dei Cobas sulla questione:

Chiediamo a tutte/i di mettere in campo iniziative contro la prepotenza di questi personaggi, che pensano di avere il potere di fare tutto quello che vogliono, che distruggono i nostri territori costruendo supermercati ovunque, sfruttano i produttori imponendo il prezzo della merce, fanno morire le piccole attività, che durante la Pandemia hanno incrementato i loro profitti e non portano rispetto nemmeno per i loro dipendenti, che solo un anno fa avevano il coraggio di chiamare eroi. ”

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[Processo Brennero] A proposito del reato di “Devastazione e saccheggio”

Sebbene la manifestazione contro la costruzione del muro antimigranti al Brennero sia avvenuta in Alto Adige ed un gran numero di manifestanti coinvolti siano della Regione, il processo e le esorbitanti condanne richieste non hanno incontrato grande dibattito e – sembra – nemmeno grande interesse. La cosa non stupisce più di tanto in una Provincia in gran parte abituata a ignorare ciò che accade oltre la chiusa di Salorno o il passo del Brennero. A maggior ragione se l’oggetto della discussione sono anarchici, linksradikalen o chaoten come vengono definiti sul Tageszeitung o sul Dolomiten. Tuttavia va rilevato l’assordante silenzio con cui – nella cosiddetta società civile – è stata accolta la richiesta di 338 anni di carcere per una manifestazione che aveva l’obiettivo di rompere l’indifferenza per non dire peggio, con cui gran parte della società viveva il dramma delle migrazioni e della possibile costruzione di un muro che avrebbe segnato un punto di non ritorno.

Il processo istituito dalla Procura di Bolzano attraverso l’applicazione dell’articolo 419 “Devastazione e saccheggio” ha l’obiettivo di cancellare le motivazioni politiche e umane profonde che hanno spinto centinaia di compagni/e a manifestare al Brennero in quella giornata di 5 anni fa. Sta a noi e a chi conserva ancora un briciolo di amore per la giustizia e la libertà, contrastare e rispedire al mittente tale folle disegno accusatorio, costruendo solidarietà, spezzando l’indifferenza e rivendicando quella giornata il cui valore è confermato dagli spaventosi eventi precedenti e successivi che hanno visto crescere una guerra sempre più spietata ai proletari, agli immigrati, ai profughi.

Il Manifesto del corteo al Brennero “Abbattere le frontiere”

Con ogni probabilità, dopo i processi istituiti contro i componenti del Befreiungsausschuss Südtirol (BAS), si tratta – a livello locale – del processo politico del dopoguerra con il più grande numero di imputati e con le richieste di pena più alte. Ricordiamo che per il secondo filone del processo il pubblico ministero Andrea Sacchetti ha richiesto 338 anni complessivi di carcere per 63 imputati/e, arrivando a chiedere 15 anni di carcere (ridotti di un terzo per via della scelta del rito abbreviato) per alcuni compagni.

Come abbiamo scritto già in altri contributi nel presente Blog, i due principali processi istituiti contro 126 manifestanti imputati presenti al confine quel giorno (nel primo processo la sentenza di primo grado ha inflitto 37 anni di carcere complessivi per 63 imputati), hanno un evidente intento politico, che rientra in una prassi repressiva che negli ultimi decenni si è consolidata a livello nazionale e che in tale chiave va letta e analizzata.

Grazie al recente articolo Devastazione e saccheggio: un reato politico da abolire, accusate/i da sostenere, pubblicato da Prison Break Project (PBP), riprendiamo le nostre riflessioni relative al processo per la manifestazione contro il muro antimigranti che si è tenuta al Brennero quasi 5 anni fa, nel maggio 2016.

Le esorbitanti richieste dei PM contro i manifestanti derivano dalla contestazione dell’articolo 419 del codice penale, che afferma:

Chiunque, fuori dei casi preveduti dall’art. 285,commette fatti di devastazione o di saccheggio è punito con la reclusione da 8 a 15 anni. La pena è aumentata se il fatto è commesso nel corso di manifestazioni in luogo pubblico o aperto al pubblico ovvero su armi, munizioni o viveri esistenti in luogo di vendita o di deposito”.

Ma di che reato si tratta? Sebbene sia per noi chiaro come la legge sia la cristallizzazione dei rapporti di forza nella società, è importante conoscere quale è la genesi e lo spirito della legge. Come scrive Prison Break Project:

La sua origine risale al codice fascista Rocco e da allora il reato non ha subito significative trasformazioni, arrivando intatto fino ai nostri giorni con il suo portato di pesanti condanne. Già l’espressione “devastazione e saccheggio” ha il compito di evocare sciagure ed eventi calamitosi, perché no la figura degli sciacalli… insomma un reato nato per fermare i barbari, i nemici della società per i quali non deve essere fatto alcuno sforzo di comprensione delle motivazioni”.

Il reato di “devastazione e saccheggio” nel dopoguerra è stato utilizzato in seguito ai moti insurrezionali scoppiati dopo l’attentato al segretario del PCI Palmiro Togliatti nel 1948 e per le manifestazioni antifasciste contro il Governo Tambroni (che intendeva riportare i fascisti al Governo promuovendo un’alleanza fra Dc e Msi) del 1960.

Poi per molti decenni non è mai stato contestato ed è soltanto a partire dagli anni 2000 che le Procure di mezza Italia hanno iniziato a farvi ricorso, nel tentativo di seppellire sotto decenni di carcere chi ha partecipato a manifestazioni pubbliche in piazza. Destinatari principali di tale accuse, in particolare dopo il processo per i fatti del G8 di Genova che ha visto una decina di compagni/e condannati a pene abnormi (mentre poliziotti e carabinieri responsabili di efferate torture, pestaggi, minacce di stupro e di un assassinio hanno fatto carriera) sono ultras, prigionieri delle carceri protagonisti di rivolte e compagni/e antagonisti. Ricordiamo solo alcune delle manifestazioni per cui negli ultimi anni tale reato è stato contestato: Genova 2001, Milano 2006 (corteo antifascista), Trento 2010 (corteo dopo sgombero Assillo occupato), Roma 2011, Cremona 2015 (corteo antifascista), Milano 2016 (1 maggio NoExpo), Brennero 2016 (corteo contro muro antimigranti), Napoli 2017 (manifestazioni contro Salvini), Torino 2019 (sgombero Asilo). Un caso a parte è rappresentato dall’accanimento repressivo contro il movimento No Tav in Val di Susa per il quale la Procura di Torino ha adirittura imbastito accuse di terrorismo, un altro termine quest’ultimo, il cui significato è stato negli anni distorto e piegato a piacimento ai fini repressivi più abietti.

Nel corso del 2020 caratterizzato dalla Pandemia abbiamo visto inoltre come le Procure non abbiano lesinato arresti, misure cautelari nei confronti di compagni solidali con i carcerati (vedi operazione preventiva contro anarchici bolognesi) oppure contro manifestanti a Firenze, Napoli o Torino. In particolare per le manifestazioni avvenute nel capoluogo piemontese nelle settimane scorse la Procura di Torino agitando lo spauracchio della Devastazione e del saccheggio, aveva richiesto misure cautelari per 37 persone fra cui 14 minorenni. Lo stesso reato viene utilizzato nei processi contro i prigionieri protagonisti delle rivolte nel carcere di Pavia (99 prigionieri sotto processo) o in quello di San Vittore a Milano.

Qual è la pericolosità di un articolo penale del genere? La sua indeterminatezza: la norma punisce il fatto “di devastazione” o il fatto “di saccheggio” ma non ci dice cosa dobbiamo intendere per devastazione o saccheggio.

Come sottolineano i compagni di PBP:

L’evoluzione e la frequenza sempre più vertiginosa del ricorso delle procure a questo reato mostra la sua plasticità e il suo essere profondamente legato all’apprezzamento del singolo giudice o procuratore”.

La genericità e l’indeterminatezza rendono l’articolo 419 un perfetto strumento di intimidazione politica e che si presta perfettamente alla repressione delle manifestazioni pubbliche di piazza, anche laddove non avvengono danneggiamenti significativi, come al Brennero appunto (8.000 euro scarsi di danni complessivi), inscrivendosi nel diritto penale del nemico:

Devastazione e saccheggio” dunque è un reato che si plasma a seconda dell’autore, delle situazioni e dell’interpretazione soggettiva del giudice di turno. Non è tanto, quindi, la dinamica dei fatti a interessare, ma il contesto in cui avvengono e soprattutto l’identità e i valori attribuiti a chi viene accusato.”

Ne consegue che, laddove vi sono imputati processati “devastazione e saccheggio”, ad essere sotto accusa – alla mercè degli umori, delle idee politiche, degli interessi e dei capricci di giudici e magistrati – è l’identità politica dei compagni sotto processo, la loro volontà di lottare e di non rimanere indifferenti alla violenza delle politiche economiche del capitalismo e dei suoi rappresentanti politici.

Riguardo ai recenti arresti di Torino PBP sviluppa una riflessione che vale anche per i compagni sotto processo per i fatti del Brennero:

La vicenda di Torino esplicita anche la necessità di seppellire sotto una dicitura criminogena ogni elemento legato alle motivazioni che hanno spinto certe azioni. La violenza, il furto, il danneggiamento sono sempre “irrazionali” e “inaccettabili”, non ci possono essere comprensioni o cedimenti. Si tratta quindi di un reato che ha l’obiettivo di eliminare ogni possibile spazio alle motivazioni politiche degli autori. È inoltre un’arma particolarmente efficace di punizione politica di determinate situazioni: non interessa dimostrare se l’inquisito è davvero autore dei fatti reato, ma è sufficiente che sia stato presente nel luogo in cui sono stati commessi poiché l’istituto del concorso di persone, specie nella tradizione che si è affermata da Genova in poi, permette di condannare chi in vario modo ha partecipato ai moti collettivi. Per la magistratura che usa questo dispositivo l’indicazione è chiara: “si tratta di criminali e bisogna esclusivamente guardare ai loro danni e malefatte”.

E nel rilanciare la necessità di costruire la solidarietà per tutti gli imputati e le imputate per il corteo al Brennero, facciamo nostre le conclusioni dell’intervento di PBP:

É importante non lasciare sole le persone che vengono investite da questa “macchina da guerra” giuridica. Non solo le e gli imputati, ma anche chi è loro vicino, in termini affettivi, relazionali e politici. Perché un primo passo per inceppare il diritto penale del nemico è evitare l’isolamento e l’abbandono alla demonizzazione mediatica e politica. Se la risposta giudiziaria vuole soffocare le forme di rabbia, magari irruenta e non categorizzabile come “purezza rivoluzionaria”, diventa indispensabile salvaguardare l’espressione del conflitto sociale in questo periodo dove individualismo, indifferenza ed obbedienza rischiano di divenire il pensiero unico.”

Per approfondire: 

Prison Break Project. Costruire Evasioni, sguardi e saperi contro il diritto penale del nemico. Be Press, 2017.

Prison Break Project. Terrorizzare e reprimere, il terrorismo come strumento repressivo in continua espansione.

“Devastazione e saccheggio” Un reato indeterminato

Devastazione e saccheggio. Anatomia di un reato

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[8 marzo-Bolzano] Riassunto delle iniziative in città

Poche ricorrenze come quella della giornata internazionale della donna rischiano di essere inaridite e sterilizzate dalle retoriche istituzionali, capaci di trasformare giornate di lotta in vuote celebrazioni prive di ogni minimo senso critico, destinate ad esaurirsi nel discorso di circostanza, nel regalo della mimosa oppure nell’azione puramente simbolica come la panchina rossa o il posto a sedere lasciato vuoto. Da un po’ di tempo però in tutto il mondo e anche a Bolzano qualcosa si muove: individualità, collettivi e assemblee di diverse tendenze stanno tornando a riempire di contenuti critici e radicali questa giornata. Dall’8 marzo 2015 in cui la giornata era stata dedicata alle partigiane curde con un manifestazione partita da piazza del Grano all’8 marzo 2017 in cui circa 150-200 persone hanno riempito di contenuti piazzetta Marcella Casagrande fino alla manifestazione nel 2019 in cui un oltre un centinaio di donne e uomini attraversò le vie del centro cittadino per un corteo deciso e determinato.

Manifesto del Presidio organizzato nel 2015 in piazza del grano a Bolzano per rispondere alla giornata internazionale di solidarietà chiamata dalle donne curde.

Foto dal presidio in Piazzetta Marcella Casagrande dell’8 marzo 2017

8 marzo 2019 – contro disegni di legge reazionari e misogini e per una lotta intersezionale

Ma la mobilitazione non si è fermata soltanto alla giornata dell’8 marzo: dalle iniziative contro gli antiabortisti davanti all’ospedale di Bolzano (dove si ricordava come di fatto la possibilità di abortire per molte donne sia compromessa per via dell’obiezione di coscienza praticata dal 98% dei medici) fino ai presidi solidali organizzati dall’associazione GEA di fronte al tribunale di Bolzano in solidarietà ad una donna aggredita a coltellate dall’ex marito in strada passando per le mobilitazioni solidali con le donne curde di Afrin, si è tentato di non abbassare mai la guardia di fronte alla questione delle violenze contro le donne. Diffuse poi altre iniziative importanti: dalle presentazioni di libri come quello di Angela Davis a programmi radiofonici con un’impronta di genere come Donne in Tandem, solo per citare un paio di esempi.

Non solo 8 marzo – In piazza in solidarietà con le donne curde di Afrin nel 2018

Ospedale di Bolzano – Presidio contro la violenza degli antiabortisti

Ospedale di Bolzano – Contro la violenza degli antiabortisti giunti di fronte al nosocomio a pregare per i “bambini mai nati”

8 marzo tutto l’anno – tribunale di Bolzano: presidio solidale con una donna vittima di violenze di genere durante il processo al suo carnefice.

Anche quest’anno, nonostante le difficoltà organizzative legate alla pandemia, l’8 marzo a Bolzano vi sono state diverse iniziative che hanno attraversato la città. Un gruppo di compagne e compagni ha volantinato e affisso in giro per la città volantini, striscioni e manifesti contro il patriarcato, e in una riflessione pubblicata su Bolzano antifascista si legge:

Un altro otto marzo. Mano nella mano siamo scese in strada, senza chiedere permessi, senza delegare. Noi non ci caschiamo più! Nessuna riforma nessuna quota rosa, nessuna istituzione ci darà la liberazione. Contro il pink-washing del neoliberismo, agiamo il radical femminismo.”

Si è invece svolto nel più assordante silenzio mediatico, lo sciopero di alcuni lavoratori della Fercam di Bolzano iscritti al Sindacato di Base Multicategoriale – SBM che hanno aderito alla giornata nazionale di mobilitazione astenendosi dal lavoro. Un atto di solidarietà prezioso che vale più di mille parole, dette e scritte.

8 marzo 2021 – Sciopero di alcuni lavoratori della Fercam – Foto presa dalla pagina Facebook del Sindacato di Base multicategoriale

Dalla pagina Bolzano antifascista

Dalla pagina Bolzano antifascista

Altre attiviste, in parte legate a Extinction Rebellion, hanno organizzato un flash-mob molto partecipato in piazza Walther in cui è stato sottolineato come la lotta delle donne non possa essere slegata da una lotta più generale contro patriarcato, capitalismo e devastazione ambientale.

8 marzo 2021 – Una foto dalla protesta in Piazza Walther

Un percorso è iniziato ma i femminicidi così come le violenze sulle donne non accennano a diminuire e per il prossimo futuro sviluppare una critica che sappia intrecciare la lotta al patriarcato ed al capitalismo è fondamentale più che mai, soprattutto in vista di tempi in cui le condizioni lavorative di uomini e soprattutto donne subirà forti attacchi da parte del padronato intenzionato a scaricare sui proletari e sulle proletarie i costi economici della Pandemia.

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[Musica/Repressione] Chi istiga chi? A proposito delle denunce contro i rapper di Sinigo

Sotto questi colpi siamo i maledetti senza via d’uscita dimmi cosa aspetti dal futuro, muro contro muro non ci sta nessuno, c’è chi brancola nel buio più niente è al sicuro sopravvivere senza soccombere è già una freca come l’impero stabilisce chi crepa chi mangia la polvere per terra chi governa chi nasce imputato alla sbarra…                                     

 Lou X “Il mattino ha l’oro in bocca”

To the Brothers in the street, schools and the prisons, History shouldn’t be a mystery. Our story’s real history, Not  his story.

Public Enemy “Fear of a black planet”

Dal quotidiano locale Alto Adige veniamo a sapere che il 7 marzo 2021 i Carabinieri, d’intesa con la procura della Repubblica di Bolzano, si sono presentati con tanto di cani antidroga a casa di uno degli autori di un video Rap, un 22enne di Sinigo, per cercare la pistola giocattolo che veniva usata nel video. Oltre alla riproduzione della pistola i militari hanno trovato anche “una modica quantità di hashish, che ha comportato la segnalazione del giovane al commissariato del governo di Bolzano”. Sempre lo stesso articolo riporta come anche il secondo protagonista del video sia stato identificato e denunciato per “istigazione a delinquere”.

Dall’Alto Adige dell’8 marzo 2021

Cosa è successo per arrivare a tanto?

Per capire le motivazioni di tale “brillante” operazione di polizia bisogna tornare indietro di alcuni mesi, quando alcuni rapper di Merano e dintorni -Fvmille e Lony- pubblicarono su Youtube il video musicale Block Freestyle che suscitò numerose reazioni pubbliche.

Già allora, per via della presenza nel video di alcuni giovanissimi, si attivò la Procura dei minori ed il 18 ottobre 2019 vennero disposte delle perquisizioni nelle case di alcuni ragazzi in cerca della pistola giocattolo utilizzata nel video.

Si scomodò adirittura l’assessore provinciale Giuliano Vettorato della LEGA -partito noto per le sue posizioni xenofobe – per “annunciare controlli con i servizi sociali e le eventuali scuole frequentate dei giovani protagonisti del video”. Va da sé che se i protagonisti del video non fossero stati di origine tunisina, marocchina o albanese con ogni probabilità non ci sarebbe stata tanta attenzione. 

Dopo la breve tempesta mediatica che attraversò le case popolari di Sinigo circa un anno e mezzo fa, verso la fine dello scorso febbraio viene caricato, sempre su Youtube, un altro video: “La fame” di Kash. Girato sulla falsariga del primo, racconta a suo modo la realtà vissuta da un gruppo di giovani che hanno scelto i versi del Rap per esprimere la propria rabbia e il proprio vissuto che certo non rispecchia l’Alto Adige da cartolina turistica, quello frequentato da ricchi italiani o tedeschi che vanno sciare in val Badia oppure sulle piste di Plan de Corones, pernottando presso lussuosi chalet. I loro versi raccontano una realtà sommersa costantemente criminalizzata, distorta, negata, che non conosce cronisti o reporter: familiari in carcere, l’esperienza della detenzione conosciuta o raccontata da altri, lavoro senza contratto, chi cerca di sbarcare il lunario in modo extralegale. Un proletariato che vive nei palazzoni dell’Ipes le cui origini sono rappresentate dalla bandiere che espongono nei loro video: Tunisia, Marocco, Albania o Kurdistan: “Ho fratelli di tutti i colori, di tutte le nazioni” canta Kash ne “La fame”. Sono dei video che fanno conoscere una realtà piena di contraddizioni e sconosciuta al “grande pubblico”, che ha trovato nei versi musicali il modo di raccontare se stessi e che ha trovato nell’immaginario di una certa scena della cultura Hip-hop -che piaccia o meno- un riferimento, un’ispirazione.

Il contenuto dell’ultimo video in particolare ha fatto sbroccare il consigliere provinciale di Fratelli d’Italia Alessandro Urzì il quale, come di consueto, attraverso i suoi post su Facebook ha completamente falsificato la realtà cercando in ogni modo di cavalcare e fomentare paura per raccattare consenso fra i residenti delle case IPES ed in generale di tutta la popolazione spingendosi in ardite ed assurde interpretazioni di situazioni che dimostra ampiamente di non conoscere. Interventi che dimostrano bene a cosa si può spingere la propaganda pur di tirare su due voti in più.

Basta riportare alcuni stralci del suo intervento su Facebok, a tratti davvero delirante:

E’ paura per i cittadini meranesi che vi hanno riconosciuto i garage e le cantine delle proprie case, palazzine Ipes, in cui sono state girate con grande professionalità queste scene che ritraggono, all’ombra di simbologie islamiche, un numeroso gruppo di ragazzi, uno mascherato con passamontagna che cede una pistola (non si vede l’estremità della canna e quindi non si vede se si tratta di una pistola autentica o di una riproduzione con il tappo rosso, che la qualifichi come giocattolo). […] Ho richiesto un intervento urgente dell’Istituto perché avvii una indagine interna sull’episodio che ora denunciamo, che siano informate le forze dell’ordine e ripristinato un clima di convivenza decoroso anche per rispetto di tutti i cittadini per bene che vivono nel rione e in particolare nei complessi Ipes”.

Bisognerebbe ricordare al signor Urzì che se c’è un partito che negli anni ha costruito consenso proprio attraverso l’istigazione all’odio ed alla discriminazione verso profughi, immigrati, dissidenti e altre minoranze è proprio Fratelli d’Italia, un partito fascistoide e nostalgico che, insieme alla LEGA di Salvini ha basato il proprio successo sulla paura e sulla guerra fra poveri. Un partito i cui membri non hanno nulla da insegnare a nessuno, sotto ogni punto di vista.

Naturalmente non poteva mancare un intervento della LEGA di Salvini, ed una sua consigliera provinciale, la meranese Rita Mattei, si è preoccupata di informare la presidentessa dell’IPES Francesca Tosolini, con cui ha fatto una visita presso le case in cui è stato girato il video incriminato. Anche riguardo alla LEGA si potrebbero scrivere migliaia di pagine sulla sua sistematica e scientifica istigazione all’odio verso stranieri, dissidenti politici, sinti, rom, che è stata portata avanti dai profili social di Matteo Salvini e dei suoi tirapiedi locali nel corso degli anni. Basta scorrere i commenti nelle pagine social dei leader dell’estrema destra Salvini e Meloni per comprendere chi siano davvero gli istigatori in questo Paese. Ad ogni modo va rilevato come non appena delle persone che provengono da case popolari facciano musica in un modo non ortodosso e non gradito alla narrazione ufficiale, i politici razzisti facciano subito leva sul ricatto economico e sociale: “chiederemo un inchiesta all’Ipes” minacciando così l’intera famiglia. Un modo per ricattare non nuovo e che a Trento ha visto la LEGA proporre di sfrattare l’intero nucelo famigliare dalle case popolari qualora uno dei figli -ad esempio- si renda responsabile di reati.

Ma in tutto ciò, la Procura decide di portare avanti una grottesca operazione poliziesca-spot ripresa dalla grancassa mediatica contro due giovanissimi rapper cresciuti nelle case popolari di Sinigo autori di un video musicale che rappresenta delle scene recitate, ed imbastire una fantomatica e fumosa accusa di istigazione a delinquere che sembra più che altro utile e funzionale a soddisfare la sete di repressione di ampi settori della società sudtirolese di entrambi i gruppi linguistici.  Un rancore seminato ad arte negli anni che aumenta nel momento in cui a prendere la parola sono dei ragazzi di origine straniera ma cresciuti qui e che hanno deciso di cantare alternando italiano, arabo, albanese o tedesco il proprio disagio per la propria condizione nella “migliore e più ricca delle province”. Una voce dissonante che viene dal basso; da ascoltare e da difendere contro ogni volontà di criminalizzazione da qualsiasi parte esso provenga: dalle aule dei tribunali o dai politici più reazionari.

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[Repressione] Tribunale di Bolzano: Carcere per chi manifesta

Il Tribunale di Bolzano condanna al carcere chi manifesta

La repressione è il nostro vaccino! Repressione è civiltà!

Gian Maria Volontè in:

Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto

Se tu penserai e giudicherai, da buon borghese, li condannerai a cinquemila anni più le spese

Fabrizio de André “La città vecchia”

Giovedì 4 marzo 2021 nelle aule del Tribunale di Bolzano, sotto la scritta la legge è uguale per tutti ed un grande crocifisso il giudice Ivan Perathoner ha condannato 10 compagni/e ad 1 mese di carcere ciascuno per aver partecipato ad una contestazione contro la Lega. Ad alcuni il signor giudice ha negato la condizionale. Tale sentenza si inserisce in un clima pesantissimo dove magistrati e giudici del Tribunale di Bolzano, su indicazione dell’ufficio politico della Questura cittadina ed altre pressioni, stanno tentando di reprimere le poche voci di dissenso esistenti in una città tanto benestante e borghese quanto spesso cinica e indifferente riguardo alle montanti ingiustizie che sempre più aumentano ed alla propaganda verso i più deboli – economicamente e socialmente – che è diventata da tempo sistema di governo e costruzione del consenso politico, a livello nazionale e interazionale come a livello locale.

Per il presidio nella foto il giudice Perathoner ha inflitto un altro mese di carcere ad ogni partecipante

Alcuni mesi fa sempre Perathoner ha inflitto altri due mesi di carcere a una decina di manifestanti antifascisti che nel dicembre 2018 in via Torino a Bolzano avevano contestato la presenza in città del leader neonazista Roberto Fiore, un personaggio a dir poco torbido in passato implicato nelle peggiori trame che hanno attraversato l’Italia degli anni settanta, venuto in città per la sua propaganda politica.

Il giudice Ivan Perathoner ha condannato 10 compagni/e a 2 mesi di carcere ciascuno per questa manifestazione

Oltre a ciò non c’è volantinaggio, presidio o altro che non sfugga e per i quali una certa parte della Procura è mobilitata, pronta ad aprire fascicoli e procedimenti contro chiunque capiti a tiro ed abbia la malaugurata idea di partecipare ad un presidio di lotta.

Da rilevare inoltre come nella stessa Procura altri novelli Torquemada come il Procuratore generale Giancarlo Bramante (il quale non ha ancora ufficialmente chiarito i suoi rapporti con l’intrallazzatore ex magistrato del CSM Luca Palamara, poi radiato dalla magistratura) coadiuvato dai colleghi Andrea Sacchetti e Igor Secco si inseriscano nello stesso filone repressivo tentando di far condannare a pene esorbitanti e volutamente sproporzionate, i manifestanti che nel maggio 2016 hanno partecipato alla manifestazione contro la costruzione del muro antimigranti al Brennero, avvenuta in un periodo particolarmente pesante in cui la propaganda di odio della Lega e dei neofascisti contro immigrati e profughi aveva raggiunto livelli parossistici (anche se il peggio doveva ancora arrivare, come dimostrato dall’esperienza di Salvini al ministero dell’Interno). Per tale giornata di lotta nel primo filone processuale, in cui una sessantina di compagni/e erano imputati di reati più o meno lievi, le condanne di primo grado sono state tuttavia pesanti (dai 7 ai 12 mesi a testa), considerato che di fatto è stata condannata la semplice presenza a tale manifestazione, sulla base di fotogrammi in cui in alcuni casi per un certo momento c’era chi aveva la sciarpa sul viso per coprirsi dal fumo velenoso dei lacrimogeni.

Nel secondo filone un’altra sessantina di compagni/e sono imputati di vari reati – fra cui devastazione e saccheggio: tipo di reato indefinito che a livello europeo esiste solo in Italia – per i quali l’accusa ha richiesto pene fino a 15 anni di carcere (ridotti di un terzo per via della scelta del rito abbreviato) e per cui la sentenza è prevista a maggio. Va da sé che siamo di fronte ad un processo con evidente obiettivo politico e sarà importante lottare per rompere l’agghiacciante silenzio esistente intorno a tale procedimento di sapore inquisitorio e per impedire che passino tali folli richieste.

Certamente non ci si può aspettare molto di diverso da chi deve per contratto – a maggior ragione in tempi di pandemia – difendere gli attuali rapporti di forza in una società in cui i ricchi diventano semprano più ricchi ed in cui i poveri, oltre ad essere sempre più poveri, vengono sistematicamente privati di ogni strumento di lotta e repressi proprio dalla magistratura in ogni minimo tentativo di riscatto sociale. Tuttavia è importante portare a galla alcuni ragionamenti e riflessioni che possono apparire scontati ma per molti, soprattutto oggi, non lo sono affatto.

La Lega di Matteo Salvini ed uno dei suoi seguaci bolzanini Filippo Maturi è un partito che da anni costruisce consenso sul generale imbarbarimento della società indirizzando la rabbia dei proletari italiani contro altri proletari. Alcuni anni fa il nemico erano i terroni, poi è arrivato il turno degli albanesi, poi la responsabilità è stata scaricata sui profughi delle guerre che gli stessi leghisti hanno voluto e votato. Come non ricordare le campagne infamanti contro i musulmani? Abbiamo buona memoria e ricordiamo ancora come i leghisti regionali protestarono contro la possibile apertura di una moschea in via Macello abbuffandosi di mortadella e prosciutto davanti alle telecamere insieme al fascista Borghezio. Oltre a ciò nel corso degli anni un leit-motiv leghista è stata la costante violenza contro omosessuali e minoranze etniche, la criminalizzazione di ogni sciopero, protesta, occupazione e campagna antirazzista; in generale di ogni movimento sociale dal basso. Come non ricordare inoltre le modalità di raccattare consenso di Maturi attraverso le idiozie pubblicate sui propri profili social? Dalle raccolte firme contro il Wi-Fi libero che causava assembramenti di immigrati alle delazioni che portavano allo sgombero di alcuni senzatetto dalle scuole Pascoli la lista di porcherie è lunga.

Scendere in piazza contro dei ciarlatani (fra cui Kevin Masocco la cui considerazione delle donne è ben dimostrata dal modo in cui parlava di una Dj tanto bella “da stuprare”) che seminano quotidianamente falsità e odio verso i poveri e che nel giorno in cui i compagni sono scesi in piazza contro di loro, chiedevano la castrazione chimica, è il minimo. Ma evidentemente per Perathoner o chi per lui il problema è la procedura, non è importante la sostanza, la cosa non ci meraviglia affatto ça va sans dire. Puoi anche fare la raccolta firme per la segregazione razziale purchè tu rispetti gli accordi con la Questura. Se ti chiami Matteo Salvini o Giorgia Meloni, sei potente ed hai consenso, attraverso i tuoi social puoi esporre al linciaggio pubblico il nemico del giorno (immigrati, oppositori, manifestanti) per anni, e stai pure sereno: nessuno dei zelanti giudici tanto ferrei contro chi si autoorganizza e lotta, da buoni interpreti della teoria del diritto penale del nemico, ti disturberà. Sembra una banalità dirlo ma è proprio vero l’adagio popolare che dice come “la legge si applica per i nemici e si interpreta per gli amici”.

Da alcuni anni a questa parte oltre agli anarchici – tradizionalmente nel mirino delle autorità di ogni epoca e contro cui agiscono spesso in modo preventivo – sindacalisti di base, militanti politici antagonisti come autonomi e NO TAV, ad essere oggetto delle attenzioni di zelanti procuratori ad ogni latitudine sono coloro che si adoperano per aiutare gli immigrati. Da una parte vere e proprie campagne mediatiche pubbliche di inaudita violenza contro i cosiddetti “buonisti” (cioè coloro che non si uniscono alla guerra ai poveri) che aiutano la cosiddetta “invasione”, dall’altro procuratori che imbastiscono inchieste come quelle condotte contro le ONG che salvano uomini, donne e bambini nel Mediterraneo o che, come recentemente accaduto a Trieste, hanno visto la polizia perquisire le abitazioni di Lorena Fornasir e Gian Andrea Franchi, conosciuti per le loro azioni di solidarietà nei confronti dei migranti provenienti dalla rotta balcanica. L’accusa mossa a loro ed all’associazione di cui fanno parte – Linea d’ombra- è di favorire l’immigrazione clandestina.

In generale è evidente come esista una generale volontà politica di intimidire quei pochi compagni combattivi che si organizzano per resistere a condizioni sempre più difficili per proletari di ogni colore e nazione. A maggior ragione nei tempi attuali – e probabilmente a venire – quando gli effetti della pandemia sull’economia verranno scaricati sulla classe lavoratrice e in generale sulle fasce sociali più deboli e con poca forza contrattuale rispetto alle organizzazioni dei padroni ed alla grande borghesia, impegnate a spartirsi i miliardi del Recovery Found, operazione per cui è stato chiamato Draghi al Governo.

La repressione nei confronti dei compagni e delle compagne condannati dal giudice suddetto del Tribunale di Bolzano va inserita in un quadro generale che vede gli spazi di dissenso sempre più stretti, a maggior ragione per chi non accetta e non accetterà le politiche capitaliste con cui viene gestita la pandemia e con cui verrà gestita la pandemia e le sue conseguenze sociali, economiche e politiche. Si annunciano tempi difficili in cui risulterà fondamentale la capacità di costruire solidarietà fra i proletari e in generale fra gli sfruttati, di fronte agli attacchi che arrivano e arriveranno da più parti.

Non lasciamo soli i compagni e le compagne che sono stati condannati da procuratori e giudici del Tribunale di Bolzano.

Contro la repressione costruiamo la solidarietà

Non lasciamo passare queste vergognose intimidatorie operazioni repressive secondo le quali manifestando il proprio dissenso verso chi pratica politiche razziste e di oppressione sia possibile finire in carcere.

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